Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Contemplazione della morte
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XVII aprile MCMXII

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XVII aprile MCMXII

È mezzogiorno. Un’oscurazione di catastrofe si stende su la terra. Ogni cosa ha un aspetto notturno, e sembra rivelar di sé quel che non fu mai veduto per innanzi. È una notte non illuminata dalla luna, né dalle stelle, né dal primo fiato dell’alba, ma da una lampada soprannaturale che spande un egual chiarore e non segna le ombre. Non so perché, penso a quel che provai una volta entrando nella camera buia di un dormente, con una lanterna cieca, per osservare il segreto del suo viso nel sonno. Vedo nelle cose quella stessa impronta di verità interiore, quello stesso segreto palesato. Non è, pel mio spirito, un giorno interrotto ma una notte scrutata a fondo.

L’anima della terra è notturna, ma la luce del sole la nasconde più che non la nasconda la tenebra. Soltanto può rivelarla la divinazione dei poeti; che portano nel loro cuore un sole velato come quello d’oggi. È l’ora del meriggio, e non v’è luce e non v’è tenebra; ma le cose, a questo lume di miracolo, mostrano l’aspetto che debbono avere quando nessuno può guardarlericonoscerle. Milioni d’uomini in quest’ora volgono gli occhi verso il cielo e per passatempo, a traverso il vetro affumato che simula lo smeraldo neroniano, spìano il contrasto del sole e della luna, il disco violetto che sormonta la raggiera d’oro, l’estrema falce solare che imita il novilunio. Ma il vero miracolo è in terra.

Se io guardo gli uomini, li vedo smorti come i trapassati; e i loro corpi non gettano su la sabbia più ombra che non ne facciano i peccatori nella landa sabbiosa del Terzo Girone, laddove scorrono le lacrime che il Veglio goccia da tutte le fessure ond’è vulnerato.

Così per questo silenzio, lungo la sorda riva, vedo venire la larva del Poeta che sa l’«asfòdelo prato» e «i freschi mai». E vorrei, come il suo Odisseo nella dimora del Buio, scavare nella sabbia una fossa ed empirla di sangue, sicché egli potesse come Tiresia abbeverarsi dello squallido sangue e dirmi «infallibili cose».

Sol dopo ciò mi parlava il profeta incolpabile, e disse:

Tu mi ricerchi il ritorno di miele…

Ma il meriggio dell’anima si trasmuta, a poco a poco perde di mistero e d’orrore, vanisce come un sogno divino che al risveglio s’impigli e si stempri nel torbidume dei nostri sensi. Il disco violetto trascorre, e l’astro diurno sembra riardere fumigando dall’uno all’altro corno. La tenzone del sole e della luna ha termine. Ancóra una volta la luce nasconde la vera faccia della terra, e la cieca vita fa ingombro alla morte perspicace.

Da questa vicenda celeste apprendo come l’eclisse, nel mondo interiore, possa essere rivelazione piuttosto che oscurazione. La luce della nostra coscienza abituale non ci copre la nostra verità più profonda? Se alcuna forza fin allora estranea s’interponga, ecco che dentro a noi tutto si trasfigura e si manifesta.

Il massimo degli eclissi è la follia. E che grandi e inopinate mutazioni e visioni da lei nacquero! Ma vi sono anche meravigliosi eclissi prodotti da una certa specie di pensieri dominanti che offuscano la coscienza fallace. Il comune linguaggio però non ha modi per significarli.

Forse, laggiù, un pescatore perduto su l’Atlantico ha visto nel prodigio meridiano splendere Espero.

Un sentimento di lontananza è rimasto in me; che mi seconda mentre rivivo il giorno funebre.

Mi sembra che l’istessa lampada soprannaturale illuminasse quel Sabato Santo, quasi ritornato fantasma di quell’eclisse

che in ciel fue

quando patì la suprema Possanza.

Era uno di quei mattini oceanici in cui l’aria e l’acqua, l’una nell’altra convertendosi a vicenda, sembrano formare un solo elemento inane. Grandi velarii pallidi sorgevano, si dilatavano, si laceravano, cadevano a brandelli, si rammendavano, si ritessevano senza fine. La Landa pareva sollevarli e respingerli col suo fiato affannoso, perché era travagliata dalla doglia della fecondità. A quando a quando, se spirava il ponente, i lembi e le volute s’imbiutavano di fovilla, s’ingiallivano del solfo arboreo. Talora una nuvola di polvere ferace rimaneva sospesa su le chiome dei pini, ondeggiava, dileguava per ispandersi altrove in piogge nuziali. Aerei entrambi, il pòlline e la cenere si mescolavano, come se il vento rapinasse i fiori e gli avelli.

