Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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LA MASCHERA AEREA

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LA MASCHERA AEREA

Senza data – (Roma).

Per favore del caso, con qualche povera moneta di rame ho contrastato al fuoco della povertà alcune schegge di legno incorruttibile. Appartennero al più venerando dei cipressi michelangioleschi che a uno a uno il fulmine ha scosceso e vinto nelle Terme di Diocleziano. Se io ne facessi uno scrigno, che cosa vi chiuderei? Forse l’altro mio cuore; forse il libro che non ho scritto: il libro dell’altra mia vita.

Mi ricordo di aver veduto i rosai gialli e bianchi abbracciare quei tronchi decrepiti, nelle mie primavere, quando le Terme erano il prediletto luogo di convegno ai miei dialoghi platonici.

Dolci nella memoria. Le grandi muraglie di cotto sembrano ricuocersi al sole. Un gatto pigro, che contro il mattone si gode il calore con gli occhi socchiusi e gli ugnoli rattratti, sembra comunicare la sua beatitudine a tutta quanta quella romana enormità.

Il primo androne è nell’ombra. Sotto le possenti arcate il cielo è come lo sguardo cesio di Minerva sotto le sopracciglia severe. I blocchi di pietra, le statue senza capo avvolte in toghe a pieghe composte, le colonne mozze, i capitelli corrosi, le urne inverdite non sono se non le forme solide del silenzio. La verzura sgorga da un ampio vaso, nascondendo gli Amori scolpiti sotto il labbro; l’acqua sgorga da due fontanelle, lungo il muro, similmente tacita. Il musaico dei bestiarii e della tigre nel vestibolo è nero e bianco: similmente due ale del porticato sono nell’ombra, due nel sole.

Nell’ordine quadruplice delle colonne la luce è divina: è la nutriente luce della vita, quella medesima che Antigone saluta partendosi per la riva d’Acheronte. I rumori dell’Urbe sembrano un rimotissimo rombo marino. Non sorge da un’ara quel diritto stelo di fumo che contamina l’azzurro? Non spezzeremo oggi il pane fatto di quel frumento che triturarono le antiche mole consunte, ora inerti nell’erba?

Non guardiamo i cipressi troppo grandemente tristi e casti. Le porte delle celle sono aperte. Le celle sono solitarie e segrete. Nei brevi orti qualche fil d’acqua geme. S’ode il crocidare delle cornacchie adunate sui tetti vicini. Uno squisito fiore di giaggiolo s’apre tra due frammenti di colossi ripescati nel Tevere, che si ricordano del limo flavo. In fondo a una cameretta cupa, una testa di donna pensosa s’inclina perché un labbro invisibile le sfiori il collo, di sotto la chioma vivida come una fiamma intrecciata dal calamistro. Apollo guarda se il passo della vegnente sia regolato dal ritmo delle Muse. Dioniso, più molle d’una sonatrice di flauto, non soffrendo il peso della nebride che gli attraversa il torace, chiede una ghirlandetta d’apio amaro. Tra questi imperatori crudeli dalla fronte bassa qual è colui che non conobbe mai due volte una medesima donna? e qual è colui che inventò una donna nuova, per via della ferita ch’ei fece a Sporo? Ma Saffo ha chiusa la perfetta bocca nutrita di siccità e di canto; e Afrodite le dice: «Volgi, eterna Saffo, volgi il tuo riarso viso verso me». Invano la chiama Afrodite. S’adunano presso quelle che la mascula scelse per la bellezza delle capellature?

Non sono le alunne di Lesbo; sono le matrone di Roma. Ecco un diadema di riccioli, tutto forato come un alveare; entro i cui alveoli certo mellificarono le api trascolorando i capelli nel colore del primo miele. Ecco l’acconciatura augustèa con la treccia che sorge dal mezzo della fronte e partisce il capo discendendo alla nuca. Ecco la parrucca di Matidia simile a un turbante sottilmente intrecciato. Ecco le ciocche rigonfie del tempo di Settimio Severo, che coprono gli orecchi e contornano le gote. Ecco l’imagine ondosa del mare su la fronte di Lucilla; e la chioma di Sabina, rialzata dalla nuca al vertice del capo, ch’evoca la Venere snella; e la chioma di Giulia Mammea, divisa pel mezzo e ravviata in dietro e sostenuta dagli orecchi nel ricadere sul collo, che pare adombri la modestia della vergine cristiana.

Ah, come dunque potemmo indugiarci dentro, scaltrire l’amore, eludere il custode, cogliere la giunchiglia nel piccolo orto murato, quando i sublimi cipressi ancor prolungavano la meditazione dei secoli su l’erba rediviva?

Forse non li piantò il Buonarroto, che non amava nella Natura se non il sasso e l’uomo. Ma erano tristi e casti così grandemente che ben potevamo imaginare sotto quelle quattro ombre le quattro statue colcate della Sagrestia fiorentina.

Qual goffo zelo osò sostituire i nuovi nel luogo di tanta stirpe? La grandezza eroica ha il privilegio di lasciare il vestigio nell’aria che più non occupa, oltre che nel suolo ove stette abbattuta. La santità dell’albero abitava per noi ciascuno spazio aereo, visibile talvolta alla contemplazione degli spiriti reverenti. Ora quei cipressi giovenili sono di così misero aspetto che sembran colpiti di sterilità per castigo del sacrilegio. E il poeta pellegrino, disdegnando omai le facili rose del chiostro menomato, si rivolge a cercare in cima della svelta colonna uno strano fiore marmoreo: la Maschera antica.

La disperazione di Edipo non sànguina pei due fori degli occhi incavati né le grandi onomatopèe del messaggero di Serse erompono dalla bocca rotonda; ma sembra che tutto il cielo latino divenga quivi lo sguardo cesio di Minerva e un canto senza suono o forse un sorso d’immensa felicità. La bocca beve di continuo l’azzurro e gli occhi versano la luce. Il volto della Musa terribile è dileguato. La divinità dell’Etere splende per entro quella forma imperitura foggiata dall’uomo avido di pietà e di terrore. La Tragedia ha un sorriso aeroso come quando Sofocle interrompe il cozzo dei fati con la lode corale al biancheggiante Colono. E sembra che l’auletride scolpita sul fianco del seggio di Afrodite si liberi dal marmo e snodi le sue gambe lisce ed esca dal museo per venire a piè della colonna col suo flauto muto. «Dolci sono le melodie udite ma quelle non udite sono ancor più dolci» ha cantato il cantore che dorme presso la Piramide di Caio Cestio.

Poche imagini io so tanto belle. La Maschera alzata nell’infinito, con la bocca e gli occhi pieni di cielo, non sembra dal silenzio e dalla luce ricommista alla Natura come quando nelle origini era fatta di fresco fogliame?

Incipit Tragœdia nova.



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