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Dell’arte di Giorgio Barbarelli

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Dell’arte
di Giorgio Barbarelli

Un libro esegetico intorno all’opera misteriosa di Giorgio Barbarelli da Castelfranco, notevolissimo per abondanza di idee e per calore di linguaggio, è passato sotto silenzio in Italia dove la così detta «critica d’arte» professano frivoli dilettanti di letteratura amena o aridi compilatori di cataloghi e ricercatori di documenti notarili: privi gli uni e gli altri d’ogni sentimento della Bellezza e pur d’ogni capacità a comporre secondo grammatica il più semplice ordine di parole.

Angelo Conti, l’autore del libro, aveva già in varie occasioni enunciato i principali aforismi della sua dottrina estetica e in una succinta e densa Introduzione a uno studio sul Petrarca aveva già dato un ottimo saggio del suo metodo critico determinando i caratteri essenziali della poesia lirica ed estraendo imprevedute significazioni da quella musica infinita in cui i simboli petrarcheschi perdono sovente i precisi contorni e si dilatano oltre i limiti della parola. Ora, in questo studio su Giorgione, egli svolge tutta quanta la sua teoria e la illustra con viva splendidezza di stile.

«Il critico può sentirsi uno con l’artista e col suo lavoro, può ricrearlo, dargli la seconda vita, può dire con l’orgoglio di Fichte: – Io creo Dio!» In queste frasi, gonfie di un’enfasi non insolita, Francesco De Sanctis rivelava un giorno la sua ambizione di critico possente. Non diversa è l’ambizione che riscalda il nuovo esegeta.

Sdegnando le ricerche pazienti e anguste dei classificatori, egli vuole esaltare l’officio della critica alla dignità suprema. Penetrando oltre le qualità esterne su cui s’arresta l’indagine dei più egli aspira a sorprendere e a rivelare il mistero sacro della genesi artistica, e quindi a enunciar chiaramente la risposta che ogni opera d’arte nel suo proprio linguaggio all’ansioso e instancabile grido umano.

«Il critico è la coscienza dell’artista» egli scrive. «All’artista, che nel lavoro obbedisce ad un comando misterioso della natura, il critico parla spiegandogli il suo mistero. Il critico, nel render chiara la coscienza dell’artista, prepara l’opera dell’avvenire. Accanto all’artista egli non è solamente un comentatore; ma, in maniera indiretta, un collaboratore. Critico ed artista vogliono, in fondo, la medesima cosa: rispondere a ciò che gli uomini, con desiderio instancabile, chiedono alle intelligenze del mondo e alle virtù sovrumane, agli idoli perituri e alle stelle immortali. L’artista offre alla umanità assetata il simbolo consolatore, l’imagine d’una idea di verità e di bellezza, una speranza di liberazione e un istante di pace. Il critico illumina quel simbolo, dinanzi all’attività dell’intelletto curioso e ansioso, mostra a che tenda la potenza del genio, in rapporto alla volontà nella natura. Egli è la voce e la parola del mistero

Così ripudiando il metodo biografico praticato dal Sainte-Beuve come quello sociologico e geografico praticato dal Taine, egli considera l’opera d’arte in sé, fuori del tempo, non soltanto isolata dall’esistenza comune, ma anche distaccata dall’esistenza particolare dell’artefice che l’ha prodotta; egli la considera come un grande specchio solitario in cui le cose del mondo perdono la loro forma mutevole e caduca apparendovi nel loro significato intimo col loro carattere non più relativo ma fisso nell’eternità della vita. In somma, se la cronaca e la storia rispecchiano le figure passeggere, l’arte rispecchia la specie, l’alta specie di cui parla Giacomo Leopardi. E quindi le azioni quotidiane, le comuni azioni dell’esistenza, frutto dell’eredità e del temperamento, non hanno pel nostro critico alcuna affinità con l’arte, fiore purissimo della vita, e non aggiungono e non tolgono nulla alla personalità dell’artista, la quale risulta unicamente dalle opere. «In ogni artista c’è un uomo il quale più o meno somiglia a tutti gli altri uomini. Non solo; ma in una vita d’artista non c’è mai armonia tra il fatto dell’esistenza quotidiana, tra le innumerevoli miserie giornaliere e le aspirazioni e le visioni cui egli forma nelle opere. Nelle prime vive un individuo, non dissimile dagli altri che compongono la moltitudine umana; nelle seconde rivive il genio creatore dell’umanità.

Qual è dunque la differenza tra un fatto comune dell’esistenza e un’opera del genio? È semplicemente la seguente; il primo ha caratteri di somiglianza e d’identità con tutti gli altri fatti degli uomini; il secondo porta la sua speciale impronta di luce: lo stile

Lo stile dunque, essendo il segno dell’idea, è l’unico mezzo che l’artefice abbia per manifestare quella nella sua opera. Lo stile imprime alle forme un carattere che si sovrappone alla loro realtà esteriore, la purifica e la innalza. L’artefice, qualunque sia lo strumento di cui si serve, non può raggiungere la suprema espressione di ciò ch’egli sente e di ciò ch’egli pensa se non con lo stile; che è appunto il simbolo perfetto, l’indistruttibile impronta del genio su la materia dominata.

Ora ben si può intendere come pel nostro critico lo stile, compreso e definito in tal modo, non sia soltanto la nota distintiva d’un individuo, il contrassegno di una età ma la nota universale ed eterna dell’arte, e quindi nei capolavori non rivesta il carattere dei tempi ma appaia liberato da ciò che è mutevole, sostanzialmente identico e nella Grecia e nel Quattrocento; cosicché l’apoteosi d’una vergine, figurata da Pisanello nel rovescio d’una sua medaglia mantovana, possa sembrare un puro sogno dell’arte ellenica.