E colui che aveva confuso il pòlline e la cenere nell’émpito dei suoi più alti canti e divinamente comunicato all’una la virtù dell’altro, il poeta annunciatore e intercessore non anche era spirato in quel mattino, se bene io lo credessi e vedessi già composto nella sua finale santità. Ma, mentre erravo di duna in duna seguendo il mio dolore che pareva sopravvanzarmi, mi punse il cuore un’improvvisa sollecitudine dell’amico che ancóra viveva presso; ed ebbi un desiderio ansiosissimo di rivederlo perfetto.

Or il suo vóto non era adempiuto? Non aveva egli omai accompagnato il Redentore sino all’ultima stazione della Via Crucis? Passata era l’ora di nona, l’ora del grande grido; passato era l’antisabato; Giuseppe e Nicodemo avevano tolto dal legno il corpo, póstolo nel monumento e rotolata all’apritura la pietra. Come poteva ancor durare l’agonia del seguace? fino al Resurresso? e oltre, forse?

Dal giorno dell’Estrema Unzione non ero più stato a visitarlo. Perseverava in me il turbamento, e non so che terrore indefinito. La nostra amicizia terrena era chiusa tra quei due pianti, quasi terra compresa da due riviere nate d’una sola sorgente come il Letè e l’Eunoè.

Da questa parte, con virtù discende

che toglie altrui memoria del peccato;

dall’altra, d’ogni ben fatto la rende.

Ma, pur trovandomi in paese di sete e sitibondo, non m’attentavo di bere. Tuttavia rimanevo tra quei due confini senza trascendere né l’uno né l’altro (non per rientrare nella mia patria antica, non per avanzarmi verso la mia patria futura) quasi in una sosta di contemplazione e d’indagine. E quivi pensieri viventi, sin allora a me estranei o da me ignorati, mi divenivano familiari come i colombi che beccano il frumento nel cavo della mano. E talvolta il giovine dalla sindone era meco; il qual serbava in fondo agli occhi notturni una imagine del Maestro non veduta da alcuno. E mi lasciava egli scrutare il fondo de’ suoi occhi, talvolta.

Ricomparire dinanzi all’Unto di Dio, mentre gli stava ancóra in bocca il respiro carnale, mi pareva intempestivo; né avrei voluto di nuovo toccare la sua mano, assistere agli ultimi istanti, udire i suoi rantoli, farmi testimone della sua fine. Piuttosto che commettere un tal fallo, sopportavo il dubbio di sembrargli duro o richiuso. Ben so come omai, di quel ch’egli soleva chiamare «il nostro bel segreto» nel tempo della reticenza, io non possa più parlare se non con me medesimo, e sotto la specie del canto misurato.

Gli mandavo ogni sera i frutti italiani; ché qualche stilla di quel succo fu sino all’estremo l’unico suo ristoro. Ma pregavo la sua figliuola che non glie li mostrasse, non potendo ella recargli anche la preghiera sconosciuta che l’accompagnava. Seguivo col pensiero la fresca offerta che giungeva alla casa di legno verso l’ora della salutazione angelica. Credevo udire la campanella della porta, il passo di quella che andava ad aprire, le parole susurrate, e poi nell’ombra lo scroscio dell’arancia sugosa premuta nel bicchiere che riluceva. E quella imaginazione mi diveniva presenza quasi reale. Sentivo l’odore spandersi; vedevo biancheggiare il morente sul guanciale, e il chiarore della sera adunarsi nello specchio come negli stagni della Landa. E si generava in me non so che dolcezza accorata e melodiosa, da cui sgorgò una sera il canto alterno di Ugo e di Parisina presso il ceppo del supplizio, in fondo alla Torre del Leone.

Diceva Parisina:

Udito hai tu,

udito hai tu sul muro

della torre crosciare

la piova? Tutto è fresco,

tutto è mondato.

Or mi ricreo

come il fil d’erba.

E so che nel ciel ride

già la stella diana.

E Ugo:

Passato è un tempo,

passato è un tempo

ch’io non posso più dire;

e quel che innanzi avvenne

e quel che dopo ancóra,

io nol viddi, nol seppi.

Forse or ti nasco;

e la morte, ch’è sopra,

parlontana.

E l’amata:

Ah tu non sai,

non sai qual sia

nella tua bocca

la voce nova!

La volta cupa

ove risuona

sembra il segreto

antro d’un fonte.

E l’amato:

Vedi che occhi

s’apron ne’ miei?

In me tu sali,

cresci qual mare

senza amarezza.

Il flutto è in sommo.

Non ho il tuo sguardo

sotto la fronte?

