Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Contemplazione della morte
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A Mario da Pisa

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A Mario da Pisa

Mio giovine amico, per quella foglia di lauro che mi coglieste su la fresca tomba di Barga dove tante volte a sera il mio ricordo e il mio desiderio cercarono una simiglianza del paese di sabbia e di ragia disteso lungo il mar pisano.

Ben so come profondamente nel vostro petto fedele voi custodiate la luce dell’ora in cui per la prima volta, sconosciuto e atteso, varcaste la soglia della casa ch’io m’ebbi un tempo alla foce dell’Arno tra i ginepri arsicci e le paglie marine. Eravate quasi fanciullo, generosus puer, ebro di poesia, tremante di riconoscenza e d’amore; e la divina virtù dell’entusiasmo ardeva in voi così candidamente

La casa era tanto prossima al frangente che dalla finestra non si vedeva se non il flutto, come da un’alta prora. E mi piacque che intorno a quel nostro primo dialogo non paresse stagnare la quiete domestica ma spirare quasi la libertà d’una navigazione avventurosa. Anchoras praecide. Credo che tal fosse il mio primo insegnamento. E ci accomiatammo, secondo il costume di coloro che non si riposano su alcuna certezza o promessa, come se non dovessimo rivederci più mai.

Di lontano, non ebbi da voi se non sobrie testimonianze d’un amore sempre più forte e d’una fede sempre più tenace. Cosicché, pensando al prato sublime che sta tra il Camposanto e il Battistero o alla funebre spiaggia tra il Serchio e l’Arno, posso senza discordanza pensare a voi prediletto tra i pochissimi che sanno amarmi come solo voglio essere amato.

Ecco che riprendo in queste pagine una contemplazione già iniziata nella solitudine di quel Gombo ove vidi in una sera di luglio approdare il corpo naufrago del Poeta che s’elesse Antigone e vegliai la salma colcata a fianco della vergine regia, tra l’uno e l’altra sorgendo il fiore «inespugnabile» nomat pancrazio.

Poi che non val la possa

della Vita a comprendere tanta

bellezza, ecco la Morte

che braccia più vaste possiede

e silenzii più intenti

e rapidità più sicura;

ecco la Morte, e l’Arte

che è la sua sorella eternale…

Ma, di qua d’Arno, nella selva spessa che va sino al Calambrone,

Andai, e cercai la mia vipera. Portavo leggeri sandali di sparto legati ai malleoli con corregge sottili. Tanta era l’attesa che, quando mi sentii mordere la prima volta, non potei trattenere il grido. E farmi pallido in quell’aria affocata mi pareva una sorta di voluttà eroica. Guardai. Non era se non la puntura d’una spina: il sangue gocciolava, e tutte le vene del piede erano gonfie per lo sforzo del camminare nella sabbia ardente come la brace o su gli aghi arroventati come gli schisti del Deserto. «Non ancóra

E seguitai, senza guardare a terra, entrando sempre nel più folto. E a ogni puntura dicevo: «Ecco.» E non era se non un aculeo più acerbo. E ogni goccia di sangue mi pareva più preziosa. E tutti i miei sensi divenivano soprannaturali, perché creavano una natura più potente e più bella. Vedevo fumare dai cespugli l’aroma, la vita del pino brillare di sotto la scaglia come la porpora nel murice, l’esiguo triangolo chiaro nella coccola del ginepro significare il mistero d’un dio verde il cui baleno era la lucertola guizzante. E seguitai, seguitai, sanguinando, ma senza trovare la mia vipera. Se i miei piedi erano gonfii e dolenti, il mio capo era perspicuo e lieve come nel santo digiuno.

Un’allegoria è nascosta in ogni figura del mondo; e giova, secondo la sentenza di san Gregorio, «lo intendimento delle allegorie ridurre ad esercizio di moralitade». persiste, o giovine amico. E voi comprenderete perché, tornando dall’aver contemplato in ginocchio la beatitudine del Cristiano14 --> sul letto candido, io abbia palpato in ginocchio le mammelle numerose della Diana Efesia15 --> sotto la specie brutale.

Or qual bellezza doveva essere in quel Santo, se pareva che la morte le convenisse!

Bisogna credere che sempre e in ogni luogo lo spirito dell’uomo sia l’iddio verace dell’uomo e che le imagini mitiche o incarnate della divinità non sieno se non i modi che conducono a riconoscere sol quello: sol quello che non si può nominare e a cui non si può disobbedire.

