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Triste e pensoso, l’ombre cadendo, su ’l getico lido
sta Publio Ovidio. Innanzi urla il feroce mare.
Chino biancheggia il capo cui cinser gli Amori corone:
pendon su lui la grande ira d’Augusto e il fato
ferreo, che la lunga querela non odono. Il pianto
inutilmente riga le tomitane arene.
Inutilmente, ancóra, da Cesare nume benigno
l’esule attende un ramo della pacata oliva.
Già sopra sta l’inerte vecchiezza; la ruga senile
ara già il volto. Attende egli la morte, e chiama.
Flebile il carme sale per cieli immiti ove i dardi
fischiano che di lungi scaglia il bracato Geta.
— Niobe felice, se ben tante vide sciagure;
che, fatta pietra, il senso perse del male. E voi,
voi pur felici, cui le bocche chiamanti il fratello
chiuse di novo còrtice il pioppo. Io sono,
io son colui che mai sarà confinato in un tronco,
io son colui che in vano essere pietra vuole. —
Cadono l’ombre, s’addensano gelide; il mare
ulula; il vento reca strepito d’armi. Oh Roma,
Roma! Oh su’ colli piniferi aureo tepente
vespero e ne’ rigati orti dall’acque nove
murmure che sopiva la cura e lungh’essi gli insigni
portici riso dell’amica giovine!