E la melodia sviluppandosi assumeva un che di vitreo e di verde, un che d’acqua e d’erba, a imagine di quel giovinetto che un mattino vidi in un sandalo falciare, con la falce mortuaria dal lungo manico, le piante acquatiche nel fossato fosco intorno al Castello di Ferrara.

O mio fastello d’erbe,

dove t’ho da posare?

La nepote di Francesca rispondeva:

Posami accanto al ceppo.

C’inginocchiammo

due volte. Anco due volte

bisogna, o bello

e dolce amico,

bisogna a noi due volte

i ginocchi piegare.

La prima nel peccato,

la seconda nell’onta,

la terza nella morte,

la quarta nell’eternità…

Quando, molto a notte, salivo alla mia stanza per coricarmi, strani brividi attraversavano la mia stanchezza inquieta, e i miei occhi sbarrati guardavano da per tutto; ché m’attendevo una di quelle apparizioni che annunziano il transito delle persone care. E lo specchio era pieno d’orrore.

Certo, non cessavo dall’aver paura della morte, se bene per giorni e giorni l’avessi veduta abitare un uomo e scavarlo di dentro. Ma sentivo che alfine ero per vincere pur quella paura, e per ottenere dal morente una tal vittoria.

Declinava il meriggio, nel Sabato Santo, quando l’angelo neutro per i sentieri sordi della foresta mi condusse nei pressi della collina arenosa ove sorgeva la Cappella di Nostra Donna. Scopersi in alto, di tra i rami dei pini carichi di fiori nuovi e di pigne secche, l’infermeria domenicana col suo verone di legno e sul verone la finestra che dava adito alla camera del morente. Così, non veduto, rimasi all’agguato della morte.

La casa era tacita; l’adito era vacuo come quelle aperture senza vetri e senza imposte, che sfondano all’infinito nelle case abbandonate di Assisi.

Una donna passò cautamente, s’inclinò su la soglia, si fece il segno della croce, disparve nell’ombra.

Un uomo ne uscì, s’incontrò con una fanciulla dai capelli sciolti, si mise l’indice su le labbra per ammutolirla, poi la trasse pel braccio nudo.

Nessuno piangeva. I lineamenti umani erano come raffermati dalla necessità. L’aspetto della casa stessa era come indurito. L’aria intorno vi pareva senza mutamento. Qualcosa come un cristallo spesso la separava dalla respirazione del borgo sparso per le sabbie, overa sonata l’ora del pasto comune.

Stavo accosciato su le radici d’un pino. Giovanni era meco, o la parte migliore di me era divenuta simile a lui; perché tutte le cose fisse intorno, tutte le cose radicate, erano in me riunite da movimenti d’amore come nel ritmo della sua poesia.

Le formiche salivano e discendevano per le vecchie cicatrici del fusto come per le lor vie maestre, in traffico, mentre taluna di loro galleggiava morta nel vasetto d’argilla colmo di résina e d’acqua piovana.

Pei nuovi intagli la ragia colava bianchiccia come la cera che si strugge e goccia intorno ai torchietti dell’altare; ma qua e vi brillavano lacrime limpide come acini di cristallo.

E dove erano infissi i pezzi di bandone obliqui per condurre lo scolo, quivi la piaga pareva più dolente.

E, se volgevo gli occhi alla cima, sentivo ch’essa non era toccata dal dolore ma era assorta in un pensiero d’altezza. Redolet non dolet.

Tutto si santificava in una luce di grazia, in una «bontà senza figura».

Il più tenero fiore di cinque petali era schiuso entro una povera scarpa accartocciata come una scorza.

Un germoglio lanoso spuntava dal fóro di una latta arrugginita; e tra gli spigoli della lamiera storta brulicavano su per i fili della tela minuscoli ragni, gialli come granelli di pòlline. E il minuto pigolìo dei pulcini nascosti nel cespuglio era come se quel brulicame divenisse vocale.

E da ogni più piccola voce si partiva un’onda senza fine confusa nell’immensa dissonanza del vento.

E il vento era come il rammarico di ciò che non è più, era come l’ansia delle geniture non formate ancóra, carico di ricordi, gonfio di presagi, fatto d’anime lacere e d’ali vane. E forse andava, laggiù, a sfogliare il libro aperto sopra il leggìo di quercia, quel libro ch’era antico quando la quercia ancor «viveva nella sua selva sonora». E forse l’ascoltava, laggiù, il cieco che non sa donde venne, non sa dov’ei vada, né può cansar l’abisso che si sente ai piedi… «di fronte? a tergo

Tanto era viva la presenza fraterna che mi volsi come se avessi udito il mio nome. E Giovanni di San Mauro era , sotto un gran rovo intricato che soffocava una ginestra in fiore.