Gran tempo io diffidai del Galileo come d’un nemico, per una provvidenza che nel nemico pone la salute del forte. Pur non temendo il «dio senza muscoli»,

Questi sarà il mio mediatore affinché il Figlio dell’Uomo mi conduca a riconoscere compiutamente il mio intimo Signore. Così, dopo aver cantato tutti gli iddii, canterò il mio dio verace. E vi manderò il libro di Taigete era giunto l’ardore dell’Ulisse dantesco. E il dio voglia che, di continuo tendendo l’orecchio, riesca io a cogliere il ritmo della grande onda occidentale per mescolare con esso la mia anima italica.

Ma qual è il Redentore che voi aspettate, che aspettano i vostri eguali?

Forse un nuovo sentimento sacro riempie freschi occhi che non conosco, che non vedrò mai. Talvolta, se ascolto, mi par d’udire pensieri ascendere come l’argento e il cristallo di quel vasto coro infantile che saliva dallo Stadio nella Città subalpina. Qualcuno scrolla e sfonda porte lontane; e par mi giunga lo strepito indistinto. Qualcuno reca in sé tutta una stirpe occulta e bramosa, che chiede di nascere. E chi sale contro a me, dall’altro declivio del secolo, in silenzio? Colui che io ho annunziato?

Ieri, su l’Atlantico, una imaginazione mi venne dal ripensare che in Tespia il simulacro di Amore era un sasso greggio. Anche ripensavo a quegli zòani primitivi che aveano le gambe congiunte l’una all’altra e congiunte le braccia lungo i fianchi sino alle cosce. E consideravo la potenza commossa dell’artefice che primo disgiunse le gambe del dio rude e primo atteggiò al gesto le braccia. Per ciò guardo e interrogo le mani dei giovani pensosi, se sien capaci di tagliare il sasso greggio di Tespia. Taluno ha l’aria di aver dormito in un tempio e di non voler parlare. E la sua faccia par piena di segni e di segreti come la palma della mano.

Ma non sempre indarno io ho masticata la foglia del lauro, come gli indovini, pur temendo gli indovinamenti del mio cuore.

E vengono verso me fantasmi che non si generano dai miei sogni.

E che può mai essere per me il rinascere, se «io nacqui ogni mattina»? Ora la cosa non è più tra me e l’alba.

E ora so che il dio verace è quello a cui non si può disobbedire, quello contro cui non si può commettere peccato. E quello io debbo trovare e conoscere.

E la qualità della mia fede è tale che, quando apro il volume della Comedia, io credo aver Dante visitato in carne e in ispirito i tre Regni.

E io, il quale volli un tempo essere un Maestro, ora so come nulla di ciò che è veramente vivo e divino possa essere insegnato.

E io, che più d’una volta respinsi l’ingiuria, ora comprendo la parola del Crisostomo: «che niuno non può essere offeso, se non da sé medesimo».

E io ricevo ora la forza di tutti i miei errori vinti e di tutti i miei mali superati, come quel cavaliere del romanzo carolingio, il quale ereditava il potere di quanti uomini e mostri abbattesse la sua lancia.

E so che gli occhi lontani di quelli che piansero e piangono su i miei errori e su i miei mali non possono esserepuriprofondi.

E chi prende e soppesa taluna delle mie opere, consideri una delle tante mie parole che il tumulto impedì d’intendere: «I figli miei concetti nell’ebrezza – come delitti sacri alla dimane…»

E chi mi ama sappia che di ogni mia dimora distrutta io ho sempre potuto serbare la pietra che porta inciso l’enigma della mia libertà: «Chi ’l tenerà legato

E chi mi segue sappia che perfino nella mia nave piena di sozii l’istinto implacabile della liberazione mi spinse più d’una volta a gittarmi solo in mare come il poeta di Metimna ma senza ricorrere al delfino salvatore.

E non vorrò mai esser prigioniero, neppure della gloria.

E non vorrò mai riconoscere i miei limiti.

E non vacillerò mai dinanzi alla necessità del mio spirito e alla cicuta.

E non farò mai sosta alle incrociate delle mie vie.

E serberò fresca la vena inestinguibile del mio riso pur nella peggiore tristezza.

E dico che l’elemento del mio dio è il futuro.

E dico che ciò ch’io non sono, domani altri sarà per mia virtù.

