Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
Lettura del testo

TRE PARABOLE DEL BELLISSIMO NEMICO

I IL VANGELO SECONDO L’AVVERSARIO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

TRE PARABOLE
DEL BELLISSIMO NEMICO

I
IL VANGELO SECONDO L’AVVERSARIO

Sera del 27 gennaio 1897 (Bagazzano).

Ho sete, non so di che. Mi travaglio, non so di che. Sono irrequieto, sono anelante; e chiedo non so che tregua, e cerco non so che rifugio. Ma temo la tregua come se fosse per mozzarmi il respiro; temo il rifugio come se le mura degli uomini fossero per crollarmi sul capo. Non so più nulla di me; e vorrei trovar qualcuno che tutto di me sapesse e mi dicesse.

M’aiuta l’amore? m’illumina l’amore? Disperatamente non s’è allontanata da me, dianzi, la grande donna dagli occhi di pianto e d’infinito? Tuttavia nel suo passo triste io udivo frusciare le foglie del lauro.

Ella aveva legato un capello a ciascuno dei miei diti, mentre parlavo con lei, accanto accanto. Ero annodato da cinque capelli; e incominciavo a soffrire come se i cinque capelli fossero cinque catene.

Mi levo in piedi, all’improvviso, senza sapere perché; e dico: «Bada.» Ella non mi scioglie; risponde: «Rómpili, stràppali.» Mi discosto, confuso nel folle rombo del mio cuore. I capelli si spezzano, ma i nodi rimangono intorno alle mie falangi.

Ella non grida. Mi prende la mano così inanellata di sottile dolore. Sento cadere le sue lagrime. Uno strazio oscuro ci ritesse, a fibra a fibra. Entrambi diciamo parole che non ci rivelano e non ci consolano. Una lagrima calda mi cade nell’intervallo tra l’anulare e il medio, dandomi una sensazione indefinibile che distrae il mio spirito dal conflitto. Ecco, io non sono intento se non a sentire e a interpretare quelle cose vive del vivo patimento: i fili spezzati, la stilla che si fredda. La vita sembra vanire, e invece si profonda.

«Dove vai

«Ti lascio. Ti lascio con qualcuno che è bianco e alto contro tutto il tuo buio. So che te ne ricordi. So che lo guardi tuttora

Talvolta la veemenza e la rilevanza dei miei fantasmi mentali mi sgomentano. Non vedo io la creatura bella allontanarsi tra i cipressi portando su le braccia il suo amore come un agnello dalle quattro zampe legate insieme con una corda bruna che forse è una treccia recisa dalle cesoie del vóto sublime e vano?

Eravamo, pur l’altrieri, nella Scuola di San Rocco. L’uomo alto e bianco era , in un fondo ottenebrato. Me ne ricordo. Ci penso.

Chi mai mi potrà vincere, chi mi potrà legare, se il mio spirito ha il potere di abolire lo spazio e il tempo, e tutti i limiti noti e gli ignoti, e tutte le umane e le divine proibizioni?

Passando sotto il ponte di Gamberaia, salgo verso un trivio guardato da un’antica croce e da antichi cipressi. Scorgo l’Arno di sotto, nella valle. Riodo nel mio cuore i tonfi che incupivano il silenzio del canale veneziano. Ripatisco il freddo fra le colonne della sala prima, dove le lanterne processionali sono spente da secoli. Ecco che un volo di angeli si precipita nella casa della Vergine: l’impeto degli Astori preceduti dalla Colomba. Sembra che dal volo la medesima furia s’apprenda alla strage. Dalla disperazione della madre, china di sul parapetto verso il pargolo ignudo, sgorga tutta l’ombra sanguigna che occupa il centro dell’orrore. Santa Maria Egiziaca, santa Maria Maddalena, le due penitenti deserte, non esse fanno vendetta d’animo contro a sé; ma contro esse il crepuscolo avvampato di sinistri giallori, il gran tronco d’albero acceso come un gran tizzo, l’irta ira terrestra vendicano l’offesa di Dio.

