Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Contemplazione della morte
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VII aprile MCMXII

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VII aprile MCMXII

Anche una volta il mondo par diminuito di valore.

E chi allora fu di lei più certo che nei cari occhi abbuiati dalla pressura scompariva anche l’allegrezza dell’aprile presente?

Fantasma tu giungi,

tu parti mistero.

Venisti, o di lungi?

ché lega già il pero,

fiorisce il cotogno

giù.

Se imagino i suoi occhi nell’ultima ora e se imagino le rondini all’Osservanza Quella parola ch’egli credeva dire per la sua vita, egli la diceva per la sua morte; e io non sapevo che, fra tante di cui sono immemore, mi fosse penetrata così a dentro e si fosse accresciuta di questa funebre bellezza. Ieri un caso volgare e ammirabile mi diede il modo di assistere continuamente col pensiero il mio amico nella sua agonia. E più tardi, per una rispondenza misteriosa, potetti ascoltare la musica infinita che la sera faceva intorno al suo silenzio.

Lo credevo quasi guarito, o almeno fuor d’ogni pericolo. Notizie recenti mi assicuravano ch’egli fosse per tornare alle sue consuetudini cotidiane e per riprendere il lavoro disegnato. Per confrontare il ritratto inciso del poeta con una imagine d’esattezza fotografica, cercai il volume illustrato dell’Inno a Roma credendo che ci fosse. La memoria m’ingannava: non c’era. Ma mi soffermai su l’impronta dell’ascia sepolcrale romana; e rilessi i bellissimi esametri.

Ascia, teque eadem magnae devovit in oris

omnibus Italiae, dein toto condidit orbe…

Anche una volta l’evocatore delle auguste forze scomparse aboliva nel mio spirito l’errore del tempo. Riconoscevo a quel dilatato respiro del mio sogno uno dei più alti suoi doni; perché certe sue evocazioni dell’antico si avvicinano ai limiti della magìa. Qualcosa di magico è nella potenza repentina onde un grande poeta s’impadronisce dell’anima nostra. A un tratto l’immensa notte oceanica s’empiva de’ suoi fantasmi. Il numero del suo verso si prolungava in una lontananza solenne, fin dove la parola dell’inno vedico pareva la sua stessa eco ripercossa dall’invisibile confino. «Ciò ch’io ti prendo, o Terra, racquisterai presto. Possa io, o pura, non ferire alcuna tua parte vitale, non il cuor tuo.»

Roma sed exsistens e sulco pura cruento

sacravit Terrae Matri, qua laeserat et qua

esset per gentes omnes laesura, bipennem.

La notte era tranquilla ma non serena, con istelle forse infauste, prese in avvolgimenti di veli e di crini. L’acqua dell’insenata non aveva quasi respiro, ma di dalle dune e dalle selve l’Oceano senza sonno faceva il suo rombo. Nondimeno questa quiete comunicava con quel tumulto, e la sabbia di quella riva tormentosa era simile alla sabbia di questa che si taceva. Così talvolta, nella più agitata angoscia, un meandro profondo della nostra coscienza rimane in pace. E dove dunque era per approdare l’Ulisse dell’Ultimo viaggio? su questa o su quella riva?

Ora mi chiedo con turbamento perché di tratto in tratto il mio spirito interrompesse il suo fantasiare per cercar di rinvenire in sé l’aspetto mortale del poeta. Non mi pareva di ritrovarlo nell’acquaforte dell’artista lombardo, né sapevo dove cercarne un’imagine precisa. E, se chiudevo gli occhi e mi sforzavo di ricomporne le linee sul fondo buio, il volto indistinto si dissolveva in bagliori. Allora mi ricordai d’avergli detto un giorno: «Se tu avessi il viso tutto raso e se tu non sorridessi, somiglieresti a Piero de’ Medici com’è scolpito da Mino.» Ma in verità egli non s’era mai lasciato guardare da me fisamente.

La nostra amicizia soffriva d’una strana timidezza

Da prima egli temeva che la sua rusticità e la sua parsimonia mi dispiacessero, come io temevo che gli increscesse la mia diretta discendenza dalla brigata spendereccia. Egli forse pensava che qualcosa di vero ci dovesse pur essere in fondo alle dicerie della cialtronaglia. Un giorno lo colpì la schiettezza del mio riso dinanzi a certe sue esitazioni; e allora gli parve di potermi offrire l’ospitalità nella sua casa di Castelvecchio, poiché l’acqua il pane e le frutta erano il mio regime consueto di «operaio della parola».

