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LA CICALA VESPERTINA
Su la via di Fiesole, alla fine di una giornata afosa.
Firenze calda e grigia, come sepolta sotto la cenere. La mano macra di Dante ne raccoglie una manata e la sparge col gesto di chi semina al vento. Non spira un alito. La cenere ricade nel luogo medesimo.
Ma balza forse a un tratto il nembo dall’occidente? La cenere dà faville; l’incendio si ravviva. Nessuna vampa prorompe. La città incenerita si tace sotto il cielo trascolorato ove sale il primo quarto.
La luna nuova è come un pugno di solfo che bruci. Il suo ardore sembra fuggitivo come quello di una materia accendibile. Sembra ch’ella si consumi nell’alto etere e che fra poco debba sparire senza lasciar traccia.
Salendo su per la via di Vincigliata, a cavallo, odo ancóra il canto delle cicale, remotissimo, nel cuor nero dei cipresseti. I cipressi che limitano il cammino son già taciturni; ma l’ultimo stridore persiste nell’intimo del folto, perdura come per la smania di risuscitare il fuoco spento del sole. La profondità della selva è dunque ancóra di bragia mentre su gli orli già alita la frescura della sera?
A poco a poco le infaticabili cantatrici s’affiocano, s’acquetano. Una sola continua, sempre più lenta, interrotta da pause via via più lunghe. In ogni pausa, sembra che l’aria si rinfreschi. Un nuovo stridore sembra che la rinfochi. Alfine il canto oscilla diminuendo, come una làmina sonora: s’arresta.
Io fermo il cavallo, contro un mucchio di pietre; e ascolto, quasi senza respiro. Tutto è silenzio. Allora mi sollevo su la sella per prendere una gran boccata d’aria, per ingoiare il vento lieve che non ha forza di muovere le vette. Ma dentro mi rimane non so che ansia, come s’io tema che la cicala ricominci e che l’ombra riarda.