Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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DELL’ATTENZIONE

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DELL’ATTENZIONE

5 settembre 1899 (Zurigo).

«Credete che mi trovava in uno strano trasognamentoDove ho letto questa parola? Mi sembra, in un’epistola di Guittone d’Arezzo.

Quante volte la mia vita non è se non trasognamento! Sognare è una cosa, trasognare è un’altra. La realtà mi si scopre a un tratto e mi si approssima con una sorta di violenza imperiosa. Ne attendo l’impronta con l’orrore dello schiavo che cade in ginocchio mentre il marchio gli è sospeso su la spalla e la carne non anche stampata si raggricchia come se già fumasse. A un tratto ella si dissolve, si difforma, si trasforma, assume l’aspetto del mio più segreto fantasma. Poi riprende ossa, muscoli, ugne; si lancia di nuovo su me come una bestia potente di mille branche. E la vicenda si prolunga per ore, per giorni. La temo e la chiamo; le sfuggo e me le offro; mi lascio artigliare e mi dileguo. Talora la uccido; e poi trovo in lei le mie più belle imagini, come Sansone disceso in Timnat trovò lo sciame delle api nella carogna del leone.

Chi mai potrà chiudere nel cristallo dell’arte le nascoste fermentazioni dell’anima umana? Che mai diventa la più piena delle mie pagine al paragone di quest’ora innumerevole, gioita e sofferta? Se tento di fermarla, io la trasmuto in una serie di segni logici che del mio vasto tumulto non rattengono più che della vita e della morte e della deità e dell’eternità non rattenga il geroglifico inciso nel granito dell’obelisco.

Quando il Goethe fanciullo s’indugiava contro il vetro a guardare i lampi (evoco nel ricordo l’umile finestra che sta, sola, in alto, a dritta, sul fianco della casa di Francoforte), con quale occhio nel volgersi egli rivedeva il massiccio armario, la stufa bruna, la spinetta dai tasti d’ebano, l’opaca e rispettabile dimora senza orizzonte, ove certo doveva spandersi l’odore della cucina grossa?

Ecco, sono intento a guardare dentro di me i lampi, i bei lampi allucinanti, i più rapidi che abbian mai rischiarato i miei abissi e i miei deserti; e, di tratto in tratto, vedo la mano del cameriere cercopiteco posare la scodella sotto il mio naso schivo, una onesta meretrice variopinta inclinarsi verso la parrucca d’un vecchio crapulone imbambolato, la giovine bertuccia di un mio amico drammaturgo strofinare la sua caviglia furtiva al pantalone insensibile di un famoso attore, una tremenda bocca di donna o di giovinetto (la riconosco: non è quella della testa arcaica d’Apollo, nella seconda sala dei Bronzi, al Museo di Napoli?), una carnosa e dolorosa bocca, affamata e nauseata, masticare di continuo il boccone senza riuscire ad ingoiarlo.

Sul pavimento della terrazza, una riga sottile di luce immobile mi sembra senza origine naturale. Sorveglio per un poco i passi meccanici dei camerieri fra tavola e tavola: nessuno vi mette il piede sopra. È una linea magica, un limite, un confine tra due mondi, che io solo discopro. Ne sorge un sentimento di lontananza e di solitudine, che mi circonda e mi fa simile a un’isola senza radice.

Vedo laggiù, su la tovaglia bianca, fra due piatti colmi di frutta, la bocca d’Apollo sollevarsi. È veramente una donna, una svelta e pieghevole creatura che porta sul collo la testa del dio come se la colonna del Museo si fosse a un tratto spetrata e trasformata in corpo femineo! I capelli neri somigliano un casco aderente; le labbra sono di continuo dischiuse come per lasciar passare un respiro troppo rapido; gli occhi sono fissi e duri, quasi che si risentano del cesello, con le pupille vuote come due fóri.

