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LA CLARISSA D’OLTREMARE

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LA CLARISSA D’OLTREMARE

17 ottobre 1896 (Venezia).

Stamane sono intento a velare, con una infusione di molto forte e con altri innocentissimi intrugli, la cruda bianchezza d’un gesso donatomi da Mariano Fortuny. È un frammento antico, del quale non conosco l’originale che si conserva al Prado: il frammento d’una figura feminile, dall’ombelico alla rotella del ginocchio. Il nudo si sviluppa da un partito di pieghe. Il pube, gli inguini, il ventre, i lombi, una parte della schiena, il solco tra le due natiche, volumi e contorni vivono nell’eternità d’una divina modellatura.

Son dunque intento a imitare quell’inimitabile biondezza di miel selvaggio che, per esempio, assunse nella oscurità dei secoli il torso di Subiaco (il ricordo del dialogo intorno alle pàtine verdazzurre di Delfo e di Dodona mi il disgusto delle mie sciocche acquerùgiole), quando entra su’ piedi leggeri la mia amica. Prima di parlare, ella irride l’alunno del Tempo. Poi mi chiede:

Non conoscete Miss Macy?

Chi è Miss Macy?

La Francescana della Ca’ Frollo.

Ne so meno di prima.

Bene: vi condurrò oggi alla Giudecca, vi lascerò alla sua porta. Altro che il vostro , la vostra ammoniaca, e il vostro sapone! Ella sola sa innumerevoli segreti per mutare il gesso morto in vecchia pietra, in vecchio stucco, in vecchio legno, in vecchio avorio, in tutte le materie di cui son formate le cose d’arte vive che si consumano si fendono si tarlano si scuriscono.

Nel pomeriggio vado alla Giudecca. La Ca’ Frollo è una casa gialla che guarda un grande orto limitato dalla laguna. Miss Macy abita la soffitta.

Si sale per una scala ripida di quercia. Appeso all’architrave della porta è una specie di ferreo scudo con i margini lavorati: un arnese alquanto simile a una padella, che anticamente serviva a portare la polenta in tavola. È lo stemma gentilizio di Miss Macy.

Ella mi viene incontro su la soglia sorridendo. È la moltiplicazione del sorriso, come d’un raggio in un rivo crespo. Ho il sentimento immediato e forte di trovarmi dinanzi a una persona viva, a quel rarissimo fenomeno che è una vera e propria persona viva. È vestita d’una lunga casacca azzurrognola, come un artiere. È bionda, con i capelli rilevati su la fronte, rigettati indietro, sparsi di qualche filo grigio. Ha gli occhi cerulei, splendidi, puri, infantili, ove la commozione sembra passare di continuo come un’acqua corrente. Ha la mano robusta e rude della lavoratrice.

La sua soffitta è vastissima. Le massicce travi collegate dal ferro sono così basse che quasi toccano il capo: frequenti come i tronchi in un bosco, rose dai tarli, con tutte le fibre allo scoperto, d’un color bruno dorato. Lungo le mura son disposti i gessi dei frammenti architettonici: capitelli, archi, rosoni, cornici, bassi rilievi. V’è un intero camino del Lombardo, quello del Palazzo ducale. E poi Madonne, busti, maschere. Sopra una tavola rozza, nel mezzo, due maniformate sul verosembrano irrompere dal gesso e fare un gesto di aspettazione e di supplicazione, come le mani irte di coloro che risorgeranno in carne di sotterra nell’ultimo Giudizio. In vasi rustici sono adunate altre canne fronzute, piante secche di granturco fornite di pannocchie, mannelle di spighe. Sospeso a due corde è un modellino d’antica galèa veneta, un guscio di bellissime linee.

L’ho salvato con qualche soldo, a Chioggiadice Miss Macy – da un pescatore che voleva bruciarlo per cuocere la sua polenta!

Le finestre da una banda guardano il Canale della Giudecca, scoprono il Palazzo ducale, la Piazzetta, la Biblioteca, il naviglio all’àncora; e dall’altra banda guardano l’orto e la laguna. L’orto è biondo, fulvo, porporino, con le sue pergole già vendemmiate, con i suoi ortaggi pingui. Le barche pescherecce passano nel tramonto. Grandi squilli del rosso nella lenta pace! Guardando una vela e il suo albero liscio, penso l’uomo rosso col cappuccio su gli occhi che abbraccia la colonna, nell’Adorazione dei Magi del secondo Bonifazio. Penso quell’altro uomo rosso del Bramantino, – nell’Adorazione della Galleria Layard – quella misteriosa fiamma, somigliante al Cristo adulto, che indica il pargolo sul seno della Vergine in turbante. I fantasmi dell’arte fuggono dalle prigioni dei musei ed errano per l’aria e su l’acqua, a Venezia, quando il giorno declina.

Il giorno si spegne; e Miss Macy, seduta sul davanzale, parla della sua gioia mattutina quando ella si leva con l’aurora e si pone alla fatica.

È un’Americana, un’inviata della barbarie d’oltremare, venuta a Venezia per ripetere in piccole proporzioni gli edifizii più insigni. Lavora da sei anni a rendere in gesso il Palazzo ducale! Con infinita pazienza ha modellato ogni arco, ogni colonna, ogni capitello, ogni balaustro, ogni fregio, ogni minima particolarità. La sua opera è come un enorme giocattolo costruito per un popolo fanciullo. Ella scoperchia il tetto e si china sorridente a guardare, evocando nelle proporzioni l’imagine d’una santa gigantesca in atto di spiare un ricovero ch’ella protegga. Nessuno omai conosce meglio di lei la struttura dell’edifizio che chiude il Paradiso annerito. Dinanzi a me ella ne compone il simulacro, pezzo per pezzo, organo per organo, quasi direi osso per osso, come un anatomico farebbe delle parti che costituiscono la fabbrica umana per imparare a conoscerne il numero, la forma, la situazione, le relazioni. A un tratto, ride di un fresco riso infantile. Sembra che le sue rughe brillino su le sue tempie e alle commessure della sua bocca. Fugge verso l’ombra d’un angolo, e ritorna con un oggetto tra le mani. Me lo mostra: è un piccolo trittico d’avorio bisantino, dell’epoca macedonica, ingiallito e consunto, entro una custodia di vecchio velluto verde.

gessodice, con un accento anglo-italo-veneto indefinibile.

