Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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«SCRIVI CHE QUIVI È PERFECTA LETITIA»

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«SCRIVI CHE QUIVI
È PERFECTA LETITIA»

11 settembre 1897.

Stazione di Ancona. Sera di sabato. Viaggio verso Assisi.

La stazione è morta. Sotto la vasta tettoia nera i lumi sono semispenti. Le fiammelle vacillano fioche in cima ai becchi, nei fanali. I carri fermi su le rotaie sembrano feretri fasciati di gramaglie. I bovi, prigionieri invisibili, mugghiano di continuo rispondendosi, come nel chiuso d’un macello quando attendono il maglio o il taglio. Sotto un carro un cane biancastro rosicchia qualcosa nel sudiciume. Vedo in una sala, triste come un parlatorio di spedale, tre monache e un’educanda che sonnecchiano, un prete che legge il breviario, una femmina enorme che bofonchia, soffocata dall’adipe, sdraiata su l’atroce divano rosso. Scorgo pel lato aperto della tettoia una collina sparsa di lumi, San Ciriaco alto nell’azzurro palpitante, le sette stelle dell’Orsa. E il mugghio lamentevole dei buoi prigionieri empie l’oscurità deserta, evocando l’ammazzatoio, il tonfo della stramazzata, la pozza di sangue fùmido.

Di tratto in tratto, passando, odo il ticchettìo del telegrafo. Il telegrafista, con un viso gonfio e stanco, fa scorrere tra le sue dita la lunga lista bianca, chino sul congegno delicato che sembra fervere di pensieri e di sorti, di comandi e d’implorazioni. Più in , dentro un carro, al chiarore d’una candela che sgocciola, un impiegato postale raccoglie le lettere cieche in un sacco nerastro, strozza il sacco con una corda, poi suggella il nodo. La statua di marmo incravattata e infagottata nella sua nicchia m’appare come il fantasma di tutto ciò che è brutto, vano, mediocre, fastidioso nella vita. E il mugghio delle bestie moriture si prolunga senza fine nella malinconia notturna.

Tendo l’orecchio. Dalla parte della collina serena, ecco giungere un suono di chitarre e di mandolini. Vi sono dunque piaceri, sogni, amori pel mondo? Il cielo palpita entro l’arco buio e brutale della tettoia che sembra una fauce pronta a stritolare le stelle. E i buoi mugghiano senza tregua, pieni di nero sangue, verso la morte inevitabile.

13 settembre 1897.

Assisi. Era poco innanzi l’alba, quando io saliva la «fertile costa».

Non dirò Ascesi ma Oriente, sinché le pupille e l’anima si ricòrdino. Era la vista ed era la visione. Era la città di pietra fondata dai guerrieri e dai mercanti sul ginocchio del Subasio, ed era la città di fede sostenuta dalla palma trafitta di Francesco. D’improvviso apparve tutta distesa sul colle, con la gran mole francescana dagli archi possenti, dalle muraglie a scarpa, biancheggiante come di luce propria; mentre un vapore latteo si levava dall’altura verso il sommo del cielo, nella pallidità lunare.

Straordinario era in tutte le cose il presentimento dell’alba. Tutte le cose albeggiavano; tutte le vie conducevano verso l’apparizione d’un sole; tutte le piante si tendevano a raccogliere la prima rugiada mattutina. Il flauto roco e dolce dei grilli risonava ancóra per tutta la campagna; ma pareva che in tutta la campagna fosse quasi un’aspettazione ansiosa del primo canto, dei primi trilli, dei primi gorgheggi, dei primi cinguettii. E pareva che quivi anche fosse l’aspettazione della parola serafica agli uccelli: «Sirocchie mie uccelli, voi siate molto tenute a Dio vostro creatore…»

Diceva dianzi Illuminata che in nessun paese del mondo la Natura è tanto vicina a noi quanto nella campagna francescana. V’è sparso per il paese verde quasi un sentimento di familiarità affettuosa. L’orizzonte ci guarda, ha la bontà consapevole di una pupilla cilestra. E non soltanto l’orizzonte guarda e vede, ma una specie di veggenza è in tutte le cose naturali.

Questo diceva dianzi Illuminata, col gomito sul davanzale, guardando la valle fresca di pioggia e soffusa d’un umido vapore azzurrognolo, a traverso il cui velo labile brillavano qua e zone di terra verdissima, giacimenti di smeraldi miracolosi; che non sono se non i campi di granturchetto per la pastura del bestiame.