Ma la sorte volle ch’io non conoscessi il sapore del pane intriso rimenato e foggiato a crocette, secondo l’usanza di Romagna, dalle mani di Giovanni e di Maria.

Spesso, alla buona stagione, eravamo vicini; e vedevamo entrambi, al levarci, la Pania e il Monte forato.

Ma come c’incontrammo la prima volta? A Roma, per insidia.

Già ci amavamo da tempo; e avevamo scambiato molti messaggi affettuosi e quelle lodi acute, d’artiere ad artiere, che s’inseriscono alla cima dello spirito e fanno dimenticare la grossezza dei solenni tangheri i quali oggi in Italia giudicano di poesia. Trovandosi in Roma, egli certo desiderava di vedermi; ma, nel momento di porre ad effetto il suo proposito, la timidezza lo arrestava; né i nostri amici riescivano a persuaderlo, né io riescivo a scovarlo in alcun luogo. Allora Adolfo de Bosis, il principe del silenzio, il nobilissimo signore di quel Convito che fu «presame d’amistade» fra i pochi deliberati d’opporsi alla nuova barbarie ond’era minacciata la terra latina, ricorse a un grazioso stratagemma. Me lo condusse di buon’ora, all’improvviso, nella mia casa, dandogli ad intendere che lo conducesse a veder una statua di Calliope ritrovata nel limo del Tevere la sera innanzi, divinamente levigata da secoli d’acqua.

Io era in giorni di splendida miseria, abitando nell’antica selleria dei Borghese, tra Ripetta e il Palazzo, tra il fiume torbo e quel «gran clavicembalo d’argento» celebrato in un sonetto dell’adolescenza. In tanta vastità io non avevo se non un letto senza fusto, un pianoforte a coda, una panca da tenebre,59 --> il gesso del Torso di Belvedere,60 --> e la gioia del respirar grandemente.

Come Adolfo spinse alla soglia il poeta delle Myricae e mi chiamò al soccorso, balzai mezzo vestito. E due confusioni si abbracciarono senza guardarsi. L’ingannatore rideva nel vederci così vergognosi mentre tuttavia ci tenevamo per mano. Poi ci sedemmo su la panca, felici, senza far molte parole, nessuno di noi temendo il silenzio che è sì soave quando il cuore si colma.

Eravamo sani e resistenti entrambi, sentivamo la nostra purità nel divino amore della poesia, preparati alla disciplina e alla solitudine. L’uno promettendo di superar l’altro, eravamo certi di non iscoprir mai su i nostri volti «il livido color della petraia». Una potenza oscura si accumulava nelle nostre profondità: egli doveva ancóra comporre i Poemi conviviali e io dovevo ancóra cantare le Laudi.

O bel mattino in sul principio della state, quando Roma ha gli occhi chiari di Minerva che nutre a sua simiglianza i pensieri degli uomini! Entrava il sole pecancelli delle finestre, e il romore del ponte frequente, che pareva l’antico «assiduo murmure» del Tevere. Ma il fiume sacro non aveva parlato ancóra a traverso il bronzo dell’inno, non aveva ancor chiamato l’anima dei forti gridando:

Heus, rostro navis qui terram scinditis unco,

quam detraxistis navi iam reddite proram

atque in me longos infindite vomere sulcos

usque ad caeruleum, iuvenes, maris aequor, et ultra.

Est operae!

La grandiosità del Torso erculeo bastava a riempiere le mie mura; perché era quel terribile frammento titanico presso cui Michelangelo decrepito e quasi cieco si faceva condurre per palparlo. (Or potevan dunque le sue mani toccare un marmo senza riscolpirlo intero?) Avevamo dinanzi ai nostri occhi un esemplare sovrano e quasi direi il cànone eroico; ma ignoravo quale di noi due ne fosse tócco più a dentro. Se avessimo potuto saperlo, forse avremmo conosciuto la nostra misura.

Come gli guardai le mani, delle quali sono sempre curioso, egli le ritrasse con un atto quasi fanciullesco. Io volevo osservare le dita che avevano foggiato l’odicina per le due sorelle e i madrigali dell’Ultima passeggiata. Allora sorridendo gli ripetei i primi versi del Contrasto:

Io prendo un po’ di silice e di quarzo:

lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:

ve’ la fïala, come un di marzo,

azzurra e grigia, torbida e serena!

Con quelle stesse mani che aveva nascoste, egli fece un gesto di disdegno potente. Sentii quanto vi fosse di virile in colui che passava tra le umili mirici per salire verso la rupe scabra. E poi parlammo d’Odisseo e della predizione di Tiresia.

