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Ho passata una mattina felice all’Academia. Ero nello «stato di grazia», in quello stato musicale che è la perfezione dello spirito per gioire d’un’opera di colore; poiché il dèmone del colore è un dèmone ritmico.
Faccio colazione in una prossima taverna, sotto una pergola che si macula e s’insanguina, con alcuni amici tra i quali è un grande e sapiente colorista: Marius de Maria. Parliamo del rosso e poi del verde, a proposito della Strage degli Innocenti del veronese Bonifazio, ove il cavaliere che guarda impassibile l’eccidio è veramente il Cavaliere del Fuoco, tutto vestito di rosso rovente.
– Ma il verde della donna abbattuta che il soldato è per uccidere? – io dico. – Il verde della sua veste? Nessun altro verde mi commosse mai tanto profondamente, tranne la pàtina del bronzo di Delfo, dell’Auriga scoperto dall’Homolle; che è indicibilissima.
Vedo nella mia imaginazione il piccolo direttore della Scuola francese d’Atene, guercio, scarnito, nervuto, in ginocchio su la terra smossa, accanto alla moglie anche in ginocchio e polverulenta. La statua giace supina, dissepolta a mezzo, simile a una mummia fasciata di bende terrose. E i due, curvi, serrando le labbra per rattenere l’ansia, delicatissimamente liberano «d’ogni terrestrità» i cavi del volto e le pieghe lunghe della tunica con un cucchiaino da caffè.
Allora parliamo della pàtina dei bronzi ellenici. E ritorna il dubbio se sia essa naturale o arteficiata.
– Gli interlocutori del trattato di Plutarco su gli Oracoli della Pitia, – dice Angelo Conti mentre la porpora d’un pampano gli cade sul capo pensoso – visitando il santuario di Delfo e ammirando il colore degli antichi bronzi, istituiscono la medesima disputa.
Quella sublime fioritura del metallo è attribuita da Plutarco alla virtù dell’aria di Delfo. C’è chi pretende che i vapori mefitici dell’«adyton» potessero non soltanto alterare la mente della vaticinatrice ma pur anco le statue dedicate agli eroi e agli iddii nel santuario. Tuttavia in Dodona, in Olimpia, in Atene, in Ercolano, in Pompei, altrove, il bronzo s’abbellisce del medesimo preziosissimo fiore. La pàtina è dunque data dall’età, dalla terrestrità, dalla qualità della lega oppure da una sorta d’inverniciatura onde l’artefice spalmava l’opera fusa?
– Plutarco appunto, – soggiunge Angelo Conti fresco di studii recenti – a proposito delle statue dei vincitori d’Aegos-Potamos, si domanda se il lor colore non sia piuttosto prodotto dalla lega, da un trattamento speciale del metallo, da qualche segreto perduto nel processo del tempo, com’erasi perduto il segreto della tempra per le spade fuse a fuoco. Vi sono infatti pàtine inimitabili che si esprimono dalla composizione della materia e ne sembrano la vera fioritura o, meglio, secondo la parola calda del Baldinucci, la vera pelle. Fu già sperimentato come, in taluni bronzi giapponesi, la pàtina (mirabile da quanto quella dei più bei bronzi di scavo) sia così certamente prodotta dalla lega che, proprio come la pelle, se si scortica, si rigenera. Ora è noto che i gettatori dell’Arcipelago tentarono varie commistioni e combinazioni di metalli. Senza parlare del Corintio, ricco d’argento e d’oro, conosciamo, a traverso le notizie da Plinio attinte negli autori greci, un certo numero di formule più o meno oscure ma diversissime. Dove meglio troveremmo la ragione di simili ricerche se non nel desiderio di ottenere pàtine sempre più saporite e delicate?
– La pàtina naturale del marmo, del bronzo, dell’avorio – io dico – doveva essere per quei divini fanciulli quasi un portentoso indizio d’animalità rivelato da quelle materie apparentemente inerti. Mi penso che il mito di Pigmalione illuminasse l’officina d’ogni buono statuario. L’imagine scùltile o conflàtile aveva una cute viva e attiva come la creatura effimera. Nel santuario di Delo il servente del tempio profumava d’essenza di rose e lisciava di belletto il corpo della statua, in quella guisa che le schiave preparavano all’amore la nudità dell’etèra. Che meraviglia se talvolta l’orecchio s’accostava a origliare il petto scolpito dubitando non vi battesse un sùbito cuore?