Scendiamo a Santa Maria degli Angeli, verso sera, per una via che non separa ma allaccia i campi felici rinfrescati sino al cuore dalla pioggia che continua a cadere pianamente, quasi melodiosamente, con un crepitio simile talvolta a un canto di fontane lontane. L’odore della terra e della verdura inebria la faccia della sera.

Ecco la cupola bella del Vignola, che si leva nell’aria, solinga e grande. Un frate è su la soglia della chiesa, in atto di serrare la porta. Gli domandiamo che ci lasci entrare. Egli è affabile; sorride, consente; ci accompagna con benignità, scorrendo su i suoi zoccoli sonori.

La navata già s’intenebra. Si vedono rilucere le lampade nella Porziuncola, che è come una cappella in una foresta. Ecco la cuna lapìdea dell’Ordine francescano. Il paramento sacro cela in parte le antiche e rudi pareti di pietra. Innumerevoli cuori d’argento e d’oro ex voto brillano intorno. Ma nessuna reliquia è venerabile come la porta consunta, più arida dell’esca, quasi spiritale, schiantata come i cuori in patimento e in rapimento.

Ecco una porta della Vita, la Porta stretta. Per entrarvi bisogna che io mi mutili. Qualcuno forse, chi sa dove, m’affila il coltello.

Altro legno è quello della Sacrestia, ornato e grasso. Una fontanella geme in un andito: è l’acqua del monte. Ci fermiamo dinanzi a una grata.

Siamo sopra una cima? in un botro? in una caverna? sotterra? Qualcuno sta per parlare? Una voce sta per recarci un annunzio, un comando, un presagio? il gemito dell’acqua non s’ode più.

Il fraticello introduce nell’interstizio un torchietto acceso; ed ecco, a quel lume palpitante che è come il chiarore delle profonde allucinazioni, intravediamo il Roseto, il Roseto senza spine.

Il fraticello parla, accostando la fiammella che trema.

Vedono le gocce di sangue?

Per domare il malvagio desiderio, il figlio di Pietro Bernardone si getta ignudo nel roseto, si rotola su i duri aculei, li insanguina di sé. Le rose devastate lo blandiscono, quand’egli le preme.

Vedono? Vedono?

Le gocce su le foglie sono indelebili, perpetuate di primavera in primavera. Gli steli si levano diritti e sottili come i gambi del lino. Tutto il Roseto ha un’apparenza lontana, come nato e fiorito di dalla natura. Fa pensare, nell’ombra notturna, a un giardino ignaro d’ogni vento, immobile eternamente sotto le acque d’una fonte che dorma senza intorbidarsi.

E le rose? – domanda Illuminata. – E le rose?

Non è alcuna rosa su gli steli. Due petali morti son rimasti in una corolla.

Ne ho qualcuna in sacrestiadice il fraticello. – Ne vuole?

Coglierle non è sacrilegio?

Come la candela accesa scorre lungo la grata, scorgiamo al limite del Roseto certi grandi e pesanti fiori rossi che contrastano per la lor sensualità vistosa con que’ tenui gambi senza spine. Sono i «fiocchi di cardinale».

Intravediamo due figure bianco-vestite: riconosco santa Elisabetta d’Ungheria, la moglie del Langravio.

Illuminata dice, con quell’accento che una infinita significazione alla più lieve delle sue parole:

Un giorno santa Elisabetta diede a una mendicante una veste così bella così bella che la povera per la troppa gioia cadde riversa e rese l’anima a Dio.

Fluisco nell’ombra come in un’onda di poesia. Mi sembra di non sentire il pavimento sotto le calcagna, come nei sogni incorporei.

Una vergine chiamata Radegonda, – dice Illuminata – che aveva la più bella capellatura di tutto il reame, venne allo Spedale di santa Elisabetta non per ricevere l’elemosina ma per visitare la sua sorella ammalata. Avendo per ciò contravvenuto alla regola, fu condannata alla tonsura; e Radegonda tanto pianse e si disperò che mosse a pietà tutti i cuori. Come qualcuno volle testimoniare l’innocenza della dolente, santa Elisabetta disse: «Non mi cale. Senza capelli, danzerà con men di grazia e men d’ardoreRagionando poi con la tonduta, conobbe che da tempo costei avrebbe preso il velo se non fosse stata distolta dal suo folle amore per la sua capellatura ch’ella amava più di sé medesima e più del dolce Signore Gesù. Allora santa Elisabetta disse: «D’averti tosata io son più contenta che non sarei se il mio figliuolo fosse eletto imperatore.» E sùbito Radegonda si monacò, e venne a stare con santa Elisabetta nello Spedale.

