Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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AVVERTIMENTO

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AVVERTIMENTO

RACCOLGO in tre tomi densissimi le più belle prose, e le più varie e le più ricche e le più ardite, arditamente estratte dal libro della mia memoria. E so di cadere in trasgressione contro un mio antico proposito. E non nego a Frate Iacopo che di questa mia trasgressione, come di ogni altra, sia «cagione e principio la superbia».

M’è a noia la falsa modestia di Francesco Petrarca che, avendo istituito di scrivere quel suo colloquio intitolato Il Secreto, si schermiva così, come forse un tempo io mi sarei schermito: «Non che io voglia questo essere connumerato fra le altre mie opere, ovvero che io addomandi da questo gloria (la mia mente rivolge alcune cose maggiori), ma acciocché la dolcezza, la quale io presi una volta da quel colloquio, quante volte mi piacerà, io possa quello leggendo ripigliare.» Ed ammonisce egli il suo libello che, fuggendo la moltitudine degli uomini, sia contento di star col suo autore e non dimentichi il proprio nome: «perché tu se’ il mio Secreto, e così se’ chiamato

Nel mio tempo fiorentino – or è moltanni di studio e di azione e non di età, ché la mia età è sempre novella – ebbi per mano un libro d’un cronachista mercatante del trecento: una semplice cronaca della sua casa e della sua bottega, una «brieve menzione» de’ fatti segreti della compagnia e della mercatanzia, che a lui s’appartenevano, d’anno in anno. E nella prima carta del codice era scritto: «Questo libro è di Goro di Stagio Dati, e chiamerollo libro segreto

Allora presi una grande cartella di cordovano fulvo, una vecchia legatura vedova a cui non eran rimasti se non il dosso e le due tavole e il motto d’oro Regimen hinc animi. E dentro vi raccolsi i primi fogli rinvenuti nel libro della mente che vien meno. E, di tratto in tratto, altri ne aggiunsi. E da quel tempo tenni quel cordovano come il mio libro segreto; e in una delle facce interne volli trascrivere il principio di Goro, che mi piacque: «Al nome di Dio Padre Figliuolo e Spirito Santo qui apresso farò memoria di certe speciali cose, a chiarezza di me e di chi fosse dopo me, che Idio ci dia grazia che siano buone

Mi piacque di vedere con tanto concisa e franca semplicità espresso il mio intendimento dal figliuolo di un Cònsolo dell’Arte e Camarlingo al Sale, più tardi Cònsolo dell’Arte egli medesimo dieci volte, e poi Gonfaloniere di giustizia, e poi de’ Dieci della libertà. «A chiarezza di me.»

Tutte queste mie ardue prose furono scritte sempre a chiarezza di me, con la volontà costante di acuire sempre più la mia attenzione sopra la mia vita profonda e con l’assiduo sforzo di cercare quella mia «forma pura» a cui il mio fervore il mio coraggio il mio patimento sono chiamati e destinati. Più d’una volta, scrivendo a chiarezza di me, ho anche scritto a lode di me, senza timidità alcuna; e m’è parso di aggiungere alla Laus vitae una Laus mei non meno mirabile di ricchezza ritmica e di potenza figuratrice.

Significativa fra tutte è la prosa che per abbondanza predòmina in questo primo tomo, e lo termina. Averla tolta al libro segreto dimostra che la mia audacia non ha limite, come sanno i miei compagni di guerra. Ma questa sorta di audacia è molto più difficile e più rara di quella che tante volte mi condusse dove non era giunto ancora nessun altro uomo vivo.

Qui, come per la scultura delle origini, l’oggetto vero della mia arte verbale è il nudo, nel senso dello spirito. E dico che qui spesso io riesco a ottenere una rispondenza perfetta tra la mia volontà di espressione e la materia ch’io tratto, fra il mio pensiero e il mio linguaggio, superando quella condanna a cui sembra dannato ogni artefice, quella sentenza enunciata da Giordano Bruno con la bocca non anche esperta del fuoco penetrabile: Ars tractat materiam alienam. Il mio linguaggio m’appartiene intiero; e circola in me, e si sviluppa e si accresce e si moltiplica in me come la forza vegetale che dell’albero fa una sola creatura compiuta: materia e forma.

Questa compiutezza non divisibile è qui l’assoluto valore di ciascun frammento. Per certi spiriti d’una certa qualità oggi quasi smarrita, ogni frammento anche scarso ha una sua propria vita piena che basta a dare una gioia senza fine, come il frammento d’una pittura funeraria tebana, d’una metope attica, d’una fontana moresca, d’un capitello di Monreale.

Voglio dimostrare, pur contro Dante, che la materia contenuta nel lessico di tutta la italianità non è sorda all’intenzion dell’arte e che, fra le diverse materie plastiche, è atta più d’ogni altra a costituire una identità assoluta con la forma a lei dallo scrittore impressa.