Aveva la sua veste dei campi, la sua veste di contadino: il capo scoperto, il collo nudo. Sedeva sopra un ceppo tagliato. Col mento nella palma, mi guardava dentro il cuore; e, nella fissità, la sua guardatura aveva a destra una lieve loschezza come se quella fosse la pupilla sempre «intenta ad altro». Era tutto bianco, incanutito; e la fronte era veramente un luogo di luce per moltitudini, ma le ritrose dei capelli le davano un che di selvaggio in sommo, un che d’indocile su tanta umiltà. Le sue mani scarnendosi erano divenute belle. E il silenzio delle sue labbra era fatto di quelle profonde pause che ne’ suoi poemi contengono il suo più umano amore o il suo più divino orrore.

In quel punto scoccò, dalla torre della Cappella, l’ora seconda dopo mezzodì.

Sul verone il vano dell’adito era come un gorgo d’ombra. N’escì una donna che non piangeva, ed entrò nella porta accanto, levando le braccia.

E vennero alcune altre donne, alcuni uomini, una fanciulla, tre giovinetti; e nessuno piangeva.

Ma tutta quella famiglia adunata sembrava assumere una forma atta a ricevere l’ignoto, a ritenere in sé il peso dell’esanime.

Il morto entrava nei vivi; e, prima di trasformarsi in memoria, riviveva in loro con la sua canizie, con le sue rughe, con le sue spalle curve, con i suoi occhi pallidi, con la sua voce fievole, con le sue viscere ulcerate.

Entrarono l’un dopo l’altro nel gorgo d’ombra; s’inginocchiarono, s’accalcarono intorno al letto, divennero una cosa compatta su cui il morto pesò come su una bara di carne e d’ossa.

Tutte le voci della Landa non valevano contro il silenzio che serrava la carcassa di legname in quella guisa che i ghiacci polari serrano la chiglia della nave prigioniera.

La casipola rossastra, dentro la sua siepe di biancospino e di giunco marino, covava il più chiuso mistero del mondo: il corpo dell’uomo santo, la spoglia inerte di colui che ha offerto l’anima a Dio e votato sé stesso alla vita eterna.

Passai davanti alla porta, su pel sentiero di sabbia, senza arrestarmi. A ogni passo, mi pareva di perdere qualcosa di me, di lasciarmi sfuggire qualcosa di più fervido che il sangue, come se fossi premuto dal rigore di due ombre. A ciascun fianco avevo la morte, come chi cammina fra due compagni per favellare con l’uno e con l’altro alternativamente.

Vedevo il cadavere nell’aspetto più spaventoso, quando non è ancóra immobile, quando non è ancóra in pace, quando il rito funebre lo manomette, lo costringe a simulare il gesto, movendolo, sollevandolo, nel purificarlo, nel vestirlo.

Come giunsi al principio della mia viottola, a poca distanza dal cancello, mi riscoppiò nello spirito un lampo dell’allucinazione che mi aveva tormentato per tutto l’autunno. L’uomo era , ma senza rilievo.

Quando salii su la mia duna, la bassa marea aveva scoperto nell’insenata il lungo banco mediano, simile nella forma sottile a un ramo secco di palmizio. Era grande bonaccia, nell’aria e nell’acqua. I velarii continuavano a svolgersi e a dissolversi. A tratti il sole appariva tra lembo e lembo; e tutte le sabbie si schiarivano, con un che di molle come il colore interno della banana. Si velava: e tutte scurivano, si facevano brune come gli aghi aridi accumulati, come le fascine delle palafitte.

Il corpo dell’annegato si riformò sul banco, intiero come quando l’avvistai la prima volta.

Fu una mattina di settembre: un cielo candido, un mare quasi di latte. La marea discendeva.

Ero seduto su la loggia. Guardando, scorsi sul banco non so che cosa solitaria e immobile, la cui tristezza mi gravò il cuore prima che la vista la riconoscesse.

Era un cadavere deposto dalla corrente, era l’annegato del giorno innanzi: una povera cosa nuda, più misera d’un rottame, più squallida d’un mucchio d’alghe; ma ora pareva che tutti i lineamenti del paese e della marina, da levante a ponente, da borea a mezzodì, convergessero in quel punto di miseria.

Scesi alla spiaggia, chiamai due rematori; e andammo con la barca fino alla secca, per ricondurre l’uomo.

Stava bocconi, con la testa pendente in un cavo della sabbia, con le ginocchia profondate, con le calcagna in alto, con le mani conserte presso l’ombelico. Il sangue versato dalle orecchie e dalla bocca tingeva la poltiglia acquidosa, e la rena scorreva lenta nel cavo e si mescolava al sangue. Un’orecchia e i capelli intorno erano ingrommati; il braccio era scarnissimo, bianchiccio, debole come un braccio di femmina; le unghie e le falangi erano paonazze come quelle del tintore a zàffara; le gambe erano pallide sotto i peli bestiali, i piedi erano chiazzati d’azzurro.

