Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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IL VENTURIERO SENZA VENTURA

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IL VENTURIERO SENZA VENTURA

29 agosto 1898 (Firenze).

A cavallo, dopo una giornata di pioggia, verso sera. Tutto è umido, pregno d’acqua. Su la collina il cielo è ancor gravido, d’un color plumbeo pendente nel ceruleo. Lungo l’Affrico le rondini volano basse, radendo l’erba, con voli brevi e rotti. In un viale, presso il Campo di Marte, il suolo è sparso delle prime foglie morte.

Galoppo sul prato ove le erbe arsicce si ravvivano. Il cavallo si eccita, cerca di guadagnar la mano, si copre di schiuma. Una felicità muscolare m’inonda; l’orgoglio della solitudine mi gonfia il cuore. Porto non so che musica in me. Non ho in me pensieri definiti, né imagini compiute. Ma, a quando a quando, mi tornano nella memoria e m’inebriano di mistero parole che sembrerebbero vane o remote a un estraneo e che dentro me risuonano con non so quali rispondenze profonde: queste, per esempio, d’un versetto biblico, potenti e insistenti come il tema di una sinfonia. «Quell’uomo Gabriele volò ratto e mi toccò, intorno al tempo dell’offerta della sera

Cavalco verso San Miniato, passando l’Arno al ponte di ferro. Girando sul fianco di San Miniato, per un sentiero in salita, sbocco nella Piazzola degli Unganelli deserta.

Sul muro d’una villa son disegnati e dipinti in scuro gli antichi merli (ora nascosti entro la nuova fabbrica) che costruì l’imperiale Alessandro Vitelli, durante l’assedio di Firenze, per offendere la città tradita. Il colore l’illusione che quei merli non sieno finti ma appariscano sul muro bianco come l’ombra gettata da una rocca che gli sia di contro. Grandi cipressi sorgono da una banda, aerei, palpitanti, respiranti al soffio del vespero.

Dall’altro lato si scorge la città, dilettosa quale apparve agli assalitori, quasi feminea, ornata del suo fiume d’oro come d’un monile fornito ne’ secoli da tutti i suoi orafi. «O Fiorenzagridavano i mercenarii ebri di saccheggio e di strage «Madonna Fiorenza, compreremo i tuoi broccati a misura di picche

Veramente, nella nostra anima moderna, l’amore della città da forzare e da prendere è smarrito. Imagino il lampo della cupidigia nell’occhio del venturiero quando, allo svolto d’una via, al varco d’un monte, appariva la faccia della città promessa. Certi capitani dovettero conoscere una sorta di lussuria ossidionale.

L’ombra guerresca dei merli, i grandi cipressi strepitosi, il vento vespertino, lo splendore ultimo del giorno, la massa dei palagi, dei campanili, delle cupole, delle torri disegnata più nettamente che il rosso castello su la roccia dura nella tavola di Lorenzo Monaco, e la nobiltà delle montagne lontane, e le zone di fuoco che s’allungano all’orizzonte, e l’impazienza del mio cavallo, e le agitate musiche che sono in me, tutto mi solleva alla virtù del sentimento eroico.

L’ave inazzurra il grembo di Madonna; e il suo monile ora è di perle occidentali.

Un volo sghembo mi sfiora: d’una rondine? d’un pipistrello? Il mio cavallo di tratto in tratto sbuffa rumorosamente.

Dalle aiuole, che sono sotto il Piazzale di Michelangelo, sale un odore insano di tuberose. Il rombo delle campane oscilla su la vasta conca. Mi volto; scorgo nel cielo la nera statura di Davide. E lo scampanìo su i sogni del mio capo si muta nel rombo della frombola irresistibile.



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