Ma dell’arte verbale, e dei tanti valori da me scoperti e palesati, e dei rapporti innumerevoli tra il linguaggio ereditario e la volontà d’espressione io mi propongo di trattare nel Comento d’un fabbro perfetto e d’un perfetto maestro di lima, che seguirà i tre tomi consacrati alle Grazie come i tre altri tomi saranno consacrati alle Parche.

E non disdegno di rispondere alla stupefazione di chi crede monastica e francescana la mia solitudine, non disdegno di rispondergli in servigio di Aglaia e di Clotho avere io scritto di mio pugno nella faccia interna del cordovano, sotto il principio di Goro Dati: «Apollo delio e pierio avrà sempre l’ultima parola, dopo ogni turbolenza e pestilenza

Che diverrebbe oggi il mondo se gli iddii noti e gli ignoti non facessero fiorire le solitudini?

Io, per me, quando della mia solitudine avrò falciato tutti i fiori per farmene uno strame eterno, sarò contento che nella mia lapide funebre sia inciso quel distico ignudo di un poeta pirata senza nome, della oligarchìa di Megara: «Servire io seppi l’iddio cruento della guerra e penetrare la più segreta arte delle Aònidi

V’ha anche oggi alcuno che mostra di conoscere perché, a quando a quando, nella storia degli uomini, una parola d’uomo ferva d’un fervore perpetuo e sempre novello. V’ha alcuno che mostra di conoscere perché tal semplice parola d’uomo tocchi tanto addentro l’anima degli uomini. Il senso e la tempera di essa parola non son dati se non dalla rispondenza eroica, dalla volontà indomita di fare e di patire.

Tre sole pagine, scritte il 29 agosto 1898, danno il titolo a questo primo tomo di tante pagine.

Un cavaliere imbelle, sopra un’altura fiorentina, è assalito dai grandi fantasmi ossidionali del tempo quando i mercenarii offerivano di comperare a Madonna Fiorenza i suoi broccati in misura di picche. «Veramente, nella nostra anima moderna, l’amore della città da forzare e da prendere è smarrito

Dopo ventun anno, in un mattino di settembre, quel medesimo cavaliere, armato d’armi raccogliticce ma invincibili come la sua fede, dopo ventun anno radunava la sua gente in un prato cinto di macerie, dove giungevano l’alito e l’anelito della città da prendere, della città da liberare, della città da sollevare alla cima di tutte le insurrezioni e le aspirazioni umane, al sommo di tutta la vita libera e di tutta la vita nova.

Non in sella ma copiedi nell’erba riarsa, col sole e col vento del Carnaro in faccia, egli rivolse ai compagni la sua «orazion picciola», forse la più bella delle sue orazioni d’assalto.

Poi solo, contro le tre vecchie potenze barcollanti nell’ingordigia e le tre vecchie bandiere sventolanti nella vanagloria, prese la città, tenne la città.

Per ciò forse la mia trasgressione contro il mio antico proposito di preservare il mio libro segreto è cagionata, secondo Frate Iacopo, dalla superbia, ohimè, non santa. Ma nella vita dello spirito vi sono ore più gravi di quelle che gravano talora sul monaco abbattuto nella sua cella dinanzi al suo crocifisso.

La solitudine mi guarda dal trionfo. Mi guardi ella dal trionfo sino alla morte. Faccia ella che sino alla morte la mia vera anima non sia conosciuta se non dall’aurora e dalla tempesta, dal giardino e dalla selva, dalla rondine e dall’aquila.

Il vecchio mondo si va spegnendo in una sorta di manìa putrida, copròfago che in balbuzie senile converte il rugghio profetico. Non meno abietta, la sua vecchia arte si corrompe e si spegne, boccheggiante paraninfa della Pace che sposa l’Obbrobrio.

Tutta la mia vita è innamoratamente congiunta alla mia arte, come apparve e appare nella mia meditazione occulta e nella mia azione palese. Il mio amore e la mia verità non sono di questo tempo. Clarum spero sonitum.

Il Vittoriale: 14 luglio 1924.

O quanto è beato l’uomo che sempre vegghia, et sta l’anima sua in questo studio!

spechio dei pecaturi

Sarò presente a me medesimo quanto io potrò, e li sparti pezzi dell’anima ricoglierò, e continuamente starò con esso meco in diligenzia et esquisito studio e senza inganno.

el secreto di messer
francesco petrarca

Si protesta l’autore di aver composta questa opera de’ ricercatori per quelli che si applicano allo studio del Contrappunto.

saggio d’un frate minore
sopra il canto fermo

E dopo cento ricercate e cento

Cantò.

poema del carteromaco




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