Ella s’è alzata e cammina. Con un’ansietà confusa, la vedo venire verso la riga di luce. Il suo piede rompe la linea magica, che per un attimo le guizza e le brilla all’orlo della gonna. Com’ella nel passaggio s’accorge del mio sguardo singolare, fa una lieve sosta e china gli occhi per istinto, quasi che il mio sguardo basso le indichi un pericolo sul pavimento, ov’ella sia per inciampare. Certo vede il nastro luminoso orlarle la veste fuggendo. Rileva gli occhi: i fóri delle pupille si volgono un poco verso di me. Noto la tenue distanza tra la palpebra e il sopracciglio, il forte rilievo nella gronda della palpebra: due vestigi dello stile arcaico. Un sentimento religioso di quella riapparizione divina si mescola al turbamento subitaneo del desiderio e all’orrore delle più cieche fatalità. Io non so che sia la mia maschera di carne; ma so che la mia anima ha un vólto e che la mia volontà di seduzione riesce ad esternarlo. Sopraffatto dall’abondanza della mia vita, riodo la voce cara che un giorno mi disse: «La Follia non è più ricca di te.»

Qualis artifex valeo! Qual mirabile strumento sono io divenuto! Il violino escito dalle mani del maestro liutaio non è se non un fanciullo ben nato. Ma sol dopo anni ed anni di vita sonora ci moltiplica la sua virtù e raggiunge la sua perfezione. Sembra che la musica, di continuo commovendo le fibre del legno, lo renda via via più sensibile. Una sensibilità misteriosa si accumula nel cavo che ha struttura e lineamenti atti a meglio riceverla e conservarla. Certo il buon liutaio fa il buono strumento, ma il buon sonatore gli poi una inimitabile tempera. Così l’esercizio dell’arte affina la mia sorda materia e la fa capace di sempre più vaste e profonde risonanze. Per mesi e mesi, a traverso il mio corpo attenuato ed estenuato passò il corso della poesia. Per mesi e mesi non fui se non l’alveo della mia musicata parola. Chiuso in un chiostro, lontano da ogni romore e da ogni bene mondano, vigilato da una disciplina inflessibile, parco di sonno e di cibo, non bevendo se non acqua pura, io vissi fino a ieri nel sentimento mistico della mia consunzione, della volontà che mi faceva macro, della rinunzia eroica ai piaceri, dell’offerta intiera di me all’opera mia.

Ora eccomi, di sùbito, in mezzo al mondo, in questo grasso albergo svizzero, fra tutti questi uomini artificiati e queste donne dipinte, dinanzi a una incertissima salsa. Perché?

Avrei forse potuto veleggiare nell’Adriatico, o cavalcare nelle pinete pisane, o visitare alfine quella piccola città murata del Veneto che da anni ho promessa al mio cuore come un’amante di dolce silenzio e di pietra forte.

Son venuto qui, cogliendo un’occasione fugace, perché in nessun luogo favorevole avrei trovato questa specie di ebrezza che amo, questo «strano trasognamento». Altrove mi sarei confuso col mare, con la selva, con la pietra; qui ho la straordinaria voluttà di sentirmi diverso e inconoscibile, in una solitudine piena di apparizioni e di prodigi.

Il lungo sforzo fornito ha lasciato nel mio spirito una stanchezza e una malinconia che operano su le cose come la più pronta potenza. Certo, la mia cravatta è annodata non senza grazia e squisito è il fiore che porto all’occhiello; ma posseggo un anello più meraviglioso che l’anello di Gige, e qui nessuno lo sa. Quei due bruti ben pettinati, mentre laggiù muovono le mascelle non diversamente da due macacchi sul ramo, ignorano la qualità dell’occhio che li guarda e li scompone ed estrae dai loro ceffi le linee che non rivela alcuno specchio. La mia visione è una sorta di magìa pratica che si esercita su i più comuni oggetti. Avendo ancor calda in me l’impronta ideale delle forme da me generate, penetro nel fondo d’ogni cosa brutta o vile come in un enigma inestricabile che non resista alla mia destrezza. Improvvisi motivi, d’una inopinata novità, allora si mescono alle mie armonie mentali; inattese associazioni di apparenze e di essenze accrescono e accelerano il mio turbine lirico. E tutto è chiuso in me, ben profondo, segreto, ignoto per sempre. I fantasmi sono così numerosi e veloci che l’arte non ha potere di coglierli e di sceglierli. Inoltre il compimento recentissimo dell’opera lascia sazio e pago in me l’artiere. Sembra che al genio dell’arte succeda il dèmone del gioco. Non forse la facoltà di creare, avendo esaurita la materia già raccolta e scelta, ora si perpetua a vuoto senza fatica e stridore perché senza resistenza? Così la ruota del vasaio gira follemente quando la mano difficile non accompagna l’argilla.