Ah, che m’importa della mia gloriòla scandalosa, se mi so riconoscere in questo artiere della mia razza, se mi so levare a qualsiasi più alta statura, se mi sento nato alla vita eroica e destinato a superare tutti gli esempii? Sono tra gli olivi. Per l’oliveto salgo verso Bagazzano. Cade la sera. Mi soffermo. La passione e l’orazione nell’Orto mi scavano, mi penetrano a fondo, mi rivelano che la solitudine amara e il sacrifizio ebro sono la mia predestinazione vera.

Se io di me non rido, che m’importa del ghigno altrui?

Questi olivi sono degni della mia offerta, di dal mio diniego; degni della mia preghiera, di dalla mia bestemmia. Perché patisco io dentro me così profondamente la prova del Frantoio? Perché tanto riarde nel mio gentilesimo una stilla del calice non evitato? Perché, tra compagni lievi o tra fratelli fedeli, spesso io penso con tanta fierezza alla sonnolenza dei discepoli sazii e al secondo canto del gallo?

A nessun’altra prova più tremenda può aspirare l’anima ascetica per compir sé stessa e per sentirsi eternamente diversa.

Compir me stesso e sempre più confermarmi ed esaltarmi diverso, di prova in prova, è lo sforzo occulto e palese del mio volere. Mi piace in me una certa qualità del mio sguardo, che talora ai miei prossimi un senso di vergogna indistinto.

Ecco, aggravati dal pasto, i discepoli s’intorpidiscono a poco a poco nel curarsi i denti con fuscelli d’isopo.

Ora, attraverso l’arditezza lirica del Tintoretto, rivedo i corpi ottusi dei dormienti sotto l’olivo che sostiene la veglia di Gesù. L’angelo erompe da una sfera di fuoco che sembra sia per ardere le vestimenta dell’eroe abbandonato; e gli offre il calice colmo di chiarità, col gesto terribile di chi brandisce una spada vendicatrice. Percosso è dallo splendore il cranio nudo d’un discepolo mal risvegliato.

Ecco che la vista è soverchiata dalla visione. La faccia del plenilunio sorge all’improvviso dal colle? il colle laggiù è la sepoltura scoperchiata dagli angeli forti? Non so. Dalla pietra la luce erompe come da un cratere sacro. Ed ecco la luce si trasfigura nel volto dell’angelo malo. Ali rosse ha il seduttore, e formose braccia, e ignudo il torso, e una procacità ingemmata e feminea, mentre tende con ambe le mani due sassi a Gesù affranto sopra le radici intorte, sopra le radici oblique. Fievole è il gesto dell’eroe tentato; sfolgorante è la perfidia del bellissimo nemico; il deserto è fallace.

Ho sete, ho sete. Incomincia nella sera il canto delle acque. Un profondo fiume di musica solca la valle. Non è più l’Arno? È la melodia. Non più è lo scroscio delle mulina? È l’ebrezza delle sorgenti. Non più ascolto col mio orecchio teso ma col mio labbro gonfiato. Tanta sete ho nel corpo, che mi sembra non aver più corpo. Ma la mia sete non è la mia anima? Tanta anima ho nel corpo, che non ho più corpo.

Ora dunque dal cielo pende la rupe? La rupe è sopra il mio capo. E Mosè l’ha percossa. L’immenso getto d’acqua s’inarca; e sta sotto l’arco il percotitore. E la sete umana e la sete bestiale si scagliano verso il prodigio, si precipitano al prodigio scrosciante. Le bocche, le fauci, le mani cave, le coppe vuote, tutte le aridità, tutte le avidità si protendono. All’orizzonte il dio rotola con la tempesta; i cavalieri incendiano con l’unghia dei cavalli sfrenati il piano.

Chiudo gli occhi, mi soffermo. Qualcosa da me scaturisce, come quel primo scoppiar dell’acqua dal masso. La scaturigine imperiosa mi scrolla. Vacillo. Mi appoggio a un tronco d’ulivo. Tengo gli occhi chiusi. Riodo la voce della non consolata consolatrice, della non beata beatrice: «Ti lascio con qualcuno che è bianco e alto contro tutto il tuo buio

Sono io quel muro opaco? sono io quella tela incupita? quel fondo abbuiato? Uno toccò le palpebre ai due ciechi di Gerico, e a entrambi le riaperse perché vedessero. Uno a me tocca le palpebre, e me le chiude, e me le tien chiuse, perché io veda.

