Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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DI PROMETEO BECCAIO

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DI PROMETEO BECCAIO

5 ottobre 1898 (Roma).

Una stanchezza febrile e angosciosa, un’ambascia piena di sussulti, nell’insonnio, attraversata da vasti baleni di creazione.

Le figure della mia nuova tragedia sembravano sorgere dal pavimento come quei getti subitanei di materia infiammata che rompono su da un terreno vulcanico, rosseggiando incupiscono, poi si raffreddano, si rassodano, prendono un aspetto d’irte rocce grige ma irraggiano tuttavia un calore intollerabile e scottano se la mano le tocchi. Non osavo guardarle. Se mi coricavo sul fianco sinistro, il cuore si metteva a battere così forte che ne avevo intronate le tempie, quasi fosse in punto di moltiplicarsi per distribuire la vita anche in quelle forme generate. Non osavo guardarle. E a un tratto una volontà crudele, che certo era la mia se ben non paresse, m’afferrava lo spirito e me lo piegava verso quelle, col piglio di chi sforzi talun repugnante a mirare uno spettacolo d’orrore.

No, non è forse giusta la similitudine. Nulla è più difficile a rappresentare che tal sorta di moti misteriosi. Penso, per analogia, a quel ribrezzo energico che m’attraversò la spina dorsale guardando in uno specchio a mano la lunga ferita incisa nel cuoio del mio capo dalla sciabola del mio avversario, quand’ero ancor giovinetto: una ferita che slabbrava scoprendo la cassa del cranio prima che l’ago ricurvo del chirurgo la ricucisse. Ribrezzo energico è l’espressione che serra più da presso l’oscurissimo impulso. Sempre qualcosa di carnale, qualcosa che somiglia a una violenza carnale, un misto d’atrocità e di ebrietà, accompagna l’atto generativo del mio cervello. Non so perché, talvolta mi rappresento il primo formatore dell’argilla terrestre, il rapitore del fuoco divino, Prometeo, con le mani e le braccia lorde di sangue crasso fino ai gomiti, da quel destro beccaio ch’egli fu nello scuoiare e disossare il toro del sacrificio per sottrarre a Zeus la carne e l’adipe.

Tutte queste imagini paiono oblique e incoerenti; ma conosco qualcuno che, se glie le dicessi, comprenderebbe.

Io ho la mia bestia meco, quando creo. Quando le scintille si partono da me, allora più sento la materia spessa di cui son fatto. Tutta la mia sostanza è commossa e sommossa, talché non v’è istinto ferino che non si sollevi dal fondo a soperchiarmi.

Di sùbito, stanotte, in una pausa dell’ambascia, ho sentito allo stomaco il morso della fame. Tutto il corpo aveva fame e sete. Mi s’è spezzata un’unghia nella fretta d’aprire una scatola di biscotti. Ho mangiato avidamente con un meraviglioso piacere, seduto su la sponda del letto, asciugandomi il sudore che mi rigava il collo, come se avessi vangato e l’ultima zolla scissa a specchio luccicasse non discosto dal mio calcagno.

«Cesare Bronte, Ruggero Flamma, Elena Comnena.» I protagonisti avevano i loro nomi e, coi loro nomi, i loro denti e tra i denti il lor soffio. Non mi davano più né ribrezzopauraaffanno. Cessavo di masticare il boccone arido, per seguire con maggiore attenzione un gesto preciso che ad un tratto esciva dalle masse sbozzate dei loro corpi. Cesare Bronte pareva s’ingrandisse d’attimo in attimo, ingigantisse, tutto rilievi e cavità, tutto cicatrici e scabrezze, tutto nocchi e punte, ora tronco e ora macigno. Lo sguardo di Ruggero Flamma talvolta era inquieto e incerto, era come una mano che palpi una muraglia buia per trovare gli interstizii d’una porta; si perdeva talvolta, cessava, come se l’occhio si votasse interamente, simile al buco che rimane nell’orbita delle teste di bronzo, ond’è balzato via lo smalto. Elena Comnena, la seduttrice e la devastatrice, non era abbastanza bella. Le cambiavo la maschera, e non aveva ella ancóra la sua vera e propria bellezza. Ma già la sua bocca rosseggiava della sua parola mortale e immortale: «La Gloria mi somiglia

Ah, che m’importa? Ora ho voglia di dormire, di sprofondarmi nel più nero sonno.




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