6 settembre.

Al magnifico tumulto di ieri succede oggi il languore della convalescenza, un affanno lieve ma incessante, uno scontento indefinito. Mi sembra di avere dentro me non so che cenere impalpabile, e di non poterla scuotere e dare ai vènti del cielo. Il mio corpo è occupato da una inquietezza che certo si placherebbe se io sapessi trovare l’attitudine propria a questo momento del mio giorno. Talvolta è in noi una verità ancóra informe che vuol essere soccorsa per venire alla luce: una verità ancor mescolata al nostro sangue, ai nostri muscoli, ai nostri istinti. Sembra che certe positure e certi gesti la contraddicano, le facciano contrasto e impedimento, arrestino il suo sviluppo. Altre positure, altri gesti l’aiutano, la favoriscono, la disvolgono. Ma è più facile talora trovare l’accento d’un verso ineffabile che flettere un braccio o un ginocchio secondo quell’armonia indistinta.

Se chiudo le palpebre, mi sembra di respirare su qualcosa che dentro di me si appanni. Vado verso la finestra e per caso guardo le mie mani sul davanzale, avendo quasi smarrito il sentimento di tutto il resto del mio corpo miserabile: mi stupisco ch’esse non siano di perfetto marmo, tanto son pallide e pure. Vado verso la tavola ove sono sparsi alcuni dei miei libri prediletti; e non so qual vorrei oggi per compagno, non so a quale vorrei stendere l’una di queste mie mani smorte.

Con l’inspirazione dell’auspice, prendo il volume del Purgatorio; leggo un endecasillabo ad apertura di pagina:

Non attender la forma del martìre!

Ciò vuol significare che non bisogna por mente al genere della pena, al modo del castigo, ma sì tener presente la perfezione che sola può nascere dalla durata della colpa e della doglia.

Apro alla ventura le Rime di Michelangelo Buonarroti; leggo in un batter d’occhio:

Arso e poi spento aver più vita aspetto.

È una parola che mi tocca a dentro come se fosse parlata e non scritta, come se fosse spirante e non tramandata. Per fare il luogo a una vita più nuova e più vasta, bisogna raccogliere le sue proprie ceneri e disperderle col soffio della sua propria bocca se il vento si tace, disperderne sin l’ultima falda; perché la vita che rinasce dalle ceneri non muta formacolore ma somiglia la fenice sempre rinascente con le medesime penne.

Apro a caso il libro di Leonardo, per cercarvi il terzo auspicio e il terzo ammonimento. Leggo:

Molti fien quelli che cresceran nelle lor ruine.

Un baleno del mio fato sembra percotere anche questa pagina a rischiarare il crudo enigma che mi propone il Mancino dalla scrittura ermetica.

Tuttavia a che mi giova questo gioco sibillino? e quando mai, da che vivo, ho trovato un qualunque aiuto o consiglio o scampo se non in me stesso? Non nei libri stampati, non nelle figure disegnate, non nelle parole vive, non nelle parole morte, e neppure in quelle non dette, ma altrove convien cercare e discernere.