O giovine amico, ciascuno di questi pensieri non è se non il tema d’un inno e non può esser condotto a compimento se non dal ritmo eroico. E credo avere accresciuto il numero delle mie corde dopo questi funerali, come il costruttore di città, avendo imparato la melodia dei Lidii nelle esequie fatte a Tantalo da essi Lidii, aggiunse tre corde alle quattro della lira.

Ma pur saprei soffiare su ciascuno come il fanciullo su la lanugine del cardo argentino, per astringermi di considerare nella mia memoria quel poco di sole che impallidiva su quel poco di paglia davanti alla porta del mio malato e quel poco di vetro rotto che vi luceva come lacrime o rugiada.

Il silenzio era un inno senza voce.

Tale potrebbe essere allora il mio silenzio. Ma quegli che sale contro a me, dall’altro declivio, quando m’incontrerà e gitterà il suo grido?

O mio giovine amico, talvolta la giovinezza mi chiama dalle viscere della Città

La penultima sera d’aprile ebbi nella via un compagno ventenne: un volto imberbe modellato dal pollice ferreo del Destino come quello del fiammingo Beethoven; un cuore chiuso in cui forse sonavano le quattro note spaventose della Sinfonia Quinta.

Andavamo a paro, oppressi da uno di quei cieli d’uragano bassi e rossastri, sotto i quali Parigi sembra schiumare e fumigare come un bulicame enorme. La carta dei giornali, ond’era invasa tutta la città, pareva elettrica come quando esce tesa dai cilindri della cartiera nei giorni secchi scoppiettando di scintille.

Tutto lo spazio era pieno di violenta morte, di bellezza torbida, e di non so che travagli, e di non so che presagi, come se il Futuro si chinasse dalla nuvola ferrugigna a soffiarci sul viso il suo polline ben più potente che il vivo solfo della Landa pinosa. E ci pareva d’entrare in ogni via come il soldato entra nella trincea, ed ogni via ci pareva chiusa come i vicoli ciechi, e ci pareva di sfondarla con la volontà senza gesto.

E un branco di bagasce, contro un muro infetto dalla lebbrosìa degli affissi, ci guatò di sotto ai grandi cappelli piumati, con qualcosa di selvaggio negli occhi pesti e nelle labbra dipinte, simili a menadi sfatte di un Dioniso tavernaio.

E più in , dietro una vetrina piena di dolciumi stantii e di sciroppi inaciditi, scorgemmo la Parca Atropo.

E più in , dentro una meschina bottega d’oriolaio, intravedemmo un Saturno barbato e scerpellato che mangiava un lungo rocchio di salsiccia figliale, tra orologi morti e decomposti.

Come il mio compagno povero abitava nel sobborgo, per aspettare l’ora del treno entrammo in una botteguccia di caffè; e ci sedemmo l’uno accanto all’altro davanti a una lastra di marmo su cui la traccia lasciata da una sottocoppa sporca disegnava il circolo dell’eternità. E il luogo ignobile s’empì del nostro tumulto inespresso, come una conca è piena di rombo oceanico che solo un orecchio aderente ode. E, quando il tavoleggiante accese sul nostro capo il becco del gas, vidi la bocca del mio compagno simile alla bocca dei mutoli che vogliono parlare; e forse era piena della parola nuova, o forse soltanto di saliva angosciosa. E guardai anche quel chiarore su le sue mani pallide, pensando al sasso di Tespia. E non mai ebbi così grande il sentimento d’un dio ignoto che divorasse un’anima gonfia.

«Bisogna che ci separiamo e che poi ci ritroviamoTornai indietro solo, verso la febbre notturna.

E alzavo di tratto in tratto gli occhi al volto indistinto che dalla nuvola si chinava verso me come quelle strigi gotiche dalle gronde delle cattedrali.

E, passando per una via angusta, di colpo la bertuccia d’un merciaiuolo ambulante mi saltò su le spalle. E tutto il lastrico sonò di risa e di motti plebei.

E l’ingiuria lugubre dell’uomo dal capo forato era sospesa nel crepuscolo pregno d’una forza senza nome. Ma il mio compagno ventenne, traballando laggiù nel treno tardo, udiva forse Amfione preludiare sopra un mucchio di calcinacci.

Ora bisogna che anche noi ci separiamo e poi ci ritroviamo, mio giovine amico.

Addio.

Gabriele d’Annunzio

Dalle Lande, nel maggio 1912.



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