Lo guardavo con l’attenzione terribile dell’arte, come non l’avrebbe guardato neppure la sua madre; me lo stampavo dietro le pupille. Tenevo curvato su lui il mio ribrezzo angoscioso con le due branche della mia volontà. Una vespa ci ronzava intorno insistente, e la sabbia era lavorata come i bugni.

I rematori gli presero i malleoli in un nodo scorsoio, e lo trassero in acqua con la gomenetta legata a poppa. Il sangue nero rimase nella poltiglia, e lo lavò la marea più tardi. Ricevetti per sempre nel cervello anche l’orrenda scìa.

Poi i due, aiutati da un terzo, lo sollevarono all’approdo. Ciascuno lo teneva sotto l’ascella, e il terzo per i piedi cerulei. S’inarcava appena, essendo rigido; e la testa pendeva giù come nel cavo, col naso pieno di coagulo rossiccio.

La sera me lo rividi ritto su la loggia, nell’ombra.

Per gli occhi sbarrati dallo spavento m’entrò anche più a dentro. M’era sconosciuto; non sapevo nulla di lui, fuorché qualche notizia vaga del suo stato modesto, della sua vita volgare. E l’avevo compagno implacabile.

Calando il sole, cominciavo a temerlo. M’aspettava presso il cancello, quando rientravo. Nelle notti di lavoro, quando nella stanza attigua la candela s’era strutta, appariva nel rettangolo buio dell’uscio. Gli vedevo l’orecchia piena di grumi, la bocca e il naso carichi, il braccio scarno.

E non m’era più possibile dormire dalla parte del mare.

Poi fu meno assiduo, si mostrò a intervalli sempre più lunghi, si scolorò, divenne una larva fievole, si disperse. Ma il pensiero della morte restò in me gravato da quell’orrore.

Ed ecco che riappariva, ecco che si rimetteva bocconi su la sabbia ad aspettare, come se io dovessi di nuovo imbarcarmi e andare a cercarlo!

Sì, la paura corporale della morte era in me, come se l’uno e l’altro amico dipartendosi m’avessero curvato verso il sepolcro, verso la putredine l’ossame e la cenere. Le dita invisibili della malattia mi sfioravano la nuca, le reni, la gola, i precordii. Camminavo imaginando le gambe appesantite da un piombo subitaneo o invase da una sorda mollezza di bambagia. Vedevo chino su me il medico che ascolta e che palpa. Un soffio, un fremito, un qualche romore di condanna m’esciva del cuore; o da una molecola del cervello un offuscamento repentino si spandeva su tutto, come il nero che schizza dalla borsa della seppia e intorbida l’acqua.

Dominai l’angoscia. Tuttavia le cose mi si manifestavano come se io le guardassi da non so che chiusa profondità.

I suoni parevano impigliarsi nel silenzio come in una sostanza tenace: il gemito fioco d’una sirena all’imbocco, il rombo d’un’elica, il tonfo d’un remo, il richiamo d’un pescatore, il grido d’un uccello.

E le attitudini disperate dei pini, davanti la mia loggia, in tanta inerzia dell’aria, mi toccavano per un sentimento simile a quello ch’esprimono i gruppi scolpiti della Deposizione, ove le Marie si piegano sul divino corpo investite da una ràffica di dolore. Lo sforzo iroso del vento aveva torto per anni i tronchi e i rami; e l’aspetto della tortura durava, mentre l’aria era immobile.

Un fanciullo mi portò l’annunzio dall’infermeria domenicana. Uno dei figli mi scriveva come il padre gli avesse raccomandato di annunziare la sua fine a me prima che ad ogni altro e di comunicarmi che nel Venerdì Santo «all’ora di nona» m’aveva benedetto e poi non aveva più parlato in terra.

Mi disposi di visitare il beato, declinando il sole. Non so che umida dolcezza s’era diffusa nel cielo: qualcosa di racconsolato e di fidente, che mi ricordava il volto del vecchio quando uscimmo insieme sul sentiero di paglia, la prima volta, dopo il pianto.

I gradini della mia scala esterna erano polverosi di pòlline, ove il piede lasciò la traccia. Il medesimo solfo vivace ingialliva i margini del viale.

I miei cuccioli di otto mesi, che l’uomo del canile conduceva su la spiaggia per l’esercizio del pomeriggio, mi corsero incontro facendomi festa a gara. Alzati su le zampe nervute, mi coprivano della loro vita pieghevole e trepidante. I loro denti erano più puri del gelsomino, e i loro occhi vai o grigi o lionati parevano scintillare alla cima della loro inquietudine.