Questo fu il nostro primo incontro. E l’ultimo fu nella sua casa bolognese dell’Osservanza, qualche settimana prima della mia partenza per l’ultima avventura:

Tutto il giorno m’ero lasciato condurre dalla mia malinconia nei luoghi ove ella più potesse gravarmi. M’ero indugiato su la piazza solitaria che la tomba di Rolandino fa pensosa, e quella dei Foscherari, degna d’un cantore, sotto i suoi archetti verdi, alzata sopra le sue colonne simili al coro delle Muse nel numero. Ed ero entrato nel tempio domenicano di rosso mattone: tra il sepolcro bianconero di Taddeo Pepoli e il monumento di Re Enzio avevo sentito soffiare su me l’ambascia dell’Olifante senza più suono.

Va, ma non giunge. È un brusìo d’ombre vane

ch’ode Re Enzio, quale in foglie secche

notturna fa la pioggia e il vento.

E m’ero poi smarrito nel sacro laberinto di San Stefano, nella Basilica delle sette chiese. Misteri ed imagini per ogni dove, e il colore del fumo e il colore del grumo. Sanguigno e fumoso il chiostro, e sopravi l’ombra della torre quadrata, e nell’ombra il pozzo tra le due colonne, la carrucola di legno consunta, che non stride più; e fra gli interstizii dell’ammattonato l’erba umile, e intorno intorno, ai davanzali delle finestre alte, i vasi di basilico. E poi nell’altro cortile, fra il cotto, la grande tazza di pietra, il fonte senz’acqua ove nessuno si battezza più; e il tabernacolo d’oro luccicante a traverso i vetri appannati; e nel vano della finestra, su una colonnetta, il Gallo che canta; e, da presso, il Vescovo colcato nel marmo sepolcrale, che il canto non risveglia più; e, dietro l’altare irto di candelabri ferrei, le rudi arche di granito che l’ascia mistica tagliò nel sangue pietrificato dei Martiri; e la luce che passa nell’abside per gli alabastri fulvi come quel miele amaro di cui si nutriva il Battezzatore.

Perché oggi, della Città ove per fato si spengono i nostri grandi poeti, vuole accompagnarlo e deporlo. Bologna non ha oggi per me se non quella faccia misteriosa, se non quella bocca piena di freddo alito e di sublime silenzio.

Chi potrà dire quando e dove sien nate le figure che a un tratto sorgono dalla parte spessa e opaca di noi e ci appariscono turbandoci? Gli eventi più ricchi accadono in noi assai prima che l’anima se n’accorga. E, quando noi cominciamo ad aprire gli occhi sul visibile, già eravamo da tempo aderenti all’invisibile.

Oggi mi sembra che quel pellegrinaggio meditativo non fosse veramente una preparazione spirituale alla visita ch’io era per fare ma fosse già la visita, e che nessuna delle parole ch’io dissi poi valesse quelle che andando io diceva al mio compagno senza carne.

Ma, quando mi ritrovai nella strada, pensai a quella creatura divina che sempre m’era parso dovesse stargli nella casa a conforto, sola quella, con la sua lampada e co’ suoi libri.

Qualora le Città nobili usassero far doni ai poeti, che mai avrebbe potuto donare Bologna all’estremo Omeride se non la testa dell’Athena Lemnia? Sembra escita da certe visioni tumultuose dei Poemi conviviali, sembra una duratura bellezza provata dalla strage e dall’incendio, un frammento dissepolto di sotto alle rovine d’un antico assedio.

Ha il viso e il collo chiazzati di ferrugigno, come ingrommati di sangue vetustissimo; e sotto il collo, nello sterno e nella clavicola, è come infoscata dal fuoco che appiccarono al tempio i saccheggiatori corazzati di bronzo.

E troppo tardi mi ricordai d’avergliene promessa l’impronta. Sapevo che n’era stato tratto il gesso, ma per notizia vaga; e i custodi del Museo civico non seppero darmi alcun ragguaglio. Tuttavia, non potendo per allora portargli l’imagine, quanto di me gli diedi con la meditazione ch’io feci dinanzi al cippo, nella grande sala deserta, ove come la sua poesia quella forma sovrana era sola tra ruderi e cocci mediocri.

Salii dunque all’Osservanza con qualche fiore.