La voce, attraversando l’ombra della navata, finisce su la porta; così che sembra si mescoli e si disperda a un tratto nell’odor fresco della campagna irrigata.

Già i grilli cominciano a sonare il lor flauto roco e soave, mentre su la collina d’Assisi un pio albore annunzia la natività della luna. La valle si colma di lento sonno; lavato dalla pioggia, il cielo si sgombra. Ma ancóra biancheggia il letto del Tescio tortuoso; che è l’imagine dell’implacabile desiderio, dell’inestinguibile sete, a contrasto con le linee consolatrici della terra francescana.

Questo fiumicello serpeggiante, disseccato, taciturno, tutto di selci bianche e lisce, attrae di continuo il mio sguardo e il mio spirito. È un aspetto di tormento, è il segno dell’anima agitata e avida. Nella sua secchezza sembra persistere il sentimento dell’acqua scomparsa. Ieri, al sole obliquo, vidi luccicare qua e nel letto petroso brevi specchi immobili, residui delle inondazioni primaverili.

Non v’è forse corrispondenza tra il perfido ardore di questo fiume e il turbamento che traeva Francesco a castigare il suo corpo su le spine del roseto? Anche il Serafico aveva in sé il suo Tescio, come questa campagna placida felice e pia. Le selci biancheggeranno tutta la notte sotto la luna.

Illuminata non s’è ancor divisa dall’ombra di Radegonda, perché dice come sognando:

Mi ricordo che un giorno, nella mia prima giovinezza, andai a visitare mia madre ch’era ammalata in un ospedale. Entrai, passai per una stanza deserta; vidi posata su una tavola una capellatura bionda, con accanto un paio di cesoie. L’avevano tagliata allora allora a una giovane contadina ch’era stata ammessa al ricovero in quel medesimo giorno. Era ancor viva, quasi palpitante. Pareva che al minimo soffio dovesse involarsi.

14 settembre.

San Damiano. Su la porta: Vade, Francisce, repara domum meam quae labitur.

Un odore di cera, d’incenso e di basilico investe l’anima, nella cappella affumicata come una fucina. L’anima cristiana ha larga narice, patulis captat naribus auras. Il coro di San Bernardino è dietro l’altare. La più annosa delle Sibille michelangiolesche, la Persica decrepita e ammantata, sola potrebbe assidersi davanti a quel leggìo di legno che si leva enorme in cima a uno stelo di pietra, più santo di una reliquia custodita in oro o in cristallo, testimonio d’un’antichità immemorabile, pregno della sapienza di tutti i libri scomparsi.

Ma è una cosa viva. E di contro è una cosa morta: sospeso al dossale del coro un oriolo a pendolo, col quadrante di metallo in cui non sono segnate se non le quattro ore da una sola lancetta. Due cordicelle logore sostengono due piombi immoti. Il battito del tempo è interrotto. Tutto è silenzio.

Vi fu mai mutazione d’anni, tumulto d’eventi, clamor d’ira e d’allegrezza? Vi furon mai strade e sentieri pel mondo, timoni di carri, prore di navi, ale di remi, folli voli?

Tutto è silenzio, angustia, inerzia. Una finestra sottile come una feritoia illumina una cameretta ove nessuno prega, nessuno muore. Una scala di pietra è in fondo: nessuno scende, nessuno sale.

Contro una parete è un armadio roso dai tarli, che di sùbito si dissolverà in polvere se una mano lo tocchi per aprirlo. Contro un’altra parete è una sedia di legno tra due inginocchiatoi: nessuno vi siede, nessuno s’inginocchia. Le prime monache di santa Chiara sono sepolte sotto il pavimento. Quest’odore di cera, d’incenso e di basilico è la fragranza della lor santità?

Per cinque gradini scendo nel coro di Santa Chiara, nel coro di Nostra Donna la Povertà. Il dossale è formato di tavole collegate insieme alla meglio come tavole di quelle chiatte di salvamento che le maestranze di bordo costruiscono cogli abeti di rispetto nel tumulto del naufragio. Di tavole appena mondate si compongono i sedili e una sorta di parapetto ch’è lor davanti. Il leggìo si regge su un piuolo infisso in un ceppo squadrato, e v’è scolpita la croce con l’ascia. Aspro di chiodi, levigato, scheggiato, fenduto, nocchieruto, il legno non è una materia tacita ma una memoria parlante: parla per impronte di vita, per segni di travaglio e di fortuna, come il vólto di un vecchio piloto, come la mano di un aratore, come il cuoio d’una bestia da soma.