Si placa il tumulto in me. Ora non ho nel cavo della mano l’acqua traboccante di Horeb ma un poco d’acqua del Chedron raccolta tra sasso e sasso. Contro il mio buio sorge e sta la figura avvolta nel lungo lino, simile a respirante forma di inespugnabile pensiero. Dal muro della Scuola di San Rocco viene alla mia fantasia? esce da quella mano violenta che esasperò quello sforzo di uomini crudi nel sollevare il patibolo del ladrone? «Qui, dopo tanto impeto e tanta abondanza di creazione (guarda quel più che dantesco turbo di ali, che trasporta il Trasfigurato; e contieni in te, se puoi, per un attimo solo, quell’immenso fremito di piume che è sopra quelle due fronti terrene!), qui, dopo tanta furia feconda, il Tintoretto sembra alleviarsi inspirato dalla santa alba dove ha già cantato per la seconda volta il gallo della rinnegazione

È Gesù davanti a Pilato, in piedi, muto, vestito della veste bianca che gli ha dato il tetrarca nel rinviarlo fra gli scherni?

È forse, o mistero della mia poesia non scandita, è forse di contro alla notte degli Olivi il giovine dalla sindone, l’apostolo senza nome che solo io amo fra tutti gli apostoli, quell’ignoto che nell’ora del periglio si unì agli Undici per ricompire il numero e non dormì né la prima né la seconda né la terza volta?

«E io udii la voce d’un uomo il qual gridò e disse: Gabriele, dichiara a la costui visione

Apro gli occhi. Mi sembra di aprirli in due modi dell’olivo, come se io lo abitassi, lo animassi. Mi sembra di sentire nelle mie palpebre il pallore argentino delle foglie. Mi chino, m’incammino. Porto su la mia spalla una parte di me, come una bracciata di foglie. Accompagna i miei movimenti quella dolcezza che un antico nostro chiamava aerosa. Poi, a un tratto, esito e m’arresto; e scuoto dall’òmero il fascio fresco. E ricomincio a soffrire. Mi sembra che qualcuno debba escire da me. Mi sembra che qualcuno di dentro sia per venire al mio soccorso, sia per irrompere dal profondo e per schiantarmi come s’io gli fossi impedimento, e per spezzarmi come se gli fossi legamento. Soffro della sua tensione. E poi smarrisco il senso della sua forza. Io la contengo? essa mi contiene? Mi rimetto in cammino con un passo incerto, con una spalla incurvata che non più regge un fastello di fronda ma un sacco bigio. E ritrovo il tempo che avevo smarrito, lo spazio che avevo negletto. Il tempo dietro di me, alle mie calcagna, rasente ai miei tacchi, falcia l’erba corta e la mia vita breve. Mi sfiorano cose che io non so vedere e che raggiungono l’orizzonte ove la collina s’inazzurra e il passato s’incenera. Il cielo m’è così lontano che spero nella prima stella perché me lo ravvicini un poco. Un ricordo d’infanzia mi si parte dal cuore e mi cala fino alla punta delle dita. Quando tendevo la mano dal balcone di mia madre per sentire se piovigginasse, credevo di tenere nella palma il peso del cielo simile a un uccello umido e palpitante.

Dove vado? dove salgo? che accade in me senza mia saputa?

Cerco una casa vuota, una villa abbandonata, una stanza deserta che mi risuoni contro l’orecchio come una conca marina. L’anima è come il mare che non si cessa di udire quando si cessa di discorrere.

La vecchia villa medicea si consuma sul poggio, in mezzo al bosco dei pini e dei cipressi. Entro. Da nessuno è atteso colui che non attende se non il cambiamento.

Nel camino della sala, che ha le palle medicee sopra la cappa, non resta neppure un tizzo spento né un pugnello di cenere, né il carcame della salamandra. La brezza entrando per la loggia volge le pagine di un messaletto. M’accosto, e leggo una bella parola inattesa. Leggo che Dio è l’eterno amante delle anime. Deus qui animarum humanarum aeternus amator es.

Esco nella loggia sostenuta da colonne di pietra serena dove indovino cariatidi celate come ninfe in tronchi. E il fregio scolorato e disfatto della parete circonda la mia malinconia co’ suoi festoni di edera e co’ suoi vasi di garofani squisitamente. I mattoni consunti e sconnessi vacillano sotto i miei piedi. Vedo l’Arno che si snoda fra le colline benigne, il gomito di Girone, le fabbriche delle Sieci, la villa delle Falle col suo viale di cipressi atri che scendono ad abbeverarsi senza incurvarsi.

