Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Elegie romane
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Libro quarto

Ave, Roma20.

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Ave, Roma20.

Esule anch’io, pensoso di te, di te sempre pensoso,

Roma, non fra gli intonsi barbari Ovidio sono:

né mi colpì lo sdegno di Cesare, ma la funesta

dea che la tua campagna orrida e sacra tiene.

Mi visitò nel sonno la livida Febbre; e il mortale

tossico, me misero!, tutto il mio sangue tiene.

Lugubre è il mio perire, se ben non sia questo il feroce

Ponto e non la scitica freccia nel cuore io tema.

Sotto sereni cieli più duro è l’esilio a tal cuore

cui più nessuna cosa che amò rimane.

Stanca è la carne e spira già l’anima, in questa incompresa

pace. Oh lasciate un’Ombra verso la morte andare!

Tutto è sereno. Il flutto è docile. Incurvasi il lido

come una lira, dove sorgono emerocàli

simili agli asfodeli che illustrano i clivi dell’Ade,

candidi. Ma non questa pace il morente chiede.

Chiede il silenzio immenso, eterno, che sta su l’immoto

fascino del deserto onde tu sorgi, o Roma.

Quale alto monte, quale oceano infinito, qual, somma

tenebra vince tanta solitudine?

Quivi la morte sia. Ti vegga da lungi più grande

d’ogni più grande cosa il morituro e — Ave

dica — o tu, Roma, tu dolce e tremenda! Ave, o Roma

unica, o dell’anima nostra unica patria!



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