Ero così pieno di pensieri che non ritrovo nella memoria l’aspetto delle cose, perché le guardai con occhio disattento. Non entravo in una casa ma in un’anima che pareva volersi fare per me ancor più bella. Se la vita non mi avesse dato altro che quell’alta ora di amicizia, pur la stimerei generosa e mi direi contento d’aver vissuto in mezzo agli uomini.

Della nostra timidezza non si mostrò se non un’ombra, sul principio, quando, guardandolo io, egli mosse il capo in non so qual modo sfuggente e batté le palpebre come per cancellare la lesione crudele degli anni e spandere sul suo volto appesito gli spiriti alacri dell’amore. Volevo dirgli: «Non ti peritare, fratello. Vedi quanto anch’io sono leso. Ma oggi la carne miserabile non c’ingombra; e io qui respiro la più pura essenza della tua poesia. Tu hai l’aspetto della tua forza immortale; e non è fatto dalle tue labbra il sorriso della tua tristezza. Siediti ancóra accanto a me, come quella volta su la panca da tenebre. Siamo due pazienti artieri. Quanto abbiamo travagliato e quanto sopportato, da quel mattino di Roma! Non tentò taluno di far verghe de’ miei allori per batterti, flagelli de’ tuoi lauri per flagellarmi? Ma chi prevarrà contro la nostra pazienza e contro la nostra fede? Bastava che di tratto in tratto, di sopra allo schiamazzo, ci dessimo la voce. Ora siediti. Non t’ho mai amato come oggi. Faccio una breve sosta; e poi riprendo il mio cammino, lasciando dietro di me tutti i miei beni vani».

Mi sedetti su la sua sedia, dinanzi alla sua tavola. Le sue carte, le sue penne, i suoi inchiostri erano . Tutto era semplice ed usuale, come in una qualunque stanza di chi abbia un cómpito modesto. Ma un sentore di sapienza pareva impregnare ogni oggetto, e le mura e il soffitto e il pavimento, come se la qualità stessa di quel cervello maschio si fosse appresa al luogo del lavoro. Non so in che modo significar tal mistero. Un’aria singolare è nella fucina, anche quando non rugge il fuoco; perché gli arnesi, gli ordegni, tutti gli strumenti fabrili, anche non maneggiati, quivi esprimono con la loro forma la lor destinazione e quasi direi suggeriscono la potenza a cui serviranno. Nello studio d’uno scultore fecondo la quantità della creta, le armature, i modelli, le forme cave, gli abbozzi coperti dai teli molli, le cere da sbavare, i bronzi da rinettare, gli scarpelli, le lime, i bossoli, gli odori stessi delle materie plastiche rappresentano lo sforzo del creatore. Ebbene, qualcosa di simile mi pareva fosse presente in quella piccola stanza tranquilla e ordinata, ove certo le mani di Maria avevan dato pace alle pagine scorse: qualcosa che oserei chiamare la presenza del dèmone tecnico.

In nessun laboratorio d’uomo di lettere m’era avvenuto di sentire la maestria quasi come un potere senza limiti. Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l’arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento. Nessuno meglio di lui sapeva e dimostrava come l’arte non sia se non una magìa pratica. «Insegnami qualche segreto» gli dissi a voce bassa. E volevo soltanto farlo sorridere; ma, in verità, un’ombra di superstizione era sul mio sentimento.

Egli prese un’altra sedia e venne a sedermisi accanto, dinanzi alla tavola. Parlammo di qualche recente opera. Le sue mani, quando soppesavano i volumi, erano una tremenda bilancia. Dal vigore di certi suoi giudizii ebbi la riprova che il suo spirito era tuttora immune da qualunque debolezza. La sua stima era severa come la sua arte. Mescolando egli un che d’amaro al suo discorso, io gli dissi: «Se hai tempo, va alla Pinacoteca e cerca d’una tela del Francia, dove un Santo Stefano porta sopra un suo libro tre pietre, in segno della lapidazione. Metti tre pietre sopra ogni tuo nuovo libro e datti pace.» Egli rispose col suo riso arguto: «Ma quello stolto dello struzzolo m’ingolla il libro e le pietre

Non più sembrava timido; anzi indovinavo in lui non so che tenerezza protettrice e il desiderio contenuto di chiedermi ch’io gli parlassi de’ miei guai. Io era bene il suo fratello minore, ed egli pareva cercasse il modo di sopportare il mio carico. Mi ricordo d’una bella parola antica ch’egli mi ripetette con una maravigliosa nobiltà: «Acciocché tu più cose possa, più ne sostieni

Questa parola oggi la scrivo sul muro della casa straniera, e considero d’averla ricevuta da lui per testamento.

