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Commemorazione di Percy Bysshe Shelley

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Commemorazione
di Percy Bysshe Shelley
[4 agosto 1792-1892]

Cade oggi il primo centenario di Percy Bysshe Shelley, nato il 4 agosto del 1792 a Field Place, presso la piccola città di Horsham, in quella contea di Sussex che già aveva dato i natali al Collins e all’Otway. Cade oggi il primo centenario del più grande poeta inglese di questo secolo, d’uno dei più grandi poeti del mondo. E mai nome d’uomo fu raggiato da una più pura luce di gloria, fu esaltato in una più vasta apoteosi.

Settanta anni dopo la morte, Percy Shelley ha nella nostra imaginazione le sembianze di un semidio. Egli è per noi il poeta dei poeti com’è il cuore dei cuori. La sua vita non ci appare meno straordinaria della sua opera. Il suo destino ha una grandiosità e una tristezza sovrumane. La sua morte è misteriosa e solenne come quella degli antichissimi eroi ellenici che d’improvviso una virtù invisibile sollevava dalla terra assumendoli transfigurati nella sfera gioviale. Come nel canto di Ariele, nulla di lui è vanito, ma il mare l’ha transfigurato in qualche cosa di ricco e di strano: into something rich and strange. Il suo corpo giovenile arde sopra un rogo, a piè dell’Appennino, al conspetto del Tirreno solitario, sotto l’arco ceruleo del cielo. Arde con gli aromi, con l’incenso, con l’olio, col vino, col sale. Le fiamme si levano fragorose in un’aria senza mutamento, vibrano canore verso il sole testimonio che fa scintillare i marmi dei culmini montani. Una rondine marina cinge dei suoi voli il rogo, finché il corpo non è consunto. E, come il corpo incenerito si disgrega, appare nudo e intatto il cuore: – cor cordium!

Qual cuore umano fu mai capace di accogliere l’immenso flutto di amore che Percy Shelley versò e diffuse per tutta quanta la sua opera dalle salienti strofe melodiose dell’Allodola alle profonde sinfonie del Prometeo liberato? In nessun tempo, in nessuna letteratura è un simile esempio. Bisogna risalire al Cristo, per trovare un paragone. Come Gesù, Percy Shelley amò gli uomini: d’eroico amore. E non soltanto amò gli uomini ma tutte le cose, tutte le trasformazioni della Vita e della Morte nell’Universo. Egli è veramente il poeta della universale bontà, della universale pietà, del perdono e della pace.

My brethren, we are free! Miei fratelli, noi siamo liberi! Scintillano i flutti sotto le stelle, e i venti della notte ondeggiano su le messi mature, gli uccelli e le fiere sognano. Mai più il sangue degli uccelli e delle fiere macchierà delle sue onde velenose una festa umana e fumigherà verso il ciel puro come un’accusa agli uomini. I vindici veleni cesseranno d’alimentare la malattia, la paura e la demenza. Gli abitanti della terra e dell’aria accompagneranno a torme i nostri passi nell’allegrezza, cercando presso di noi il loro cibo o il loro asilo. La nostra industria chiederà al pensiero le più gloriose forme per abbellire questa Terra, nostra dimora; e la Scienza e la sua sorella Poesia rivestiranno di luce i campi e le città degli uomini liberi!

«Victory, Victory to the prostrate nations! Vittoria, Vittoria alle prostrate nazioni! Sii tu testimone, o Notte, e siate voi testimoni, o mute Costellazioni che ci guardate dai vostri carri di cristallo! I pensieri sono insorti e le loro potenze non s’addormiranno più! Vittoria! Vittoria! Le più remote plaghe della Terra, le regioni che gemono sotto le stelle antartiche, le verdi lande cullate dal ruggito dei flutti occidentali, e i deserti vasti e popolosi che limitano gli oceani ove il Mattino colora le sue auree trecce, prenderanno parte alle nostre alte ebrezze. I re impallidiranno di stupore. Il Timore onnipossente, questo Dèmone-dio, quando udrà il nostro magico nome, si dileguerà dai suoi mille templi come l’ombra, mentre la Verità, levata in trono con la Gioia, regnerà sul suo impero perduto

Così canta, con una irresistibile elevazione d’inno, Laon nel poema The Revolt of Islam. È questa la visione che il poeta ha della terra libera, dell’umanità rinnovellata. Nella eterna lotta tra Ormuzd ed Ahriman, egli combatte per il principio del Bene, per la Luce, contro tutti gli implacabili nemici della specie umana, contro l’uso, contro la legge, contro la fede, contro la tirannia, contro la superstizione. Egli pensa che il peso di tante servitù, per quanto grave, possa dagli uomini essere alfine sollevato e scosso, ma senza spargimento di sangue fraterno. Come Giangiacomo Rousseau, egli vorrebbe immutate le condizioni delle cose più tosto che sparsa una stilla di sangue. Lo spettacolo di qualunque sofferenza gli è intollerabile. Nel Prometheus unbound, quando il fantasma ripete la terribile maledizione scagliata dal ribelle contro Giove, Prometeo chiede alla madre Terra: «Were these my words, o Parent? Furono queste le mie parole, o Madre?» – «Queste furono.» – «Io mi pento. Le parole sono pronte e vane. Ciechi sono i dolori recenti; e tali erano i miei. Io non desidero la sofferenza di alcuna cosa viva. I wish no living thing to suffer pain

