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CONTRO LA SPERANZA
Mi sovviene d’un malinconico mio verso giovenile: l’autunno è veramente una primavera dissepolta. Ma, come tutti i morti dissotterrati, spande le più pericolose infezioni coi tossici della putredine. L’anima non fu mai più fumida in me. Ho veduto una nuvola bassa su l’Aventino lacerarsi contro le ruine dei palazzi imperiali.
Che strana sera! Affannata dallo sforzo del temporale, tutta ancor bagnata dagli scrosci ma caldiccia come se ancóra tra le commessure del lastrico luccicanti ribollisse la feccia dell’estate. I corpi lenti delle nuvole erano maculati di solfo come la pelle delle salamandre piovane. Qualcosa di simile a un ribrezzo animale pareva spargersi per l’ombra là dove la luce si ritraeva come la marea su le spiagge oceaniche quando la sabbia palpita oscuramente della vita marina rimàstavi presa tra i rottami e il tritume e le lunghe erbe senza radici e i riflessi delle prime stelle.
Io non distinguevo quelle apparenze dai modi della mia intima vita; ma sentivo tutte le cose prossime ai miei sensi, come il pescatore che va a piedi nudi sul lido scoperto dal riflusso e si china a ogni tratto per riconoscere e raccogliere quel che gli si muove sotto le piante. Gli aspetti della città erano simili alle mie passioni e simili alle muraglie di Ninive o di Cnosso, luoghi del mio ardore e luoghi della mia fantasia, esistenti e inesistenti, figure del desiderio e figure del tempo. Era una di quelle tumultuose armonie onde soglion nascere le più belle forze della mia arte. Nulla sfuggiva agli occhi senza tregua attentissimi che la Natura mi ha dati, e tutto m’era alimento e aumento.
Una tal sete di vivere è simile al bisogno di morire e di eternarsi. In certi giorni io ho saputo come vivessero gli uomini prima che Prometeo indebolisse i loro cuori ponendovi le cieche speranze.
O discepolo ignoto, se vuoi che i tuoi giorni sieno pieni, guàrdati da quelle molli compagne che s’interpongono perché tu non forzi ciascun attimo a darti sùbito tutto ciò che porta.
Io veramente non ne ebbi se non una, ed era armata di giavellotto come Atalanta la Beota; e sempre, per non lasciarmi uccidere e per avanzarla, io imitava lo stratagemma di quel pretendente che lasciò cadere i pomi nel correre. Lasciavo cadere i sogni vani.
Ma se, così trasposta, consideri la favola, trovi in essa un senso magnifico. E l’una e l’altro alfine si congiunsero per profanare un tempio e per trasfigurarsi in leone.