Poi fece l’atto d’alzarsi, mi prese per mano e mi disse: «Vieni ora a vedere la cameretta che ho per te, quando tu la voglia.» Un candore infantile ardeva in lui; e il primo verso del sonetto di Francesco Petrarca mi sonava nella memoria.

Era una piccola stanza chiara, quasi una cella di minorita, con un di que’ letticciuoli che persuadono a serbare una sola attitudine per tutta la durata del sonno. Mi bisogna ancóra andare alla guerraAhimè, era egli in pace? Non lo travagliava di continuo la stessa abondanza del suo amore?

Si volse per passare nello stretto andito, mostrandomi le spalle. Si creò nell’aria uno di quegli attimi di silenzio che serrano il capo di un uomo come in un masso di ghiaccio diafano. E guardai la persona del mio amico con occhi divenuti straordinariamente lucidi; e la pietà mi strinse, che ha talvolta il pugnocrudele. Pareva egli portasse alle spalle tutto il peso della sua tristezza, tutta l’oppressione delle sue miserie. La fronte augusta s’era celata, e non si vedeva contro il muro biancastro se non l’ingombro corporale vestito di panni che il lungo uso aveva fatto quasi dolenti, non rimaneva se non la soma greve ove s’intossica la vita che non è se non il levame della morte.

Volle accompagnarmi fin su la strada, se bene io m’opponessi. La sua salute era già minacciata, già dubbioso era il suo passo. Cadeva su noi una di quelle sere emiliane, umide e cinericce, che sembrano generarsi laggiù, tra la foce del Reno e la bocca del Po di Goro, nella grande palude salmastra. Soffiava su noi un vento ambiguo, che pareva dolco e poi a un tratto ci dava il brivido con una folata fredda. La vettura m’attendeva poco discosto, coperta e nera, con i due cavalli che mal reggevano la lor fatica su le gambe arcate. Non parlavamo più. C’era intorno a noi una specie di silenzio soffice.

E c’era appena, qua e , lo strano

vocìo di gridi piccoli e selvaggi…

Ma udivamo anche le nostre péste «né vicinelontane». L’uno chiamò il nome dell’altro nell’addio. Ci abbracciammo. Come sul viale il vento rinforzava ed egli pareva infreddolito dentro il bavero, gli dissi: «Va, va, rientra. Non restar qui.» Si voltò per andare; e i cavalli avevan messo le radici, tanto stentarono a muoversi. Sicché ebbi tempo di seguirlo con lo sguardo e con l’angoscia fino alla porta. Ed ecco, lo stesso silenzio repentino della umile stanza mi serrò il capo nello stesso ghiaccio trasparente. E, come egli fu alla soglia, si voltò ancóra e levò il braccio verso me a risalutarmi. Da quel fagotto di panni stracchi s’alzò il braccio possente che su per l’erta aveva brandito la «piccozza d’acciar ceruleo».

Una voce d’eroe, quella voce omerica ch’egli aveva tradotto con sì rude efficacia, mi scoppiò dentro e franse il gelo.

Datosi un colpo nel petto, al suo cuore drizzò la parola:

Cuore, sopporta! ben altro tu hai sopportato più cane!

E non per me, ma per lui. Vedevo, come quel braccio levato, sorgere dall’intimo di quell’uomo casalingo e cauteloso la costanza d’una virtù virile, la durezza d’una vita fatta di disciplina, di coraggio e di dominato dolore. Il suo orgoglio s’era formato a poco a poco nel fondo della sua solitudine come il diamante nell’oscurità della terra. «Da me, da solo, solo con l’anima…» Egli s’era fatto degno d’incontrarsi con Achille e con Elena, e di parlare su la tomba terribile di Dante.

Ancóra non so come sia trapassato; ma voglio esser certo che, s’egli talvolta nella vita pianse in disparte, non si velò di lacrime nel fisare la morte. Forse escì dalla sua bocca qualche bella e semplice parola, prima che la lingua gli si annodasse dietro i denti e che lo spirito gli si sciogliesse nel gran ritmo.

Aveva già dato tutto il meglio di sé, o serbava nel cavo della mano ancóra qualche ferace semenza? Che importa? Certo, mille e mille ancóra speravano in lui. Agguagliandosi alla linea dell’orizzonte, egli avrebbe potuto dire verso i suoi fedeli: «Io vi mostro la morte compitrice, la morte che per i vivi diviene incitazione e promissione.» E costoro nell’acciaio della sua ascia sepolcrale potrebbero veder riflesse le stelle dell’Orsa.



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