Le note musicali delle antifone nelle tabelle appese non cantano, ma esso il legno canta un canto di miseria e di dolcezza, di penitenza e d’estasi. Riconosco la voce di Ortolana, tremula come il belato della capra; quella di Gregoria, roca come il tubare della tortora; quella di Massariola, gioiosa come l’ebrezza dell’allodola.

Dal piccolo giardino pensile di Santa Chiara odoroso di basilico si scorge per un’apertura il coro sottostante, ne’ cui stalli son seduti i novizii, con le mani congiunte, senza movimento, quasi senza respiro. Uno ha il viso terreo, la bocca livida e socchiusa, gli occhi cerchiati d’azzurro, i capelli violetti, quell’aria di passione e di segreto che spira in certi ritratti quattrocenteschi di giovani ignoti. Un altro è tozzo, tardo, villoso, già badiale, occupato da una sonnolenza opaca, tutto collottola e mascella su cui presto si appesantirà il mollame della ganascia. Un altro mi ricorda quel giovinetto del Perugino, che è agli Uffizi, quel vólto dorato che sembra già un poco appassito come un grappolo d’uva di Corinto su la stuoia esposta al sole, quel vólto soffuso d’una sensualità malinconica che non ha scelto ancóra i suoi piaceri; e perfin la tonaca imita nel tono di bistro cupo il giustacore del leggiadro patrizio umbro.

In un testo è una pianta di basilico tanto folta che par quella inaffiata dalle lacrime d’Isabella, quella su cui l’amante di Lorenzo lacrimava «a traverso i suoi capelli».

Illuminata mormora i versi del poeta: «Ella obliò le stelle, la luna, il sole, – Ella obliò l’azzurro su le cime degli alberi, – Ella dimenticò le valli ove corrono i rivi, – Ella dimenticò il gelido vento d’autunno…» A un tratto coglie una ciocca di basilico e la getta destramente, per l’apertura, nel coro. I novizii non levano gli occhi.

Presso San Damiano, al termine della via che vi discende tra gli olivi, è un oliveto più gentile d’ogni altro, dai tronchi snelli, dai rami leggeri. Una via d’erba vi s’interna perdendosi nei campi solitarii. La valle è nell’ombra diffusa dalle nuvole piovane: in un’ombra azzurra come l’oltremare delle volte sacre costellate d’oro. Ma uno sprazzo di sole tocca le cime degli olivi e le inargenta. Argentei gli olivi ondeggiano su tutto quell’umido e profondo colore del quale Giotto fu così generoso alle mura venerande.

Anche le colline, in certe ore, giottescamente si tingono di quel ceruleo nobilissimo che è «tintura propria della pietra lazulea separata dalla sustanza di detta pietra marmorigna con ottima industria». Sembra che Giotto nel colorito delle sue figure, specialmente in quel delle quattro Allegorie, obbedisse alla suggestione che gli veniva dalla pietra del Subasio onde son costrutte tutte le case assisiane. È un colorito tra roseo e violaceo, a cui Giotto mescolò musicalmente l’oro.

Dal portico esteriore del convento a picco su la valle, verso sera, scopro il Tescio tortuoso che biancheggia e dilegua nell’ombra. E questo fiume, veramente, è quanto di più umano e di più vicino a me io trovi in tutto il paese mistico.

Nondimeno il sentimento di ascensione che in quest’ora è nelle cose, è anche in me. Gli olivi tendono all’alto come le fiamme. I poggi s’incupiscono sotto una corona di nuvole; di dalle quali si dilata pel cielo un rossore che sembra il riverbero d’un incendio lontano. Forse Chiara e Francesco convengono a colloquio, laggiù, in qualche tugurio.

Il sommo del cielo è sgombro; e le prime stelle lo rigano di lacrime sublimi. Da una via biancheggiante giungono lo stridore di un carro e un canto a tenzone. L’anima china su l’abisso, vertiginosa, attende il rapimento.

Le campane suonano l’Angelus. La torre vibra tutta quanta come se dalla base alla cima fosse di sensibile bronzo. Le campane lontane rispondono. La preghiera riempie i chiostri, entra per le innumerevoli finestre aperte e buie onde Ascesi respira e sospira. Tutta la città è una implorazione. L’anima del Padre Serafico si diffonde per tutta la valle, benedice tutte le soglie, conforta tutti i focolari. Le labbra si muovono nella consuetudine della preghiera; le ginocchia si piegano, la mano fa il segno della croce. In ogni donna è una clarissa, in ogni uomo è un minorita.

Ave, Maria, piena di grazia.




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