Rientro. Nell’ombra m’avviene di urtare un cembalo sconquassato che si lagna. Passo di soglia in soglia temendo che dagli architravi i busti di stucco mi cadano sul capo. Ma la mia malinconia è rimasta nella loggia, presa in quella trascolorata delizia del fregio murale.

«V’è in te una dolcezza che sa farmi soffrire, e una crudeltà che vorrebbe rendermi felice. V’è una beatitudine che invoca la morte, e un’ambascia che boccheggia verso la vita. V’è una ripugnanza che desidera, e un desiderio che ripugna. V’è un amore cementato dall’odio, e v’è un odio che trema sotto il carico dell’amore

Chi nella stanza cupa mi parla? Ho contro l’orecchio la conca marina?

Il dèmone della fuga m’abbranca, mi travolge. Il bosco dei pini stormendo mi punge. La piccola cappella sconsacrata è come un’occhiaia cava che atterrisca il giardino inselvatichito. Entro. Impongo le mani all’altare spoglio. Aspiro un sentore d’incenso che forse è il fiato vespertino della resina. Sopra l’arco dell’altare è scritto: Propter nos homines. Rabbrividisco. Mi volgo. Guardo. Ascolto. «Ti lascio con qualcuno che è bianco e alto contro tutto il tuo buio

Cammino alla ventura. L’oliveto m’è come un popolo afflitto e convulso. Lascio parlare l’anima agli olivi; ed essi la comprendono meglio ch’io non la comprenda. Io non colgo se non lembi di parole come nella procella intermessa. Il vespro s’infolta illune; ma vedo meglio ch’io non oda, guardo meglio ch’io non ascolti. Si fa sera. Qualcuno ricomincia a lottare con l’angelo. Non Giacobbe; ma qui, in prossimità delle cave, presso una gente di tagliapietre, lo scarpellatore del Crepuscolo, lo scarpellatore della Notte. Breve tempo lottò Giacobbe con quell’angelo notturno che, per non poterlo vincere, gli toccò la giuntura della coscia. Ma il Buonarroto lottò col suo angelo tutta la sua vita, da ogni tramonto a ogni mattino. E ogni volta anche a lui l’angelo diceva: «Lasciami andare, perciocché già spunta l’alba.» E ogni volta egli rispondeva: «Io non ti lascerò andare, che io non t’abbia riscolpito e che tu non m’abbi riscolpito, io te, tu me.»

E lotta ancóra. Per questi poggi, per questi boschi, per queste petraie lotta ancóra. L’ho veduto; lo vedo, piantato in terra que’ suoi piedi che con le unghie selvagge bucano il tomaio; e a ogni scrollo gli svolano le penne celesti intorno alla fronte contratta.

Se la lotta è arte, l’arte è lotta. Lo so. Mi piace di tanto soffrire. E, s’egli mi vedesse, mi amerebbe. Io lo vedo. Chiudo ancóra gli occhi. Mi soffermo ancóra. Mi serro contro un olivo scarnito e nervuto come il lottatore. Anso e soffro come lui. «Quale è il tuo nome? Dichiarami il tuo nome

Traudire, travedere sono gli indizii della mia infermità immortale.

«Nel tuo petto segreto accogli anime riarse dall’ardore della vita

Tremo del mio abbaglio. Alcuna figura biancheggia nell’ombra laggiù. E sono certo che vive. A ogni battito di cigli apprendo la sua vita, con la certezza di un’acqua che mi penetri fra le labbra e m’irrighi la gola. Non più mi tocca lo strazio depresso degli olivi. Una vena di tepore precoce passa per questa fine del freddo gennaio, e mi giunge alla cima del cuore come alcun segreto della primavera primamente confidato. Che veste è mai quella? Il lino non è tanto lieve, né mai lo vidi con tanta levità albicare di lontano. Certo è una tunica inconsutile, ma come quella dei fiori. È tenue; e divide in due parti la valle, divide in due azzurri la sera, divide in due melodie le campane che vanno modulando il riposo delle colline.