Chi non riconosce in questo ultimo verso, scritto prima del 1820, il precursore di quegli evangelici slavi che in così breve tempo hanno aperto un così vasto solco negli spiriti odierni? Parlo di Teodoro Dostoiewsky e di Leone Tolstoi. È nella Revolt of Islam un passo che il Dostoiewsky avrebbe potuto mettere per epigrafe al più doloroso e pietoso dei suoi romanzi. «Non esser duro con la tua anima, sì bene conosci te stesso; non odiare il delitto altrui e non aborrire il tuo. L’oscura idolatria di sé è causa che l’uomo pianga, sanguini e gema, quando i suoi pensieri e i suoi atti non sono più. O vuota espiazione!… Rimani in pace. Il passato appartiene alla morte, l’avvenire è tuo. L’amore e la gioia possono mutare il più immondo cuore in un paradiso florido ove la pace potrebbe tessere il suo nido.» È bene tutto in questi versi il consolante ammonimento che scende nella sinuosa anima del Raskolnikoff. Ed appare manifesto che Cythna è la spirituale sorella di Sonia.

Quante le pagine, dalla Queen Mab al Prometheus, dall’Hellas al Julian and Maddalo, dai Cenci al Swellfoot the Tyrant, nelle quali questa bontà, questa pietà, questo infinito amore hanno accenti d’incomparabile potenza lirica! Le visioni della terra asservita e tormentata si alternano con quelle della terra libera d’ogni tirannia, pacifica, serena, ove la Bellezza viene ad assidersi tra gli uomini come un tempo Gesù tra i pescatori della Galilea, sotto il giustissimo sole. Nel Prometeo, che è il più grande poema di questo secolo, più grande forse anche del Faust goethiano, tutte le voci e le vibrazioni dell’Universo si fondono in un solo coro immenso per celebrare la bontà della Vita.

Quando nella prima scena del secondo atto gli Echi ripetono intorno le parole «Follow! Follow!», Asia dice a Panthea: «Hark! Spirits speak. The liquid responsesOf their aerial tongues yet sound. Ascolta! Parlano gli Spiriti. Le liquide risposte delle loro lingue aeree risuonano ancora.» La musica degli Echi si allontana a traverso le caverne, ove l’ape selvaggia non ha mai volato; poi si riavvicina. Panthea dice: «Ascolta! Il cantico ondeggia ora più da presso.» E cantano gli Echi: «In the world unknownSleeps a voice unspoken; By thy step aloneCan its rest be broken;Child of Ocean! Sconosciuta nel mondo dorme una voce non rivelata. Soltanto dal tuo passo può il suo riposo essere turbato, figlio dell’Oceano

Questi versi mi aiutano un poco a rendere l’impressione che la poesia shelleyana fa su la mia anima. Il poeta è veramente uno spirit-tongued. Nessuno, certo, modulando il verso, ha saputo trovare armonie così aeree, non mai prima udite. Pare che veramente questo figlio dell’Oceano abbia risvegliata una voce che dormiva sconosciuta nel mondo. Anche le sue odi meno curate hanno qualche cosa di sovrumano. Certe note sembrano escire non dalla bocca d’un mortale ma da quella d’un dio o di un dèmone. Certi versi paiono tessuti dell’elemento imponderabile d’un qualche sogno elisio. Hark! Spirits speak.

Mentre egli possiede le più alte virtù dei più alti maestri antichi, tutto è nuovo in lui. Le sue imagini non si ritrovano in alcun altro poeta: scaturiscono dal suo cervello con tale prodigiosa abondanza che i più ricchi sembrano miseri al confronto di lui. Chi di noi disse un giorno che avrebbe data una provincia per una imagine nuova? Percy Shelley non conosce questa dolorosa ricerca. Nella sua poesia le imagini si succedono come baleni, innumerabili, sprizzando dal suo cervello spontanee con una rapidità che talvolta le vertigini. L’una talvolta nasce dall’altra e l’una illumina l’altra con una saliente gradazione di splendori; e dalla prima generatrice le successive si svolgono e s’inalzano come in una spira impetuosa che solleva al sommo e sostiene il peso d’un pensiero così denso che pare oscuro.