Posti questi principiisvolti nel libro con molta ricchezza di pensieri affini e talvolta anche con qualche prolissitàAngelo Conti si accinge a penetrare col foco del suo amore «l’alto enigma umano che porta il nome di Giorgione». Il dolce filosofo non poteva scegliere un soggetto che, pel suo carattere misterioso, meglio valesse a fornirgli motivi di belle meditazioni platoniche. Di Giorgio Barbarelli non si sa quasi nulla. Una Moèra oscuramente velata presiede alla sua natività e al suo trapasso. I documenti che lo riguardano, rinvenuti dagli eruditi negli archivi di Venezia e della Marca Trivigiana, non portano alcuna luce su l’esistenza mortale del magnifico artefice. Una breve epistola d’Isabella d’Este – di quella luminosa principessa in cui la passione della Bellezza era così ardente che dovunque la fama le indicasse la presenza d’un’opera singolare ella inviava messaggi per averla – una breve epistola datata da Mantova (xxv oct. Mdx) ha fornito ad Alessandro Luzio il modo di accertare l’anno e il mese della morte di Giorgione contro l’errore del Vasari. Null’altro si sa. E taluno, fra tanti dubbii, giunge fino ad affermare che il pittore di Castelfranco sia un parto della favola e che si debbano restituire ad altri artisti pur quelle pochissime opere rimastegli attribuite dopo le severe esclusioni dei critici dotti.

Una tale oscurità impenetrabile è ritenuta da Angelo Conti come «una vera fortuna», poiché allontana la ressa fastidiosa degli eruditi dall’opera che egli vuol contemplare in serena e tacita solitudine. Ma, a dire il vero, la fortuna sta in questo: che appunto l’atmosfera mitica e quasi di sogno in cui Giorgione sembra respirare come un semidio in una nuvola ignea, è favorevole alle imaginazioni del poeta e del filosofo, permette le più sfrenate ebrezze del pensiero e del sentimento, protegge il rifiorir primaverile delle più pure idee che siensi mai dischiuse al sole della Grecia nei paradisi uranii di Platone.

L’adoratore della Madonna di Castelfranco fu certo anch’egli a convito con Pausania con Fedro con Erissimaco e con gli altri, e ricevette dalla bocca di Socrate il verbo di Diotima manifestato in una maniera plastica e vivente. «Quello che sia stato educato sin qui alle cose di Amore, contemplando via via i belli oggetti, pressoché alla mèta oramai della via di Amore, scorgerà a un tratto un bello meraviglioso di sua natura, un bello che è sempre, e non nascemuore, non crescescema, non è per una parte bello per un’altra brutto, ora bello ed ora no, bello in un rispetto e brutto in un altro, qui bello, brutto. Né il bello apparirà figurato nelle forme o d’un qualche volto o di mani o di altro che partecipi del corpo; né è un qualche pensiero od una conoscenza; né è in un altro, come in un animale o in terra o in cielo, né in alcun altro luogo, ma esso è da sé e in sé, uniforme ed eterno; e tutte le cose belle rimanenti partecipano di lui per siffatto modo che, nascendo e morendo le altre cose, esso non diventamaggioreminore, e non ne patisce nulla. Sicché, quando uno risalendo dalle cose di quaggiù cominci a vedere cotesto bello, allora si può dire che tocchi la mèta. Giacché tale è il procedere nelle cose di Amore o l’esservi da altrui condotto: – movendo dai belli sensuali di quaggiù salire sempre sempre attratto dal bello di lassù, elevandosi come per gradi, da uno a due e da due a tutti i bei corpi e dai bei corpi ai bell’istituti, e dai bell’istituti alle belle discipline, e dalle discipline terminare in quella disciplina che di altro non è disciplina se non appunto di quel bello; e terminando conosca ciò che è per sé bello. Questo, se altro mai, – disse l’ospite di Mantinea – è il punto della vita degno che l’uomo ci viva, contemplando il bello in sé…»

Questa assunzione graduale dello spirito verso l’idea suprema, d’innanzi all’opera d’arte visibile e tangibile, è consueta nell’interprete di Giorgione. Considerando il quadro che è la gloria di Castelfranco, egli vede in Liberale e in Francesco, nel giovine guerriero e nel monaco penitente, non due persone ma due idee, due simboli di bontà e di forza; nella Vergine egli adora la più alta rappresentazione dell’eterno feminino, la creatura ideale che sollevata fuori del mondo contempla con uno sguardo intimo lo spettacolo della sua propria anima dove, per usare la parola di Leonardo, la luce non può mai cacciare in tutto l’ombra; nel paesaggio infine egli giunge a discoprire la visione annunziatrice del mondo moderno, l’epifania dell’arte che si rinnova. Ed ecco, in fatti, il moto mentale per cui dalle forme sensibili egli assorge a tale altitudine di significazioni astratte. «A sinistra un castello dell’età medioevale, un ricordo della tirannia e della barbarie, come nel Battesimo di Giovanni Bellini; a destra un tempio e alcune rovine della luminosa civiltà greca; in mezzo la eterna giovinezza delle piante e del mare. Come nei grandi capolavori del genio, quest’opera d’arte contiene un annunzio che concorda con la maravigliosa intuizione del secondo Faust. Due mondi si fondono in quella misteriosa e lontana Atlantide, in quell’isola che riappare in fondo alla Festa campestre. Il Goethe, figlio della critica filosofica, sapeva forse quel ch’egli faceva, e disse la parola nuova, perché la volle dire. Giorgione, vera anima profetica, obbedì ad una aspirazione della natura e del mondo, e non vide la profondità del suo linguaggio. Tutto ciò che il Goethe ha, con un lungo lavoro d’intelletto e di imaginazione, scoperto nell’arte moderna, il pittore lo ha espresso con potenza istintiva e inconsapevole. Così, nella Tempesta di casa Giovanelli, egli ha creato tre figure umane cui daranno i secoli avvenire nell’ultimo poema il nome di Fausto, Elena ed Euforione.

Con questo fondo dipinto da Giorgione, nasce il paesaggio moderno, la più completa idealizzazione dello stile, la prima e quasi perfetta espressione musicale dei colori e delle forme. Giorgione è tutto qui, in questa forza che lo incatena alla terra, e in questa musica larga e profonda ch’egli ascolta nell’intimo e che lo attira lungi dal mondo. Il quadro di Castelfranco esprime questa intima e feconda contraddizione dello spirito che, superando i confini dell’età, ricongiunge nell’opera geniale il passato con l’avvenire

Simili sforzi per imporre all’ardente sensualità della pittura giorgionesca un velario di idealità sovrumane sono frequentissimi in tutto il libro. Per il poeta, divorato da un bisogno metafisico non estinguibile, ogni gesto delle belle e fiere persone create dall’artefice diventa evocatore: indica o annunzia un prodigio, promette o apre un mondo sconosciuto. In ogni piega degli ammanti, in ogni piastra delle armature, in ogni cavo delle nudità egli trova un’affermazione rivelatrice. Dalla campagna voluttuosa e muta, sparsa di rovine o di casolari, rinfrescata dalle ombre o dalle fonti, egli vede salire un vapore spiritale che talvolta si addensa come una nube e nasconde la nobile grazia delle giovinezze umane quivi intente a godere i beni della vita. Dalle chiome aeree degli alberelli egli scote una polvere di pensieri fervida come un polline, e la riceve sul suo capo reclinato.

