Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Elegie romane
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Libro quarto

Congedo 25.

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Congedo 25.

Libro, tu Roma nostra vedrai. Ti manda alla grande

Madre colui che molto l’ama, che sempre l’ama.

Recale tu il dolente amore e il desìo che distrugge

l’esule, e il van rimpianto, ahi, del perduto bene.

Io non tentai nel verso esprimere l’alta bellezza.

Troppo ella è grande e troppo umile è il verso mio.

Sol chiusi in te, o Libro, dell’anima mia qualche parte.

Va, senza gioia. Quasi cenere fredda rechi!

Va, dunque. Roma nostra vedrai. La vedrai da’ suoi colli,

dal Quirinale fulgida al Gianicolo,

dall’Aventino al Pincio più fulgida ancor nell’estremo

vespero, miracolo sommo, irraggiare i cieli.

Tal la vedrai qual gli occhi la videro miei, quale sempre

nell’ansiosa notte l’anima mia la vede.

Nulla è più grande e sacro. Ha in sé la luce d’un astro.

Non i suoi cieli irraggia soli ma il mondo Roma.


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