Tutte le forme, tutti i colori, tutti i suoni, tutti i profumi, tutte le apparenze della natura, le più durevoli e le più fuggitive, rivivono in queste imagini: d’una vita più complessa e più profonda. Qui tutto vive, palpita, respira. Non v’è qui salto fra la natura e l’arte. Il passaggio tra l’una e l’altra è quasi insensibile. Dietro le apparenze, che il poeta contempla col suo grande occhio di veggente, egli scorge quanto esse rivelano, quanto esse nascondono. Sotto la forma che fa l’ornamento del mondo egli scopre quella oscura sensibilità che genera in ogni cosa un’aspirazione e uno sforzo; scopre l’anima e il suo mistero.

Nessuno come lui sente e manifesta la vita occulta delle cose. Tutte egli le riscalda nella stessa fiamma d’amore. Tutte, per lui, meritano d’essere amate: il filo d’erba e la rupe, l’astro e la stilla di rugiada. Egli ne intende il linguaggio e lo manifesta dandogli l’accento della parola umana, la dignità del pensiero umano. Il suo spirito diventa simile a quel ch’ei contempla. «Fa di me la tua lira, com’è la foresta» egli grida al vento occidentale. «Sii, o superbo spirito, il mio proprio spirito. Sii me, o essere impetuoso! Be thou me, impetuous one!»

In questa penetrazione panteistica dell’Universo, oltre che nel culto ardente dell’Umanità, sta il principal carattere della poesia shelleyana. Nessun altro poeta ha rispecchiato nella sua opera tanti aspetti della Natura vivente. Dai cieli superni, che ridono d’un vasto e inestinguibile riso, fino all’infime radici che s’intrecciano nel suolo come le vene in un corpo umano, tutto vive palpita e respira in questi versi portentosi che a volta a volta sono leggeri e vanenti come una musica di spiriti enormi e coerenti come il granito, veri figli delle montagne e delle foreste.

La Nuvola canta il suo passaggio su la terra in fiore, su l’oceano urlante, e i suoi sonni in braccio all’uragano, e i suoi riposi nel nido aereo, e l’improvvise insurrezioni dalle caverne della pioggia, e tutti i suoi giuochi. L’Allodola s’inalza nel lampo aureo del sole, come una gioia incorporea, come un poeta nascosto nella luce del pensiero, che canta inni spontanei finché il mondo si sente commosso da speranze e da paure non sospettate. Aretusa si leva dal suo letto nivale e conduce a pascere le sue fontane scintillanti; e corre inseguita da Alfeo per gli abissi glauchi dove le signorìe dell’Oceano seggono su troni di perle, in mezzo a selve di coralli. Pane modula su l’avena il suo inno, imitando il sospiro del vento tra le canne e tra i giunchi, il murmure delle api su i fiori del timo, il gorgheggio degli uccelli nei cespugli di mirto, mentre i Fauni e le Ninfe su i prati umidi e all’ingresso delle grotte diventano silenziosi d’amore. E così mille altre voci si levano dalla terra, dal mare, dal cielo; mille altre forme sorgono, risplendono, mutano, passano; mille altri simboli fioriscono in un etere di sogno avendo le radici nelle viscere della vita; finché nel grande coro finale del Prometeo si fondono tutti i simboli, tutte le forme, tutte le voci con tale strapotenza che la nostra anima, come dinanzi a uno spettacolo troppo vasto, è oppressa dallo sgomento e dalla gioia.

Tale è il poeta di cui oggi noi celebriamo il primo centenario.

Napoli dovrebbe mandare alla tomba di Percy Shelley tutti i suoi fiori. Qui in Napoli egli visse qualche tempo nell’epoca più radiosa e più dolorosa della sua vita, su la fine del 1818 e sul principio del 1819 che fu veramente l’annus mirabilis del poeta. Qui egli terminò il primo atto del Prometeo liberato e scrisse versi tra i suoi più tristi: quelli su una violetta morta, e il lugubre sonetto che incomincia «Non sollevare il velo dipinto che i viventi chiamano vita…» e quelle Stanze piene di una divina disperazione. Di lontano, nel 1820, scrisse la magnifica Ode a Napoli dove dalla rappresentazione dei lidi elisii assurge con altissimo impeto lirico a un inno di speranza e di libertà. «O tu, Spirito, che dal tuo santuario stellato pieghi e reprimi tutte le cose, oh fa che questa città che t’adora sia sempre libera

E non Napoli soltanto ma l’Italia intera dovrebbe prender parte a questa apoteosi della più vigile Anima che sia vissuta in terra.

Per ora, quanti fedeli ha il Sogno, quanti vivono assorti nella contemplazione del loro turbine interno, e quanti vivono solitarii su le estreme vette alimentando un’idealità segreta, e quanti aspettano l’alba del Giorno annunziato, e quanti «in una esistenza anteriore hanno amato Antigone», questi riconoscono in Percy Bysshe Shelley il Poeta dei Poeti, il divino figliuolo di Ariele, a cui tutte le voci gridarono come a Demogorgon nel poema immortale: «Speak: thy strong words may never pass away. Parla: le tue parole potenti non passeranno giammai!»



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