Riesce Angelo Conti per tali modi a mostrarci la vera essenza dell’arte giorgionesca? È lecito dubitarne. Ma che importa? Noi non ci troviamo forse davanti a Giorgione, ma certo davanti a uno spirito eletto il quale, pensando e sentendo con profonda sincerità, cerca di comunicarci con tutte le virtù della parola le emozioni da lui provate al conspetto di quelle forme della Bellezza che per lui rappresentano la più pura e più luminosa manifestazione della vita. Non ci offre egli così un piacere assai superiore a quello che ci potrebbero dare alcune pagine di documentazione scientifica precise e fredde? Leggiamo il capitolo in cui egli comenta e illustra la formula di quello stilista delicato e ricco che fu Walter Pater, morto di recente, ignoto in Italia fino a oggi: – All art constantly aspires towards the condition of music, tutte le arti aspirano costantemente a raggiungere la condizione di musica. – Qui la tendenza metafisica, che è in lui così forte, trova il suo natural campo. Ed egli scrive la sua più fulgida ed eloquente prosa, quando cerca di comprendere l’aspirazione musicale che si eleva dalle pitture del terzo Bellini, del Barbarelli e di quel peregrin Gentile da Fabriano che portò sul silenzio dell’acqua un’eco delle consolanti musiche diffuse per l’oro dei crepuscoli umbri. «Gentile da Fabriano è il primo che a Venezia presenti una sua visione del mondo come armonia di colore e di forma. Il contemporaneo Pisanello ha un ideale coloristico diverso da quello di Gentile da Fabriano e di Giovanni Bellini. La musica in lui, nascendo dalla pura linea, si ferma all’accordo dei colori, e non passa nella fusione dei toni, né s’innalza al grado d’una vera sinfonia. In Pisanello, come in alcuni fiorentini del secolo XV, il colore fa parte del disegno e non avvolge come ne’ veneziani in una calda atmosfera le forme. Per fissare l’idea in due parole dirò che in Pisanello il colore circoscrive e in Giovanni Bellini circonfonde.

Gentile da Fabriano a quanti conoscono la famosa Adorazione dei Magi, che si conserva a Firenze nella Galleria dell’Accademia, appare il primo musicista della pittura. La religiosa Umbria, che ha un carattere così diverso da quello che le ha dato il Carducci nel suo Clitumno, la regione ove le albe sono una festa di canti aerei di rondini e d’allodole, e i tramonti han luce di prodigio, lasciò un ricordo di cieli ampi e di campagne fiorite nell’anima del maestro del primo Bellini. Sotto il fulgore del sole veneziano le visioni dell’arte religiosa del paese nativo gli ritornarono come canti lontani, echi della giovinezza, accompagnati dal loro natural fondo di paese: cieli quieti o accesi da lampi in vetta alle colline, tramonti di gloria, sere animate dal coro delle campane nella gran valle umbra, monti salienti come implorazioni degli uomini verso le prime stelle.

In Gentile da Fabriano l’armonia del colore è un ricordo di pace; e da ciò solo può capirsi la ragione per la quale si sono accompagnati a lui i tre spiriti religiosi dei Bellini

Vorremmo trascrivere ancóra le pagine che seguono, piene di felici intuizioni espresse col più vivo linguaggio della poesia. Qui, come in tutto il libro, corre tra linea e linea una sottil fiamma d’entusiasmo che si comunica al lettore fraterno e lo conquide. L’arte vi ha qui ad ogni passo le sue laudi come la suprema religione e la suprema consolazione degli uomini, come l’unica tregua con la quale la natura interrompe il dolore umano, come la fresca oasi che appare un istante e dilegua nel deserto del mondo.

E intorno all’essenza dell’arte, nell’epilogo del libro, il filosofo enuncia verità che noi vorremmo meditate da quanti oggi scambiano l’arte con la riproduzione fotografica delle cose. Non senza compiacimento vediamo sviluppato in questo epilogo denso un pensiero già da noi espresso in un sol verbo e non compreso o mal compreso dai più. «Intorno all’essenza dell’arte, un modernissimo ha scritto, nella prefazione al suo ultimo libro, che l’opera artistica, per esser perfetta, deve non imitare, ma continuare la natura. Queste parole sono sembrate incomprensibili ad alcuni scrittori; e sono invece il programma dell’arte di tutti i tempi. L’artista alla vigilia del capolavoro si è già trasformato, si è già identificato con la natura; egli opera senza coscienza, è uno strumento cieco mosso da una mano invisibile. Ma la natura che per sé sola non può giungere alla idea, come con le sue forme non può giungere allo stile, aiutata dall’artista vede realizzato ciò che era nelle sue aspirazioni, e si vede superata nell’opera del genio. Il capolavoro del genio è la natura continuata nelle sue aspirazioni verso la bellezza

Ora s’intende bene come – per dare il carattere esterno a questa continuazione ideale, a questa proiezione della vita verso l’idea – l’artefice non abbia altro mezzo che lo stile. Soltanto lo stile può rendere le forme di un’opera d’arte superiori alle forme della natura e fissarle per l’eternità.

Ma, poiché lo stile fu creato dai Greci e poiché esso ricorre spontaneo alla mano d’ogni sommo artefice sul punto di generare e imprime i suoi caratteri ad ogni capolavoro in ogni tempo, appare evidente che anche l’arte futura dovrà la sua elevazione al rinnovato insegnamento di quelli antichi maestri i quali riuscirono ad esprimere nella forma più alta e più pura tutti i pensieri e tutte le aspirazioni di nostra stirpe.