Una pena mi si svegliò nel cuore: pensai ai miei cuccioli di cinque giorni, dagli occhi ancóra suggellati. Erano nove; e, per non spossare la madre, bisognava risolversi alla scelta crudele, al sacrifizio dei meno belli e dei meno forti! Avevo fatto cercare da per tutto una nutrice, senza riuscire a trovarla. Entrai nel canile, col cuore ammollito da una pietà quasi feminea.

La levriera, coricata sul fianco, teneva il muso nascosto tra le zampe incrociate, con la grazia del cigno che caccia il becco sotto l’ala. I suoi belli occhi d’un colore di dattero avevano una lucentezza quasi febrile, e un lieve affanno sollevava le sue costole disegnate come i madieri d’una carena.

Cinque de’ suoi piccoli poppavano, con un vigore già pugnace, pontando contro il seno materno le due zampette per ispremere la mammella, scotendo a tratti il capo per meglio trarre; e un’ondulazione di godimento correva dalla grinzolina della collottola alla punta della coda di sorcio, parendo quasi render palese il getto irrigante; e un fievole fiottìo accompagnava il poppare, un fiottìo lontano che faceva pensare a quello mattutino dei gabbiani sospeso su la bonaccia.

Gli altri quattro, sazii, dormivano sul dorso come bimbi, mostrando il ventre roseo dove l’ombelico era appena chiuso, mostrando la pianta dei peducci lucida e tenera come certe fogliette appena nate, che sembrano di cera e di lanugine. A quando a quando sussultavano e gemevano come se già sognassero. Uno seguitava a poppare in aria, con la bocca molle modellata su la forma del capezzolo; e la lingua era concava come un petalo carnicino; e la gola palpitava come se tuttora la irrigasse il latte.

Mai il primo fiore della vita animale m’era parso più miracoloso. La cagna aveva alzato il muso verso la mia carezza, poi s’era volta a leccare il poppante che succhiava l’ultima mammella già esausta premendola con un’insistenza irosa. Ella gli dava leggeri colpi per rivoltarlo sul ventre, ma il catellino tenace non lasciava la presa e metteva un suono di dispetto simile a un garrito spento. Era bianco pezzato di grigio; aveva una stella in fronte, un orecchio bruno e uno roseo, ancor nudo, suggellato come gli occhi, occluso da due o tre vescichette lustre. Lo conoscevo bene in tutti i suoi segni, come gli altri. E ora tutto mi pareva straordinario, divino come la diversità dei fiori, con quegli screzii del pelame, con quelle mischianze misteriose dei caratteri materni e paterni.

Li avevo veduti escire a uno a uno, come piccole nuvole opaline, come sfere azzurrognole, come mondi informi: spettacolo nauseabondo e sublime. Avevo veduta la infaticabile tenerezza della madre nettarli a uno a uno dall’orrenda schiuma, troncare il cordone sanguinante, sospingerli ciechi e sordi verso la fonte tiepida della sua vita. Tutto m’era parso grande e augusto, portento d’amore e di sapienza; tutto ora mi pareva sacro. Come avrei potuto scegliere e condannare? Mi sentivo pronto a qualunque ufficio più umile e greve per salvare pur la men bella di quelle creature viventi.

L’uomo del canile indovinò la mia pena e mi disse: «Aspettiamo ancóra qualche giorno. La nutrice si troverà. Me n’hanno promessa una, nella Landa

Mi mossi verso la Cappella di Nostra Donna. Il cuore mi oscillava tra la vita e la morte.

Avevo preso meco un mazzo di rose che somigliavano quelle ch’io non vedo più, quelle di Toscana alternate coi giaggiuoli lungh’essi i muri graffiti dei poderi, a Castel Gherardo, o verso il Palagio del Sere, o lassù al Crocifisso Alto. Riudivo il versetto intonato da Enrico Suso: «O giovinetta rosa di primavera! O vernalis rosula!»

Nessuno piangeva, nella casa domenicana. Un dolore composto e taciturno annobiliva tutta quella genitura discesa dall’uomo santo. Passai pel verone di legno, non scorsi rilucere lo specchio, misi il piede sul limitare, vidi qualcosa di bianco nascere, presso e lontano. Prima che le pupille scoprissero l’immobile forma, nel mio amore e nella mia reverenza due bare si congiunsero. L’umile uomo da bene e il poeta indimenticabile erano una sola morte. Ed erano un solo sorriso, una sola pace, una sola beatitudine.