E ridendo s’allontana verso l’ombra; poi ritorna con un altro oggetto. È un piccolo cofano d’osso, dal coperchio a schiena d’asino, che reca intorno scolpite scene di caccia e d’ippodromo, con combattenti, con bestiarii, con Ercole in atto di strozzare il leone, con Ercole assiso sul vello della fiera, tra rosette e cerchietti.

gesso – ella ripete; e si riallontana ridendo.

Torna ancóra tenendo nelle due palme un altarino portatile d’alabastro orientale con guarniture d’argento niellato, con piccoli busti di sante e di santi lavorati in niello entro un ordine di nicchiettine in tondo.

gesso – ella ripete, con uno scroscio più sonoro.

E poi mi mostra un basso rilievo di stucco policromo in una cornice di legno dorato, un medaglione a oro e a smalti che sembra un frammento della Pala, ancóra un cofanetto in forma di chiesa cubica sormontata da cinque cupole, un piatto di rame sbalzato, un gran mortaio di marmo veronese scolpito a grifi…

gesso, gessoséguita ella a ripetere con una ilarità sempre più diffusa.

E, come l’ombra comincia a invadere la soffitta, ella accende una vecchia lucerna d’ottone a quattro becchi. I lucignoli crepitano spandendo un odore d’olio d’oliva che si mescola a quello dell’acqua arzente e della cera. La seguo nel laboratorio pieno d’ampolle e di bacinetti, dov’ella per via di non so quale alchìmia provando e riprovando opera le trasmutazioni illusorie. Sul solaio si accumulano le impronte dei tasselli numerosi. E un sentimento quasi palpabile di vigore mi sembra sorga da quelle matrici cave ond’esciranno gli esemplari delle cose belle.

Miss Macy lavora in compagnia di alcuni operai; i quali sono la sua famiglia rude. Ella mangia con loro, al medesimo desco, la polenta. Ella mi prende per mano e mi conduce nella sua cucina ov’è un solo fornello e una rastrelliera di piatti grossolani ma fioriti. Veramente alita quivi lo spirito di san Francesco. Ella è una specie di clarissa in libertà, passata dalla contemplazione all’azione. Dinanzi a tutte queste travi decrepite penso al legno consunto fenduto scheggiato del coro di Santa Chiara. Dinanzi alle pannocchie secche di granturco, penso al fascetto di spiche brune che vidi alla sommità del leggìo nel coro di San Bernardino da Siena. Mi risuonano nella memoria le parole che lessi in San Damiano scritte sopra una tabella: «Sotto il pavimento di questa stanza riposano li venerabili corpi delle prime monache di Santa Chiara, dalli quali corpi esala una soave fragranzaConosco i loro nomi. Questa semplice dolce e gioconda creatura d’oltremare merita un di quei nomi santi. Quale? Illuminata, Consolata, Benvenuta, Chiaretìa… La chiamerò Chiaretìa. Tesori di bontà, d’indulgenza, di coraggio e di amore scintillano in fondo all’acqua corrente de’ suoi occhi cilestri. V’è nel carattere del suo capo qualcosa di virile e di tenero a un tempo, qualcosa d’intrepido e di mansueto. Come le sue rughe sembrano raggi, così la sua fatica la sua solitudine la sua indigenza le si trasfigurano in una divina felicità.

Sono poverella – ella dice; e mi mostra le mani nude, forti e pure, la sua sola ricchezza d’ogni giorno.

So che distribuisce tutto il suo guadagno. So che talvolta patisce la fame e il freddo. Oggi non aveva più neppure un sacchetto di gesso pel suo lavoro!

Seduta sul davanzale, ella mi parla della sua gioia perenne, della gioia di lavorare dall’alba al vespro. L’orto si oscura nel crepuscolo. L’immensa soffitta, illuminata dalle lucerne, si anima di ombre e di sbattimenti. Scorgo ancóra qua e i simboli della terra travagliata, del mare navigato: il granturco, le canne, i melagrani, la vecchia galèa sospesa…

Ecco che la povertà m’appare come la nudità della forza, come la più semplice e nobile statua della vita.

Anch’io lavoro – le dico, quando il suo sguardo indaga le mie mani troppo bianche, le mie unghie troppo lucide.

Le parlo della mia disciplina, delle mie veglie studiose, delle mie ricerche pazienti, della mia costanza nel rimaner curvo al tavolino per quindici e venti ore continue, della quantità d’olio che consumo per la mia lampada, dei cumuli di carta, dei fasci di penne, del calamaio capace, di tutti gli strumenti del mio mestiere. Poi le mostro un segno palpabile: il mio dito medio difformato dall’uso assiduo della penna, un solco liscio e un rilievo calloso.

Sùbito si commuove. Tutto il suo viso esprime una tenerezza materna. Ella prende il mio dito, esamina il segno. Poi d’improvviso, in un atto di umana grazia che non dimenticherò mai, lo sfiora con le labbra schiette.

God bless you!

L’acqua corrente passa tra le sue ciglia chiare, luccica, tremola, sempre novella.

God keep you, ever!




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