Per ciò lo scrittore in più luoghi del suo libro mostra di inginocchiarsi innanzi ai simulacri d’Omero, di Fidia, d’Apelle, di Eschilo e di Platone; per ciò egli leva i suoi più fervidi inni ai primi creatori della Bellezza, ai primi dominatori della Natura. Ogni rinnovamento non è per lui se non un ritorno dell’antico spirito. «Nel Quattrocento la Grecia ritorna; e mentre Giovanni Bellini nel Battesimo di Vicenza rivede Apollo, a Giorgione nel quadro di Dresda riappare Venere, chiusa ancora nel sonno delle età che non seppero riconoscere il suo impero. Sempre la Grecia si risveglia in fondo all’anima umana, nei momenti fortunati della vita; sempre la vita si rinnova e fiorisce come in quella meravigliosa primavera dell’umanità

Questa idea è il cardine dell’opera; questa idea accompagna lo scrittore dalle prime pagine alle ultime. Egli riconosce che non è un’idea nuova, perché è di tutti; ma ha voluto ripetere sotto una forma inattesa la vecchia esortazione: Torniamo all’antico! «Tutte le speranze d’una prossima vita nuova sono fondate nella forza di desiderio con la quale gli uomini affretteranno questo ritorno» egli scrive. E un chiarore di fede illumina la sua ultima pagina; poiché egli confida che, dopo il lungo autunno, vedremo rifiorire la pianta meravigliosa alla luce che inestinguibilmente diffondono gli avanzi del Partenone. «La profezia virgiliana ritorna spontanea su le labbra di tutti e ci annunzia che noi stessi forse prenderemo parte alla vita di domani: del domani che sarà l’avvenire

Tale nella sua essenza questo libro di esegesi e di predicazione estetica, tutto acceso da quel nobile entusiasmo divenuto così raro in un tempo e in un paese in cui gli antichi ideali della cultura e della bellezza sono calpestati da un gregge vile.

Come appare dal nostro rapido esame e come abbiamo già accennato più sopra, il libro non è tanto uno studio su l’arte di Giorgione quanto un saggio di dottrina estetica generale che s’appoggia su gli esemplari greci e su le più intense manifestazioni del Quattrocento italiano e del Rinascimento. La sua singolarità più notevole sta nel risoluto dispregio che vi si professa contro la così detta critica scientifica, contro la teoria moderna delle influenze, delle derivazioni e delle diramazioni, contro tutte le ricerche archivistiche storiche agiografiche iconografiche le quali «allontanano dallo scopo che è necessario raggiungere, velano l’intelletto con particolari oziosi e noiosi, e rendono un’assai misera cosa la nobile attività dell’ingegno umano

Per il nostro critico, ogni grande artista è figlio della natura, è un prodotto spontaneo della vita, e si svolge libero, secondando il proprio impulso originario; ogni artista di genio nasce con la propria fisonomia, la quale fa sì ch’ei non somigli a nessun altro predecessore e a nessun altro contemporaneo. Inoltre, come abbiamo già veduto, per lui le azioni quotidiane, le comuni azioni dell’esistenza, frutto dell’eredità e del temperamento, non hanno alcuna affinità con l’arte. «In una vita d’artista non v’è mai armonia tra il fatto dell’esistenza quotidiana, tra le innumerevoli miserie giornaliere, e le aspirazioni e le visioni cui egli forma nelle opere

Siamo dunque ben lontani dai metodi che praticarono e insegnarono i due fondatori della critica scientifica: il Sainte-Beuve e il Taine. Il primo di questi, in una sua scrittura su Chateaubriand jugé par un ami intime, afferma ch’egli non può giudicare un’opera indipendentemente dalla conoscenza intima dell’uomo che n’è l’autore. Per conoscere l’uomo, egli crede sieno necessarie le più minute ricerche su la patria, su la razza, su i genitori, su tutti gli ascendenti in somma; non solo; ma anche, se è possibile, su i fratelli, su le sorelle, su i discendenti; e quindi su l’infanzia, su l’educazione, su le colonie artistiche da lui prima frequentate, e perfino su gli avversarii e su i discepoli. La vanità di tale eccesso, tanto rispetto all’arte quanto rispetto alla scienza, non ha bisogno d’essere dimostrata. E il Sainte-Beuve scriveva in fatti le sue migliori pagine ogni volta che il sentimento della bellezza ravvivato lo sottraeva alla preoccupazione puerile.

Munito di una più alta cultura scientifica e di uno spirito straordinariamente penetrante, abile nel tempo medesimo a compiere le più sottili indagini, a trarre dai più diversi documenti le prove del suo asserto e a dare la massima estensione a un’ipotesi o a una formula, Ippolito Taine enuncia la sua famosa legge: «L’œuvre d’art est détérminée par un ensemble qui est l’état général de l’esprit et des mœurs environnantes.» E riduce logicamente la storia dell’arte all’officio della storia naturale. Poiché le opere d’arte si trovano ordinate per famiglie nelle pinacoteche e nelle biblioteche come le piante in un erbario e gli animali in un museo, si può ben applicare uno stesso metodo alle une e agli altri, si può ben ricercare ciò che sia un’opera d’arte in genere come si ricerca ciò che sia in genere una pianta o un animale. La legge della selezione si compie nella storia dell’arte come nella botanica e nella zoologia. Una certa temperatura morale è necessaria perché certe intelligenze si sviluppino. Mutandosi questa temperatura, anche la specie degli ingegni si muterà. L’opera d’arte, dunque, è sempre determinata – oltre che dalla razza e dal suolo – dalle condizioni generali dello spirito e dei costumi presenti nell’epoca. V’è un legame necessario e una rispondenza costante tra i fatti della vita reale e le finzioni che l’arte produce sotto l’influsso di quei fatti. Per necessità inoppugnabili, in certe epoche e in certi paesi l’arte assume diversi caratteri dominanti e si sviluppa in un senso piuttosto che in un altro. Il secolo mette su tutti gli artefici la sua impronta. Coloro i quali volessero svolgersi in un senso contrario troverebbero la via chiusa. Non è possibile resistere alla pressione dello spirito publico. Sempre lo stato generale dei costumi determina la specie delle opere d’arte, tollerando soltanto quelle che gli son conformi ed eliminando le altre per una serie di ostacoli interposti e di assalti rinnovati ad ogni grado del loro sviluppo.