Non avevo mai veduto la morte vestita di quel divino pudore, se non in certe stele funerarie ad Atene, se non in certe pietre sepolcrali di questa terra di Francia, nelle quali il marmorario sembra precorrere il lavoro dell’Artefice eterno che al novissimo riscolpirà tutti i volti secondo la bellezza perfetta. Ogni lesione della vita pareva cancellata. Non l’anima soltanto, non soltanto l’anima di sacrificio e di preghiera, ma la carne di dolore e di colpa aveva ottenuto l’indulto. Tanto dunque una carne miserabile, vaso di dissolvimento, può divenir bella nelle prime ore della morte? Ero certo che anche nel volto del mio fratello, laggiù, su la collina d’Italia, risplendeva quella bellezza.

Posai le rose su’ suoi piedi congiunti sotto la coltre bianca. Mi chinai a baciarlo in fronte, e non ebbi terrore. Una voce sommessa mi chiese: «Non volete pregare per lui?» Mi fu offerto un inginocchiatoio leggero, che aveva la predella di paglia. M’inginocchiai. Altre creature erano in ginocchio e pregavano, senza susurro.

Volgevo le spalle alla luce. La mia ombra cadeva sul letto funebre, stava su le ginocchia sparenti del cadavere, incrociata con quel corpo tanto sottile che non s’alzava dal piano più d’un bassissimo rilievosembrava pesare più della mia ombra. Quanti difficili nodi ho conosciuto, dai più robusti che fanno con i canapi i marinai a quelli che si piacque di disegnare l’ermetico Leonardo! Ma nessuno mai arcano come il groppo di quelle due mani esangui intorno al crocifisso d’ebano. Nessuno mi parve mai tanto durevole e indissolubile. L’osservavo di continuo, gli occhi miei affascinati fisandosi di continuo in quel punto; e non riescivo a comprendere come le dita fossero tra loro intessute, come quella cosa pallida e solinga fosse connessa.

Il chiarore che tante volte avevo veduto nello specchio spaventoso, quel medesimo ora occupava la stanza. Mi volsi un poco a sinistra, e scorsi lo specchio coperto d’un lenzuolo bianco. Quali visioni insostenibili aveva serbato nel profondo?

Da prima in me fu silenzio. L’umile uomo da bene e il sovrano cantore del bene erano una sola morte e una sola santità. Volgevo le spalle alla luce del giorno occidente, all’immensa Landa deserta. Era in me col silenzio un’attesa senz’angoscia. E a poco a poco uno spirito musicale entrava in me. Mi sovveniva della sera d’ottobre, della sera d’un altro sabato, d’un abituro presso un’altra Cappella, in mezzo a un’altra foresta. Mi sovveniva di Francesco alla Porziuncola e dell’ultimo cantico cantato nell’ombra, con la faccia rivolta al cielo, mentre i fratelli ascoltavano rattenendo il respiro. «Voce mea ad Dominum clamavi.» Tutto il cielo, quando il Serafico si tacque alla soglia d’eternità, tutto il cielo della sera fu pieno d’un coro miracoloso di allodole.

Ed ecco, dall’immensa Landa, una melodia sorse e si sparse, una melodia che forse già riempiva tutta l’ombra degli alberi piagati ma che non fu da me udita se non in quel punto. Di duna in duna, di selva in selva, di macchia in macchia, la Landa si fece tutta melodiosa, fino all’Oceano. Era un cantico d’ali, un inno di piume e di penne, quale non s’ebbe più vasto il Serafico, quale non si sognò così pieno Paulo di Dono. Era la sinfonia vesperale di tutta la primavera alata, per Giovanni di San Mauro, per l’interprete di ogni aerea voce.

Saliva, saliva senza pause. E a poco a poco, di sotto al salmo silvano, si moveva una musica fatta di gridi e di strepiti conversi in note armoniose da non so qual virtù della lontananza e della poesia. Erano i suoni familiari che avevano cullato i sogni agresti di Castelvecchio: risa di bimbi, favellìo di massaie, uggiolìo di cani, péste di cavalli, mugghi di mandre, stridore di carretti. E i galli chiamavano e rispondevano, dai chiusi di giunco marino e di bianco spino, come se il vespro si mutasse in alba, la quiete in risveglio. E le campane sonavano come «nei cilestri monti». E la sera varcava la soglia, simile a un grande arcangelo velato.

