Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Elegie romane
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Libro primo

Villa Medici 5.

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Villa Medici 5.

I

Tu non mi dài la pace, o Sole sereno, e l’oblìo

se i cari luoghi io cerchi vago de’ raggi tuoi!

Troppo soavi, ahi troppo soavi anche giungonmi al core

questi che tu diffondi spiriti, o Primavera,

questi onde tutta vive la dura pietra e si scalda

umanamente e gode nelle profonde vene,

onde gioiscon gli orti chiomati di verde novello,

tremano le raccolte acque nell’urne loro.

Tremano con sommesse parole, nell’ombra, e fan cupo

specchio a tal ombra l’acque dentro il marmoreo vaso.

Stanvi le querci sopra, che l’aura de’ secoli avvolge;

odono il suon, guardando placide a’ cieli e a Roma.

Chiusa ne’ suoi recinti la villa medìcea dorme;

alzansi lenti i sogni dalla sua gran verdura,

come allor che su ’l primo tremar delle vergini stelle

per i quieti rami cantano i rosignuoli.

Oh pura in me, su ’l vespro, piovente dolcezza de’ sogni!

Muta, la lunga scala ella saliva meco.

Tutta nel cor segreto io sentiami languire e tremare

l’anima, al premer lieve della diletta mano.

Ma, come fummo al sommo, la bocca ansante m’offerse

ella: feriva il sole quel pallor suo di neve.

Alto d’amor susurro correa lungo i bóssoli foschi;

dardi rompean la cava tènebra tutti d’oro,

quasi che d’odorato peplo e di veli ondeggianti

bella ivi errasse Cintia dietro vestigia note.

II

Ben tale dea presente, cui nomano Luna i mortali,

empie d’un amoroso spirito i cari luoghi.

Ben questi elesse talami verdi e profondi la dea

agli amor suoi segreti, paga d’angusto impero.

Piacquesi de’ lavacri, che artefice umano compose,

ella obliando i chiari fonti, gli azzurri fiumi:

l’agile per le selve d’Etolia corrente Acheloo,

truce figliuol di Teti, vago di Deianira;

l’Axïo dalla riva lunata per ove muggendo

candida l’ecatombe venne con passo grave;

ed il Penèo sonoro che vide di Dafne le membra

torcersi verdi e snelle, ripalpitare in rami;

te, bel Cefiso, a cui la diva Afrodite bevente

rise da tutto il volto, diede in balìa la chioma;

te, puro Eurota, largo d’allori e di freschi roseti

e di freschissime acque, d’onde emergeano ignude

vergini protendendo le belle braccia pugnaci

verso la madre Sparta, a salutare il Sole.

Erano a Delia cari tai fiumi; al grand’arco divino

porsero i lidi immensa copia di cacciagioni;

grati offerian riposi negli antri alle ninfe anelanti;

murmuri avean di molle sonno persuasori.

Ma ben li oblia la dea. Non ebbero quelli il tuo riso

misterioso, o fonte, l’inestinguibil riso,

tenue balen che l’acque tue pallide illumina a fiore

(tal ride pur fra’ pianti l’anima in occhi umani)

onde in ardore treman a torno gli aperti narcissi,

languidi reclinanti, presi di van desìo.

Non ebber quelli, o fonte, non ebber le voci tue vaghe

più che mel dolci, lene balsamo a’ duoli umani.

Qual su ’l polito ferro dell’aste purpurea s’imperla

l’onda del sangue e brilla nitidamente al sole,

tale su l’infiammata anima il confuso susurro

frangesi in varianti numeri armoniosi.

Ode la selva intenta, le vergini stelle da’ cieli

odono: a lor la fonte ride di conscio riso.

III

Deh nel mattin recante gran fior di rugiade novelle,

quando improvvisa apparve l’esule dea tra’ rami,

deh come tutte d’intimo ardor palpitarono l’acque,

poi che sentìan l’antica divinità redire!

Fulsero i tronchi allora con lume di puri diaspri;

ebbero allor le foglie dell’adamante i fuochi.

Quivi il pastore biondo bellissimo Endimione

Trivïa seco addusse; quivi prigion lui tiene.

Sta l’alta maraviglia. Pur sempre rifulgono i tronchi

quivi in rigor di pietra simili a gemmei steli.

Piegansi i rami, carchi di verdi cristalli politi;

pendon tra ramo e ramo lunghi velarii d’oro,

poi che per entro questi misteri invisibile Aracne

alle sottili attende opere de’ telai.

Tacciono i vènti sopra: non fremito corre le cime;

non, nel profondo incanto, giungon dall’Urbe voci.

Nascere dal silenzio paiono tutte le cose

come le salienti nubi dal mare; e immote

(tali il giacente inconscio nel sogno ingannevoli forme

vede, che a lui dall’imo genera il lento cuore)

durano: soli i lauri con lieve tremito incessante

dan tra la selva indizio della nascosta vita.

IV

Oh lauri, quanto un giorno all’anima nostra soavi!

Alta venìa ridendo ella fra gli alti steli.

L’ombra de’ bei capegli oscura battea come un’ala

su la sua fronte; i lunghi occhi parean più neri.

Freschi salìan di sotto il breve suo passo gli effluvi;

molli pioveano albori dalle vocali cime.

L’Erme dall’ombra mute sorgendo in lor forma divina,

vigili meditanti anime nella pietra,

lei riguardavan, come assorte in pensiero d’amore:

sotto il lor piè quadrato snelli fiorian gli acanti.

Io per sentieri ignoti fra’ lauri così la seguii

trepidamente; e parve fosse d’intorno l’alba.

Parvemi, lei seguendo fra’ lauri, che dietro quell’orme

ratto fuggisse il sangue mio dal profondo core

quale un vapor da calice colmo, e di vene novelle

tutto l’amato corpo anche cingesse, e mista

l’anima mia per tale prodigio alla bella persona

fulgida avesse gioia dalla comune vita.

Fulgida gioia, oh grande mia comunione d’amore

onde in bei fior di luce vaghi nascean pensieri!

Parvemi, lei seguendo, che simile in vista alla donna

cui lungo il rivo scorse Dante tra’ freschi maj

(Deh bella Donna — ei fece — ch’a’ raggi d’amore ti scaldi! —

Volsesi la soletta in su ’l vermiglio a lui)

ella in salir per l’erbe vestigia stellanti lasciasse,

gemmee spandesse ai mirti dalle sue man rugiade.

Ecco, la Notte ascende per l’umido cielo: viole

trae nell’aerea vesta, pallide rose trae.

Leva col piè fulgori di stelle per gli archi profondi:

treman le stelle, come polvere effusa d’oro.

Vede l’innumerevole riso d’a torno in gran cerchi

spandersi: gode al sommo ella seder reina.

Voi salirete, o donna, così l’altura ove al sommo

s’apre, fiammando forte, quella mia speme nuova.

S’apre solinga in cima, qual rosa che imperlano dolci

lacrime, che il più caldo sangue del petto irrora.

Risplenderanvi sotto il piè nel cammino le stelle;

racconteran le stelle la maraviglia ai cieli.

Voi nella gloria, voi nel riso d’amore salendo,

giugnere udrete il canto: «Ella, ella sola è gioia.

Entro le man sue reca più luce che non l’Ora prima;

fatta ella tutta quanta è di sovrane cose



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