Il mirabile ingegno del Taine ha potuto dare a questa dottrina un’apparenza di solidità. Nelle sue dimostrazioni egli accumula fatti, raccoglie aneddoti, adduce documenti, sceglie con raro acume tutti i segni che sembrano avvalorare la sua tesi. Ma non tien conto alcuno degli innumerevoli casi che, nella storia delle arti, contraddicono allo spirito delle leggi ch’egli ha creduto estrarre dalle profondità misteriose in cui il più alto fenomeno della vita ha la sua origine.

Anch’egli, per fortuna, ci le sue più belle e più veementi pagine quando si limita a ricomporre con tutti i mezzi della parola scritta l’emozione sincera suscitata in lui dalla presenza di una grande opera. Leggete, per esempio, il suo inno al Tintoretto, nel Voyage en Italie. Qui la rivelazione folgorante del genio lo colpisce di meraviglia e di terrore come un prodigio; ed egli dimentica la sua scienza per abbandonarsi tutto al torrente di gioia.

In verità, la critica non può trasformarsi in scienza; poiché la scienza, per essere veramente degna di questo nome, richiede un oggetto ben definito e strumenti di precisione invariabili e atti in ogni caso ad esser verificati per via di riscontro e di riprova. Ha forse la critica questo oggetto e questi strumenti?

La causa dell’illusione e dell’eccesso si deve ricercare nello straordinario impeto dello spirito scientifico che ha pervaso le generazioni della seconda metà di questo secolo. D’innanzi alle meraviglie imprevedute della fisica e del calcolo gli uomini hanno potuto credere per qualche tempo che con l’aiuto dell’una e dell’altro fosse agevole penetrare tutti i misteri, sciogliere tutti i problemi. A tale momentanea sollevazione di orgogli succede ora una specie di scoramento misto di diffidenza. Coloro che chiedevano tutto alla scienza e speravano tutto da lei, i desiderosi di verità palpabili, i bisognosi di certezza dimostrata, oggi assumono aspetto di delusi e disdegnano e abbassano quella che pur dianzi salutavano onnipotente e serenissima signora della vita nuova. Taluno dice, e non ha forse torto: «Dov’è mai la certezza che ci vantaste? Se mai vi fu certezza incompleta, sempre perfettibile e priva d’un criterio stabile, ben è quella delle scienze naturali. Quanto alle così dette scienze esatte, le une – come la geometriariposano su una vacillante base di asserzioni arbitrarie; le altre – come l’algebra – non sono se non modi di ragionamento e non racchiudono quindi maggior certezza che non ne abbia in sé un sillogismo

E sia pur così. Rinunciamo una buona volta alla certezza! Questo amore di verità, questo desiderio sfrenato dell’assoluta verità è non soltanto puerile ma anche inverecondo. Lasciate dunque alla verità i suoi veli, per semplice decenza; rispettate il pudore con cui la natura adorabile si nasconde dietro il tessuto specioso de’ suoi enigmi; abituatevi a reggervi in equilibrio con agile eleganza su la tenue corda delle probabilità distesa a traverso gli abissi!

Riconosciuto l’errore di quegli ingegni che pretesero di fondare una scienza nuova per conoscere e determinar con esattezza infallibile un tanto misterioso fenomeno, riconosceremo noi giusto il dispregio professato da Angelo Conti verso gli accumulatori di documenti relativi alla persona dell’artefice, all’età in cui egli visse, alle vicende di cui fu attore o testimonio?

L’acquisto di qualunque nozione è sempre utile; la nostra cultura non è mai a bastanza ricca; la nostra coscienza non è mai profonda a bastanza. Bisogna che il critico abbia grandi e folti cerchi di vita intellettuale e storica intorno al suo proprio cerchio, perché la sua commozione al conspetto dell’opera bella sia in supremo grado intensa e complessa.

Ora, che altro può mai essere la critica se non l’arte di goder l’arte? E qual mai può essere l’officio del critico se non quello di comprendere e di sentire intensamente al conspetto dell’opera bella per riconstituire poi la sua comprensione e per ricomporre la sua commozione con tutti i mezzi della parola scritta? critica artifex additus artifici.

Così intesa da noi la critica, essendo un’opera d’arte aggiunta ad un’opera d’arte, richiede quindi l’esercizio delle più nobili facoltà intellettuali accompagnato dal gioco della più squisita sensibilità.

Non altrimenti la intendeva in Italia Francesco de Sanctis. Egli era uno di quei rari spiriti, dotati d’una curiosità sempre vigile, atti a penetrare e a comprendere tutte le forme del pensiero umano o almeno disposti ad assottigliarsi e a piegarsi per penetrarle e per comprenderle. Nulla gli era estraneo di ciò che concerneva l’intelligenza. In un tempo in cui i nostri ingegni migliori si limitavano a speculare un cerchio angusto con un piccolo strumento, egli si sforzava di estendere la sua indagine nei campi più diversi e più remoti. E in tutte le ricerche portava un calore sincero e comunicativo: il calore d’uno sforzo intellettuale che, se non sempre riesciva a sciogliere un problema d’arte o ad estrarre l’intima essenza di un’opera, moveva però sempre qualche flutto d’idee spesso nuove o improntate d’un’impronta particolare. Lo infiammava l’ambizione di «ricreare» l’opera d’arte, di darle «la seconda vita». Così vivo e religioso era in lui il senso della bellezza, così profondo era il suo culto della forza creatrice, che talvolta egli giungeva per intuito a sorprendere e a rivelare certi misteri della genesi artistica quasi sacri e a scoprire certe affinità occulte del suo sentimento col sentimento dell’artefice. Anch’egli, o Angelo Conti, comprendeva che l’artefice, sia pur vissuto in un secolo remotissimo, nel manifestare il suo mondo interiore, non soltanto comunica con noi fraternamente, non soltanto risveglia nel nostro spirito cose da noi stessi ignorate, non soltanto sembra darci il ricordo di qualche forma che i nostri occhi mortali non hanno mai veduta; ma veramente è il puro interprete di ciò che in noi vive eterno, è la voce della nostra coscienza profonda, è l’anima della nostra anima. Anch’egli sapeva bene che nell’opera d’arte lo stile è tutto e che soltanto lo stile ha la potenza di dar la forma e la vita all’ideale sognato; e sapeva bene che l’ideale non è se non «una forma superiore» del reale. Per ciò scriveva: «Fatemi cose vive, e battezzatele come volete.» Egli teneva per sacra, anche nell’opera d’arte, l’integrità della vita.