Agnolo inumidisce all’orlo del bicchiere il suo sorriso.
– Dobbiamo persuaderci, – riprende quindi a dire il dialogante Platone Platonior, cui il sapore d’una parola bella è grato come un sorso di vin mero – dobbiamo persuaderci che gli scultori greci praticassero la policromia non soltanto sul marmo, su l’avorio, su la terracotta, ma pur anche sul bronzo. Selanion aveva fatto di getto una Giocasta morta, il cui vólto appariva d’un pallore funereo; Aristonida in Rodi aveva figurato Atamante, il re misero di Tebe, nel punto di scuotere la demenza sanguinosa, e il viso regale era acceso di vergogna; Callistrato, descrivendo le statue da lui attribuite a Prassitele e a Lisippo, nota altri saggi di colorazione espressiva ancor più singolari. Certo i descrittori antichi d’opere d’arte trascorrono assai più lungi che non soglia talora il nostro Vasari; ma risulta tuttavia da tali testimonianze che i greci – con la diversità delle leghe e delle pàtine da esse leghe prodotte, in opere congegnate di pezzi separatamente fusi – cercarono d’ottenere taluni effetti di policromia. Di questa specie dovevan essere appunto le statue ammirate da Plutarco in Delfo; le quali, secondo gli epiteti dello scrittore, non a caso ma per volontà ingegnosa dell’artefice commemoravano con un colore azzurro cupo il mare ove i navarchi avevan conseguito la vittoria. Mi sembra dunque dimostrato che in certi bronzi antichi la pàtina non è accidentale, non è dovuta all’azione incalcolabile dell’aria o della terra, ma è data dal gettatore, con la sapienza delle diverse leghe, per accrescere vaghezza e significazione all’opera.
– Ma il gettatore non si serviva egli, oltre che d’esse leghe, di inverniciature speciali, di misture colorate, spalmandone il metallo, come grossamente oggi fanno i fonditori per nascondere i falli, i rapporti, i rappezzi?
– Certo. Le prime pàtine fiorirono dal bronzo spontanee, sotto l’azione favorevole di elementi naturali. Si sa che le pàtine «aeree» sono in genere verdi, che le «terrestri» sono in genere azzurre. Quelle famose di Dodona passano per innumerevoli gradazioni di verde, d’azzurro, di bruno; imitano lo smeraldo, la turchese, il diaspro, pregne di ricchezza, intense, profonde, «saporitissime», come direbbe un tuo secentista, sicché sembran quasi per gli occhi dar gioia al gusto. Dallo studio degli effetti accidentali i gettatori passarono all’esperimento di determinate commistioni atte ad esalare, secondo la parola di Plutarco, determinate fioriture di ossidi. Ma un più o men lungo tempo è necessario prima che il metallo compiutamente si colori; né è certo che il tono premeditato dall’artista giunga alla sua giusta forza. Inoltre non sempre la fusione riesce perfetta, onde il lavoro del rappezzo e del cesello è assai spesso inevitabile. Gli Antichi s’ingegnarono quindi a trovar il modo di condurre le pàtine con maestria diretta, per sottrarsi a quel ch’eravi d’incerto e di lento nella colorazione esalata dalle leghe, per dar così all’opera il suo aspetto compiuto prima ch’ella escisse dall’officina, e per celare sotto la spalmatura eguale i falli del getto. Plinio parla della consuetudine di tingere con bitume (bitumine antiqui tinguebant) le imagini. È difficile indovinare come tal mistura fosse composta. Si tratta forse dell’ultimo vestigio di quelle mirifiche ricette che i grandi artieri del quinto secolo avanti Gesù Cristo trovarono e praticarono. Ma mi sembra omai certo che la policromia ornò e avvivò le statue di bronzo, come quelle di marmo, d’argilla e d’avorio, sia per mezzo di pàtine naturali esalate dal metallo commisto secondo formule intese a produrre quel «fiore», sia per mezzo di sottili inverniciature il cui segreto inutilmente i bronzisti d’oggi si sforzano di rinvenire.