Giova ciò solo che non muore…

La cella era divenuta cupa come una cripta, ma il salmo della Landa la riempiva come il rombo dell’Oceano riempie la conca. Il letto bianco era divenuto simile a quelle arche d’argento che splendevano nella vecchia contea di Sciampagna; e sopra vi giaceva una statua supina. E non era l’effigie d’un morto ma d’un immortale: come le figure del secolo di fede, aveva gli occhi aperti perché non credeva se non nella Vita. Come nell’antifonario di santa Barbara, era per levarsi e per dire con un’allegrezza imperiosa: «Aperite mihi portas justiciae. Ingredior in locum tabernaculi admirabilis usque ad domum Dei.» Non mostrava le tracce degli anni, i solchi senili; ma era ferma nella giovinezza del Risorto, nell’età che tutti gli uomini avranno quando saranno per risorgere come Lui. E non le stava sul capo la guglia trilobata che sovrasta ai Santi nei pilastri e nelle vetriere della cattedrale? E il duomo di Dio, la cattedrale unanime e innumerabile, non s’alzava di sopra a quella cripta nuda, con la sua selva di simboli e di misteri? E il sole gotico non s’era colcato dietro la grande Rosa?

Il salmo non aveva fine. Tutto pareva salire, ancóra salire, sempre salire, nel rapimento di quel canto. Il ritmo della Resurrezione sollevava la terra. Io non sentivo più i miei ginocchi, né occupavo il mio luogo angusto con la mia persona; ma ero una forza ascendente e molteplice, una sostanza rinnovellata per alimentare la divinità futura. Cose ignote, esseri ignoti erano per nascere al suono della mia prossima voce. Non v’era più ombrapaura di morte in me; né pur v’era desiderio o speranza di pace. «Non voglio la pace. Voglio morire nella passione e nel combattimento. E voglio che la mia morte sia la mia più bella vittoria.» Avevo accesa una nuova lampada ma anche rifuso un più ricco olio nell’antica perché riardesse. Mi sentivo figlio di me, e le mie labbra non avevano appreso a proferire il nome del Padre nell’orazione.

«Amici, è sempre sera e presto sarà notteVedendo guizzare su la parete un lume improvviso, mi levai. Qualcuno stava per accendere un cero a piè dell’arca imaginaria. Mi levai, mi volsi, uscii. L’atto fu così rapido che nessuno mi seguì, tranne un giovinetto. Gli aditi erano bui. Non lo distinguevo. Quando mi sfiorò il braccio per passarmi innanzi, vidi brillare il bianco de’ suoi occhi. Quando fummo sotto la tettoia, vidi la sua faccia dorata, le ciocche folte e nere de’ suoi capelli. Lo sentii tremare mentre m’apriva la porta sul sentiero di sabbia. Allontanandomi, non udii il rumore del cardine dietro di me; e pensai ch’egli fosse rimasto sul limitare a guardarmi. Ma non mi voltai. Mi pareva che un viso nuovo mi fosse nato dal mio spirito. L’imagine rivelatrice del giovine dalla sindone mi toccò la cima del cuore.

Discesi la duna. Il calcagno s’affondava senza sonare. La Landa ora taceva, in una nuvola di pòlline, piena di connubio. Il salmo vesperale era cessato. Una costellazione misteriosa si accendeva nel cielo violetto. Il tuono remoto dell’Oceano era come il vigore del silenzio.

Giova ciò solo che non muore, e solo

per noi non muore, ciò che muor con noi.

Ero in quello stato di potenza che talvolta ci fa sentire come il vivere non sia se non un continuo creare. Passai presso un cespuglio fragrante nell’ombra, che mi divenne un sentimento meraviglioso. D’un tratto uno scoppio di passione canora trasmutò il silenzio in un’ansia intenta. Le stelle s’appressarono alle chiome dei pini feriti. Cantava l’usignuolo.

Vidi brillare il Faro laggiù, su l’estrema lingua di sabbia. M’accorsi d’esser vicino alla mia duna. Camminai verso la casa, con l’anima rovesciata indietro a ricevere il canto. Un’ombra stava diritta presso il cancello, nel luogo medesimo ove soleva aspettarmi l’uomo livido. M’appressai con un passo più rapido, con gli occhi aguzzati.

Era uno sconosciuto della Landa che mi conduceva la nutrice. Teneva a guinzaglio una cagna da caccia, che a quando a quando mandava fuori un lamentio sommesso. E la voce della madre era così straziante che non udii più quella dell’usignuolo. «Dove ha lasciato i suoi piccolichiesi allo sconosciuto. Il carnefice li aveva annegati in una tinozza d’acqua fredda, tutti: erano dodici! Mi curvai verso la disperata, posi un ginocchio a terra. Lo sprazzo rosso del Faro illuminò la sua bella testa falba dalle larghe orecchie di velluto, la sua faccia possente e pacata ove brillavano due occhi folli. E vedevo galleggiare nella tinozza i dodici piccoli cadaveri.

Allora, inginocchiato su la sabbia, le palpai le mammelle ch’erano gonfie e calde tra i lunghi peli bianchi e bai. Il forte lezzo della maternità mal curata e della cuccia negletta mi rendeva più pesante il cuore. E lo sprazzo candido del Faro mi passò sul capo chino.


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