Ma mentre affermava «che la base non è il bello o il vero o il giusto o altro tipo, ma il vivente» e mentre con convinzione così tenace predicava il culto della forma, egli non riesciva a rendersi padrone dell’elemento di cui si compone l’arte letteraria, ciò è del verbo; egli non riusciva quasi mai a costruire una pagina organica, la quale appunto rispondesse perfettamente alle leggi della vita verbale.

Il vocabolario adoperato da lui raccoglie vocaboli incerti, inesatti, spesso d’origine impura, trascoloriti, difformati dall’uso volgare che ha loro tolta o mutata la significazion primitiva costringendoli ad esprimere cose diverse e opposte. E questi vocaboli vengono coordinati in periodi multiformi e difformi, con una sintassi molle e cascante, con una punteggiatura vaga, con un ritmo non cercato ma casuale, appesantito d’innumerevoli assonanze.

Le metafore, di cui egli abusa per naturale copia del suo ingegno imaginoso, di rado si seguono in correlazione giusta. Quasi tutte le figure retoriche, adoperate con frequenza grande, sono mal composte e mal disposte. In quasi tutte le pagine l’improprietà dei vocaboli genera confusione, o tradisce il pensiero o lo rende oscuro, o produce intere frasi che non hanno significato alcuno, o anche a certe imagini un aspetto strano di grottesche innanzi a cui è impossibile non sorridere.

Apro a caso il volume del Saggio critico sul Petrarca. Leggo: «Il poeta non gitta risolutamente un occhio nel suo male, anzi ne lo ritira spaurito, ed in luogo di apparecchiare i rimedii, s’abbandona e fantastica. Il che spiega l’impressione superficiale che fa questa poesia, dove la storia del cuore raggomitolata come in medaglia lascia appena intravedere abissi inesplorati. Si può dire che il Canzoniere sia una superficie scavata di mano in mano dalla lirica moderna, o, se vi piace meglio, una prima pagina, in cui sono schizzati i semplici motivi della musica posteriore…»

Mi sembra inutile notare in questi tre periodi le difformità delle imagini che si seguono senza interruzione. Non una sola linea è giusta e precisa. La parola qui non ha alcun valore, né come lettera né come suono.

Pur troppo sono frequentissimi, in tutta quanta l’opera di Francesco de Sanctis, gruppi di periodi simili a questi. La mancanza di esattezza nel linguaggio origine spesso a contraddizioni e a incoerenze materiali. Lo scrittore è dominato e trascinato dalle sue frasi ch’egli non sa ridurre ai suoi voleri. Basta talvolta il luccichio di un epiteto ad abbacinarlo e a dargli le vertigini. Allora egli precipita di metafora in metafora, quasi irresistibilmente, verso l’abisso oscuro in cui giace sepolto un pensiero che non gli sarà più possibile estrarre e ricondurre alla luce.

Nella prima pagina del suo Saggio critico sul Petrarca egli scrive (tralascio, anche qui, di notare i falli troppo palesi della scrittura): «Ebbe una grande intelligenza, non tale però, che si possa chiamare intelligenza superiore. Aveva tutte le facoltà elementari assimilative, molta memoria, grande lucidezza e penetrazione di mente; gli mancavano le facoltà produttive. Non aveva né originalità, né profondità; ciò è a dire non aveva né la forza di trovar nuove idee e nuovi rapporti, e stamparvi su il proprio suggello, né la forza di squarciare la superficie, scartare gli accessorii e gli accidenti, cogliere il sostanziale. Aveva in vece le qualità scimie di quelle, che imitano gli stessi procedimenti meccanici, con quanto più di ostentazione con tanto meno di forza… Vuol essere Tacito e non è che Seneca. Scrisse opere filosofiche e non fu filosofo; scrisse opere didattiche, e non fu pensatore…» E così via.

Ora – senza notare il difetto di composizione, consistente nel mettere al principio di uno Studio un giudizio sintetico fatto di asseveranze così arrischiate e così reciseosservo che molte pagine del libro in seguito contraddicono apertamente alle premesse. Per citare un esempio di parole: mentre nel preambolo il vano amor della frase fa dire al critico – «Vuol essere Tacito e non è che Seneca» –, lo stesso amore gli fa dire nella conclusione – «La sua maniera tiene più di Tacito che di Livio, più del Tasso che dell’Ariosto.» Nella quale ultima proposizione anche è una inesattezza, perché la diversità tra la maniera di Tacito e quella di Livio non può avere assolutamente nulla di comune con la diversità che corre tra le altre due.

Queste sembrano inezie, ma sono significative rappresentando un difetto comune alla massima parte delle prose di Francesco de Sanctis.

Cosicché l’opera critica dell’illustratore di Farinata e di Ugolino – la quale pur ebbe qualche efficacia su la coltura nazionale contemporanea – essendo priva di quella resistente virtù che è lo stile, dovrà in breve perire.

Il critico dunque – e su questo punto convien battere – il critico, se vuole che la sua opera abbia un vero valore, deve conferirle per mezzo dello stile un valor d’arte. Un libro di critica deve essere, sopra tutto, un eccellente libro di prosa. Critica artifex additus artifici.

Di tal necessità si mostra consapevole colui che con tanta delicatezza ha saputo parlare della Gioconda di Leonardo e della Venere dormente di Giorgione. Per parlar degnamente di creature immortali egli trova non di rado le sillabe luminose. Egli sa inginocchiarsi con grazia davanti alla Bellezza e quivi, per usare il modo del suo Platone, e quivi generar bei pensieri.

Certo, dopo questo primo libro così pieno di lampi e di vapore, egli non si stancherà di protendere il suo intelletto verso il meglio, verso quella perfezione a cui tutti noi artefici della parola ci sforziamo di avvicinarci nel corso di nostra vita breve senza mai raggiungerla. (Tanto l’arte nostra è difficile ch’ella sola ci fa piangere la brevità della vita poiché ciascuno scrittore dovrebbe incominciare, ahimè, dove finisce.) Egli si studierà di variar le forme del suo periodo, di misurarlo talvolta su un più lungo respiro. Sono in questo suo libro pensieri che meritavano d’esser circoscritti dalla continuità d’una linea più ampia; sono in questo suo libro imagini che meritavano d’essere accompagnate alla soglia della vita da una musica più profonda. Tante – sembra – tante erano le cose ch’egli voleva dire a un tempo e sì fervide gli s’affollavano alle labbra che ne rimase affannato; e non poté misurare i suoi periodi se non sul respiro breve e rapido dell’uomo ansioso.