Di tutte le mie facoltà quella che più assiduamente stimolo e aguzzo è l’attenzione. Ogni anno il solco che m’ho tra i sopraccigli diventa più fiero. «Tutte le cose son piene d’iddii» diceva l’Elleno. Egli voleva dire che tutte le cose sono piene di segni, tutte sono significative di verità, di passioni, di eventi.

Eccomi in una stanza d’albergo sconosciuta e ostile. Nondimeno, se la considero, scopro in essa una espressione singolare come in un vólto d’uomo che spii o in un grifo di bestia a guato. Mi sembra estranea ma non è, poiché la forma il colore la disposizione degli arredi si collegano già coi movimenti della mia tristezza. Stanotte, nell’insonnio, le cose a poco a poco divenivano dominanti, opprimenti, invincibili. Quella parete, illuminata dalla candela posta a piè del letto, mi precludeva il mondo ove un’aurora non nata era quella che invoco e attendo. L’armadio tozzo prendeva l’aspetto dell’incubo pronto a coprirmi e a premermi. A quell’uscio rimasto socchiuso qualcuno s’appressava per entrare; e si ritraeva ogni volta con un respiro interrotto. La pera della luce elettrica pendente sul capezzale m’angosciava come se fosse un bavaglio da imporre. Una inimicizia tacita occupava ogni piega delle cortine e delle portiere, diritta come l’ombra d’un’arme in asta.

Ma oggi, nel mio malessere e nella mia inquietudine, sento che, se cercassi, potrei forse adattare la mia pena a qualche parte di questo spazio chiuso tra quattro mura senza bellezza, in quel modo che il capo dolente s’adatta a un certo lembo del guanciale per men soffrire. In ogni stanza, anche sconosciuta, v’è un luogo più ospitale e più propizio a cui l’istinto ci conduce se l’attenzione lo accompagna. In quella medesima stanza, sopra il tappeto apparentemente uguale, il cane troverà senza fallo il suo luogo per accucciarsi.

Anch’io talvolta, ottuso, o distratto in altri pensieri, seguitai con incuranza lungo il corridoio l’uomo che doveva aprirmi a destra o a manca la porta numerata, la porta della sosta e del sonno o dell’inatteso destino. Oggi so che ogni soglia è misteriosa e che non mai dovrebbe lo spirito esser tanto vigile quanto nel rischiarare l’atto di varcarla. Ovunque, comunque, s’io entro in una stanza, ricca o povera, nota o ignota, angusta o vasta, per qualche attimo o per un indefinito tempo, sento che l’Invisibile mi viene incontro e mi alita sul cuore. Nulla sfugge al mio sguardo indefesso. Gli aspetti di tutte le cose mi si stampano nella memoria con la maniera dura e sommaria delle primitive incisioni in legno. Taluna resta in me più viva del vólto che vi si disfece nell’angoscia o delle mani che si levarono a supplicare, a minacciare, a percuotere. Talun’altra, a un tratto, di qual fremito indicibile visse quando vi salì il grido dalla via deserta!

Ah, chi canterà questo mistero senza fine diverso e chi restituirà alle soglie la lor santità spaventosa?

Eccomi stanco, inquieto, bisognevole di pace e tuttavia «vago di novitadi». Non so perché, penso a una sera in un accampamento, sul limitare della tenda di guerra, quando il sole si corica e la tregua spira. La luna nuova e la necessità di ricombattere pendono nel cielo di giacinto, su le belle macchie di color bronzino, piene d’ombre e d’imboscate. Le armi son sotto la mano, forbite; e la malinconia del guerriero le rende imbelli.

La tregua non è la pace. Io m’ebbi già nella mia milizia qualche celere tregua. Ma, tra le migliaia di parole ch’io so, tra le innumerevoli che tutte mi vivono in suono in sentimento e in imagine, una sola è per me inesperimentata e vacua, a me più sconosciuta che una sorgente nell’Himalaya o una statua colata a picco nel mare di Candia: l’ottima parola breve che i Romani dilatarono sul Mare Nostro.

