Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Elegie romane
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Libro primo

Sogno d’un mattino di primavera

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Sogno d’un mattino
di primavera2.

Quando la tua sorella Aurora, già sazia di sogni

ebra di baci tutta umida di rugiade,

come cerbiatto ignaro d’insidie ne’ vergini boschi,

pronta alle soglie balza con líeto ardire,

tu non il suo chiamare, o Ippolita, odi. Il mio petto

ben del tuo dolce capo teneramente premi.

Premi il mio petto, e dormi. Qual s’apre or nell’intimo foco

della tua vita e sorge misteriosa imago,

irradiando un riso che tenue sgorga e diffuso

trepida per l’aureo fior delle membre tue?

Rompe così ne’ maggi da polle invisibili un’acqua

viva, balzante spirito, in un rosaio:

trèmane tutta quanta la molle compage de’ fiori;

poi d’un fulgore liquido s’illumina.

Or nell’oblìo sommersa, Ippolita, vedi tu strane

plaghe, odi tu novelli carmi e novelli suoni?

Odi il divin tuo nome passare negli inni? Procedi,

splendida fra il duplice coro, a’ fastigi ultimi?

Quale favilla viva cui nutran le ceneri in grembo;

quale balen che dorma entro la nube grave;

quale adamante intatto che splenda con lume di stella

su la ricchezza oscura delle terrestri vene;

qual sole ascoso ad occhi mortali, che sperda su vani

esseri, per gelido aer, le sue virtudi;

quale un pensier di nova beltà creatore su ’l mondo,

che ancor segreto rida sotto la fronte al nume;

tal per te sola, o donna, per te, per te sola da tempo

celasi ne’ vergini regni un divin potere.

L’hanno in custodia i Saggi. All’ombra d’un’arbore immensa,

candidi nella veste, placidi come iddii,

vivono. Un’aria calda li nutre. Su l’erbe d’in torno

rapidi i leopardi piegano i dorsi gai.

Il mormorio de’ fonti, il susurro de’ rami, il sommesso

fremito delle belve mescesi alle parole.

Oh fecondati regni dal sacro abbraccio de’ fiumi,

beneficata specie dal providente cielo

ove d’un’alleanza degli astri principio di vita

sorge ch’effuso nelle solitudini

crea dalla sorda pietra, crea pure dall’arido loto,

crea pur dal ferro spirti innumerabili!

Ecco sentieri d’ombre, profondi, cui versan la luce

fiori d’ardente vita, esseri non mortali;

templi d’ignoti numi, alla gioia del bene aperti

sopra colonne bianche qual pura neve,

armoniosi, eterni, ove l’aquile fanno gran cerchi,

ove sospira il caldo vento natìo del mare;

chiostre di colli emerse da vasti golfi lunati,

ove talor nell’aria passan le forme dive,

forme di tal corusca virtù penetrate che alcuna

d’occhi mortali forza non le sostiene,

simili a te nel riso, che incedon su ’l mare con lento

passo e guardando all’alto cantano dolci cori.

Cantano: — Or chi dall’alto precipita a’ campi del mare,

rapido com’aquila, splendido come fuoco?

Quella discende forse, che molto aspettano i Saggi,

donna reina? O forse dalle sue rosse case,

contra i fraterni tèli, demente per novi desiri,

anche apparì l’audace figlia d’Iperione?

Non del titan la figlia; ma l’altra, ma l’altra s’appressa.

Cose universe, udite! Ecco, l’Eletta viene.

Viene l’Eletta. O cieli, che tutta accogliete l’immensa

anima del Creato entro la vitrea sfera;

voi, o correnti, o vene del mare, che l’isole intatte

stringer godete in vostre adamantìne trame;

nuvole erranti, o voi lungh’esso il monte selvoso

greggia che il vento guida, truce pastor, fischiando;

urne de’ fiumi, aperte da vegli possenti alla Terra

giovine; e voi, stromenti ampi dell’uragano,

selve terrestri; e voi, profonde oceaniche selve,

dove ogni tronco ha occhi vigili nell’orrore;

cose universe, udite! L’Eletta, ecco, viene che a noi

reca per legge il solo ritmo del suo respiro. —

Cantano. Tu non odi passare negli inni il tuo nome?

Premi il mio petto e dormi. Splendemi in cuor l’aurora.



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