Noi attendiamo con desiderio grande il suo prossimo libro su Vittore Carpaccio. Avendo esposto tutti i suoi principii di estetica in questo studio su Giorgione, avendo anche qui lungamente soddisfatto al suo gusto delle idee generali, egli potrà senza inquietudini mettersi in comunicazione immediata con l’anima sincera del delizioso novellatore di San Giorgio e di Sant’Orsola e mostrare quindi a noi l’imagine viva entro un involucro del più puro cristallo. Ah sia veramente diafano come l’aria d’una primavera asolana il cristallo in cui egli chiuderà quell’imagine e tema egli di appannarlo pur col suo alito! Non possiamo pensare a un libro sul Carpaccio senza che ci si presenti per analogia l’idea d’una miracolosa limpidità; come non possiamo pensare a un libro su Giorgione senza che ci si riapra nella memoria lo spettacolo d’un fiammeo pomeriggio dell’estate moritura nel silenzio della città dogale.

In una simile ora di luce – quasi terribile, tanto era tentatrice – noi avemmo la più profonda comunicazione con l’anima ardente di quel Giovine che volle dare una forma immortale al sonno diurno della sua Donna stanca e triste per aver trovato con lui al limite estremo della voluttà uno spasimo indimenticabile.

Soprastava a Venezia una di quelle ore che si potrebbero chiamar pàniche, in cui la vita sembra sospesa ma non è, ché anzi la sua immobilità risulta da passione concentrata e da violenza repressa. Sul cielo azzurro e duro come uno smalto passava a tratti un vapore rossastro, simile all’esalazione delle fornaci; che non era se non l’alito dell’uragano raccolto in agguato su l’orizzonte della laguna morta. L’acqua dei canali deserti – quella triste acqua prigioniera, asservita dalle colonie umane, che sembra divenuta quasi animale, presa dai contagi, ammalata delle malattie degli uomini, febricitantedistendeva il suo torpore palustre innanzi alle porte chiuse dei palazzi, sotto la concavità dei ponti. Qua e i riflessi dei mattoni corrosi e dei marmi disgregati ricomponevano nel suo specchio un’imagine d’incredibile opulenza; o, d’improvviso, sul suo strano odor febrile una barca carica di frutti al passaggio spandeva la fragranza e quasi il sapore dei dolci succhi con una visione di lontani verzieri inclinati verso le rive d’un fiume corrente.

Con quali parole ridire la vertigine che davano alla nostra anima tutte quelle cose mute immobili e pur esalanti uno spirito di passione e di tristezza non conosciuto sotto alcun altro cielo? Il senso della vita pareva elevarsi in noi per gradi come una febbre divorante: era come se le vene si moltiplicassero nella nostra carne portando un volume di sangue bastevole a nutrire il cuore d’un titano. Tutti i sogni di dominazione, di voluttà e di gloria, che Venezia ha cullati e poi soffocati nelle sue braccia di marmo, tutti risuscitavano in quel foco aereo, vi si dilatavano, vi palpitavano come un popolo rivivente. La forza che per le volte còncave e su l’alte pareti gonfia le musculature dei numi dei re e degli eroi effigiati, la bellezza che nelle nudità delle iddie delle regine e delle meretrici effigiate fluisce come una musica visibile, la forza e la bellezza umane trasfigurate da secoli di arte si armonizzavano in un simulacro unico che noi credevamo avere innanzi agli occhi reale e respirante, da noi gènito. Non è possibile rendere con le parole la grandezza d’una simile allucinazione. La virtù attiva dell’intelletto, esaltata fino al limite della follia, ci faceva vivere in quella breve ora più che in vent’anni dell’esistenza comune. Sentivamo di avere attinto il più alto grado a cui potesse giungere la nostra vitalità, e che la natura non ci riserbava nulla più oltre. Ma – poiché tutto ciò che divien perfetto nel mondo deve morire, poiché ogni terrena perfezione deve compiersi naturalmente con la morte, e poiché la morte non è distruzione ma trasfigurazione – noi provammo un desiderio quasi frenetico di trasformarci per mezzo di una voluttà che fosse nel tempo medesimo mortale e creatrice. E, mentre nelle nubi ardenti che a poco a poco s’erano adunate sul nostro capo scoppiava la folgore, avemmo in quel lampo allucinante la visione simultanea della Donna ignuda e del Fanciullo ignudo, della madre e dell’unigenito: la stessa visione che splende nella Tempesta.

Così, o diletto amico Angelo Conti, per via di segrete analogie noi fummo condotti dalla natura a trovare il significato verace del simbolo giorgionesco. Quando ci ponemmo innanzi al quadro, nella sala pomposa e disarmonica del palazzo Giovanelli, provammo un turbamento non esprimibile nel veder manifestato e fermato per sempre con tanta evidenza quel divino delirio diurno che aveva investito la nostra anima. – Su l’antica tela in fatti, la donna e il fanciullo hanno evidentemente il carattere d’un’apparizione fantastica, d’una di quelle intense allucinazioni che assumono il rilievo della realtà. L’uomo a sinistra, separato dal gruppo, ha l’aspetto di chi è solo e fisso in uno spettacolo intimo. Egli è solo; non comunica con le due imagini come con creature viventi e prossime, non fa verso di loro alcun gesto, perché le sa non tangibili, perché sa di esser solo. Nella deserta campagna dominata dalla tempesta egli rimane immobile mentre il suo desiderio sale a un’altezza vertiginosa, scoppiando tra le nubi la folgore.

Nessun altro luogo del mondo ha, come Venezia, la virtù di stimolare la potenza della vita umana in certe ore esaltando tutti i desiderii sino alla febbre. Eppure, non vanno a lei quanti aspirano al riposo e all’oblio? In verità, ella può essere l’ideale asilo di pace per le anime deboli e stanche; ma le anime forti, per contro, vi sono esposte a straordinarie agitazioni e le fiamme celate vi divampano. Chi non sa resistere alle carezze estenuanti e soporifere, in nessun luogo si sentirà vivere come su quell’acque che paion morte.