Tre ragioni di pace distingue san Tommaso: con Dio, con sé, col prossimo. Tutte e tre queste paci insieme, come direbbe il Padre Segneri, io nego a me medesimo. «Or perché non ha pace il fuoco con esso meco?»

Sono solo, seduto su questa sedia che ha sopportato chi sa quali altre stanchezze, tra queste quattro mura che mi contengono e han contenuto chi sa quante altre miserie. V’è qualcosa di funebre in quest’aria, e un insetto dorato la traversa ronzando. V’è qualcosa che non muta, e qualcosa che passa. V’è la mia faccia travagliata dalla mia furia, e non so che indistinta maschera fatta di mediocri impronte sovrapposte che si cancellano a vicenda. Oggi il mio destino è sospeso in luogo neutro; ma sento sul mio capo come un concilio di forze intente a deliberare. In qualche parte sono atteso, e ho una quasi irosa ripugnanza a muovermi.

Vorrei tuttavia ritrovarmi altrove, lontano indefinitamente. V’è un lago qui presso, v’è un corso d’acqua, poggi vi sono e boschi. Questa natura mi disgusta come un dolciastro Idillio di Salomone Gessner. Né imagino un monte, una pianura, un lido in cui potrei oggi compiacermi. Io mi ricordo che, dopo un viaggio nel sublime Deserto d’Arabia, un albero verde o un campo d’orzo mi dava la nausea che dovevan dare al Parini i famosi «cavolacci riscaldati». Tutta la natura, in certi giorni come questo, m’inspira qualcosa di simile a quel fastidio irragionevole. Perché non posso allora rifugiarmi nel paese dell’Amor sacro e profano o della Tempesta o della Vergine delle Rocce?

Ho meco la medaglia di Cecilia Gonzaga, opus Pisani pictoris, gittata di piombo a prova, non ritoccatarinettata, rimasta vergine di cesello con tutte le sue bave, con non so qual morbidezza e pastosità che nel rovescio me la fanno preferire a un esemplare di bronzo buono. Il colore del metallo è alquanto chiaro, soffuso d’una lieve perlagione, che par secondi il sentimento lunare del paese rupestre.

Stupendo creatore di vita questo Pisanello, su cui vorrei un giorno scrivere un libro costruito come un sonetto. Di lui non si conosce altra medaglia di tipo feminino, tra le ventiquattro firmate e le altre dodici che recano l’impronta del suo stile certa. Ma sembra che in questa egli – il medaglista gagliardo di Niccolò Piccinino e di Don Inigo d’Avalos – abbia raccolto, come per superarsi, il più delicato fiore della sua modellatura e il più lene ritmo della sua poesia, la purità della sua mano e la vaghezza della sua anima.

Ecco che anche una volta la sua piccola luna falcata m’incanta e addorme il mio male. Il giorno di primavera ch’ebbi in dono questo piombo, ero infermo nel mio letto e smanioso. La donatrice entrò senza rumore, col vólto velato, come una maga che recasse un beveraggio di semplici. Si chinò, e mi pose la medaglia nella palma supina della mano che ardeva di febbre. Dal freddo metallo ebbi refrigerio prima che dalla bellezza. Poi, guardando il Liocorno ammansato presso la Vergine, dimenticai ogni patimento; e sempre tenni presso di me il dono sinché non fui guarito. Una notte m’addormentai con quello nella mano, e svegliandomi lo sentii umidiccio del mio sudore febrile. Alla mattina mi parve di notare nella sua pàtina non so che mutamento, e mi piacque di attribuire quel lucore perlato all’influenza notturna.

Ora credo che si perpetui una qualche virtù medica in questo divino piombo, come in un pentacolo o in una candarìa. Non vogliono per oggi i miei pensieri omai abitare altro paese che quello di monti ove il mostro barbato dal piede fesso, più capro che cavallo, si accovaccia e si assopisce accanto alla donzella seminuda.

Forse è destino che un giorno la vergine Musa della mia vita invereconda sia per somigliare a quella silente ammansatrice.


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