Bisogna prediligere e celebrare Giorgione perché, più d’ogni altro artefice, egli sente ed esprime questa profonda virtù di Venezia. La qualità della sua pittura subito l’imagine del vigor maschio, della passione dominatrice, della tristezza voluttuosa e ardente. Il ricchissimo impasto dei colori, la sprezzatura risoluta del pennello, l’ampia nobiltà dei contorni, la vivacità delle mosse, la novità degli scorci, la bizzarria e il lusso dei costumi, tutto rivela in lui la sovrabbondanza dell’energia virile, della semenza feconda. In nessun altro artefice meglio che in lui – ci sembraappare la verità dell’asserto: che il grado e la natura della sessualità d’un uomo si affermino e valgano sino al più alto cerchio, sino all’ultima cima del suo spirito. Egli è un amatore possente e infaticabile. «Dilettossi continuamente delle cose d’amore» narra il Vasari. Egli non soltanto ama l’amore ma ama tutte le forme superbe della vita. «La natura lo favorìforte, ch’egli innamoratosi delle cose belle di lei, non voleva mettere in opera cosa ch’egli dal vivo non ritraesse.» Egli s’appaga nella poesia delle apparenze terrene, non cerca nulla più oltre. La stessa musica – che tanto gli piace – non è per lui se non un mezzo di seduzione e di godimento amoroso. «Nel molto conversare ch’ei faceva per trattenere con la musica molti suoi amici, s’innamorò d’una madonna e molto goderono l’uno e l’altra dei loro amori.» La musica esalta la sua passione finché l’ardore diviene insostenibile ed egli lo spegne nella fresca delizia della carne feminile. La musica alleggerisce e dissipa in lui la tristezza animale che segue gli amplessi; egli risuscita con la sua magia il desiderio, come un beveraggio. Nella Festa campestre il sonatore di liuto e il suo giovine compagno chiomato attendono ad approfondire il loro gaudio, a dilatare il loro sogno di piacere su quel magnifico teatro che i colli gli alberi e le acque ornano sol pel loro bene. La carne delle due donne ignude li aspetta da presso, bagnata come nella trasparenza d’un’ambra liquida, irrigata come da un oro caldo e fluido che pare il lume d’un sangue olimpico. Delle due una, opulenta come la Callipige, siede sul suolo rivolta verso il musico; e dalla nuca al tallone la forma della sua schiena e dei suoi lombi si svolge con la pienezza d’un flutto. L’altra, in piedi, si sviluppa da un drappo come un fiore da un involucro, inclinandosi con molle grazia verso un bacino al cui labbro s’appoggia la destra mano mentre la sinistra sorregge un vaso di cristallo onde l’acqua scorre e dilegua a imagine della vita. Così fra poco, quando l’ebrezza dei suoni sarà giunta al sommo, i due giovani verseranno senza misura la calda vita loro ne’ bei grembi ignudi, anelando morire.

Suonano essi e cantano e sognano intanto, e d’altro non hanno curasanno altro bene; poiché la Musica la Voluttà e la Morte, le tre divine sorelle, compongono intorno a loro una magia infinitamente soave ond’essi non vorranno giammai risvegliarsi.

Tale è il fato di Giorgione, tessuto dalle tre divine sorelle. Egli non aspira né a purificarsi né a rinnovellarsi poiché troppo ama il suo piacere e il suo dolore in terra. Egli non nutre alcun «segreto rimpianto» né alcuna «sovrumana speranza» poiché del suo bene presente è pago. Non conosce tristezza più grave di quella che segue i ciechi furori del desiderio, non conosce trafitture più crudeli di quelle che la gelosia. Egli è veramente l’uomo nato per esercitare l’amore, per vivere e morire d’amore. La carne feminile è per lui il più bello e il più dolce frutto nella foresta del mondo; ed egli lo coglie e ne gode e non se ne sazia mai. La sazietà non lo giunge poiché la sua vita è breve. Egli è sempre cupido, essendo giovine e inesausto. E sol per aver goduto d’una carne infetta, come d’un pomo attossicato, perisce. Propter speciem mulieris multi perierunt…

La Donna ch’egli adagiò addormentata in un paese d’incanti non sogna la liberazione della schiavitù che la tiene. Ella è ancóra e sarà sempre schiava del suo sesso, che pure le la dominazione del mondo. Nel musicale prolungamento della sua nudità l’ultimo tremolio del piacere non è forse estinto poiché nell’inconsapevolezza del sonno la sua mano ha un gesto che turba. Una tenue ombra di dolore le scende sul volto bellissimo: le sue labbra sono chiuse come al meriggio un fiore notturno, e le sue guance sono ondulate come l’arena su cui passò un vento impetuoso. Ella è stanca e triste. Forse non le sarà dato di giungere un’altra volta allo spasimo terribile e divino in cui le parve di sentirsi svellere dalla carne le infime radici della vita.

«Chi è dunque Giorgione

Egli non ci sembra, quale è detto dal suo interprete eloquente, il primo uomo moderno (un tal titolo va per diritto a Leonardo, e pur quello di creatore del moderno paesaggio poiché la Vergine delle Rocce e la Gioconda precedono la Madonna di Castelfranco e la Venere di Dresda); ma veramente ci sembra il più profondo rivelatore dell’Anima veneziana, comparso nel momento straordinario in cui quest’Anima attinge il grado della perfetta maturità.

Egli è gagliardo e specioso a somiglianza di quelle piante che fruttificano tra due stagioni, tra la morte dell’estate e la natività dell’autunno. Il suo genio si sviluppa tra due stagioni d’un gran popolo. Dietro di lui balenano ancóra in un cielo sanguigno i fantasmi eroici della guerra di Chioggia; ed egli crea nel nome di San Liberale l’ideal tipo dell’uomo d’arme, invitto e magnifico. Davanti a lui fumano in un cielo tutt’oro gli aromi inebrianti che la figliuola di San Marco reca alla Repubblica nel donarle l’antico regno di Afrodite; ed egli celebra con un miracolo di linee e di colori non mai veduti quella voluttà nova che muterà la formidabile dominatrice del Mediterraneo in una morbida cortigiana.



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