«T’ho veduto prima che la tua bianchezza separi per lo mezzo la notte

Contengo il timore e l’amore. Trattengo fra i cigli l’albore contro l’ombra che cresce. Non io conduco il mio passo, ma il passo mi conduce col ronzo sordo dell’ala notturna, per un declive di sogno crepuscolare. Sono una nota, due note, un accordo della musica infinita, una pausa dell’ave. Seguo il mio inganno e credo nella mia verità.

«Considerate i fiori come si schiudano. Non faticano già essi, non filano; ma vi dico che Salomone figlio di Davide con tutta la sua gloria non fu vestito al par dell’uno d’essi.»

Or chi parla? Non quegli vestito della veste bianca che gli diede per ischerno il tetrarca.

Eccomi già prono, già disteso, abbandonato sopra l’erba, con la gota nella gleba, a piè del primo albero in fiore.

Ora tutto quel che accade non accade se non tra l’albero e me, se non tra l’erba e me, se non tra me e la gleba.

Ho gli occhi per vedere, e vedo. Ho gli orecchi per udire, e odo.

Mi sento lieve come la cima nell’aria; mi sento profondo come la radice nel terreno.

Respiro non in me soltanto ma in tutte le creature; penso non in me soltanto ma in tutte le creature.

Mi sembra che la mia fronte tramandi intorno a sé un debole chiarore, come se il pensiero vi fosforeggiasse.

A quando a quando l’albero fiorito abbrivida e àlbica con qualcosa dell’increspatura che una bava di vento suscita nella calma del mare; ed ecco il pensiero nel mio capo, ecco il sangue nelle mie vene indefinite abbrividare albicare come in un principio di mutazione.

Mi muto? mi trasfiguro?

Certo, ora m’illumino. Gli aspetti di questa mia ansia gioiosa e penosa, ora li discopro. Questo smarrimento dei miei limiti ora m’è palese. Ora, mentre si placa, mentre langue, mentre si fredda, riconosco questa mia gran febbre: la febbre della mia genitura mentale, l’accensione e l’accelerazione del mio genio. Lo so: un nuovo dio mi feconda; sono in travaglio d’una nuova divinità. Lo so: come quest’albero è in fiore, il mio spirito è in fiore. Tremiamo entrambi al medesimo soffio. Il medesimo soffio commuove i petali immacolati e volge le pagine del vergine libro. Ho il libro vivente in me; sono il libro che vive. Qualcosa d’ideale e d’animale insieme altera la mia materia, modifica la mia forma. Forse indovino come si raccapricci la giuba del leone di Marco, che ha il libro tra le branche e contro il petto il libro.

L’arte si allontana? per far luogo a quale altra potenza? Chi dentro di me fissa una luce che io non vedo ancóra? Sono pien di fuoco e di gelo, coi piedi volti a occidente. Anch’io ho il libro fra le mie braccia, contro il mio petto, contro la mia gola. Mi trascino per un tratto nell’erba. I fili d’erba mi s’insinuano tra pagina e pagina, tra vena e vena, tra fibra e fibra. Giungo con la fronte il piede dell’albero; lo serro con le due mani; lo brandisco come seppi brandire il tirso. Torco gli occhi, a destra, a manca. Vedo. Perché ora tutti gli olivi intorno biancheggiano come la coorte biancovestita? Mi sforzo di sollevare verso la prima stella lo stendardo della coorte mosso dal fiato della sera.

A ogni soffio l’albero «alto e bianco» trema su me, freme su me, sogna che allega.

Nessun de’ suoi fiori cade.

La voce ripete: «E pure io vi dico che Salomone istesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito come l’un di loro.»

Non v’è una bellezza interiore, e una bellezza esteriore; non v’è una bellezza spirituale e una corporea. Ch’io «ignoro la differenza» mi piace mi sia detto da Federico Borromeo. Per me v’è una bellezza sola; e v’è un solo modo di crearla, così come io di continuo la creo di sopra a me medesimo, di da me medesimo, vivendo, respirando, ansando, consumandomi. Mi consumerò, perirò, in questa volontà di crearla oltre la vita, oltre la morte, contro la profanazione, contro l’adorazione. So quel che valgano, dinanzi alla eterna bellezza, questa fine della mia giornata, questo principio della mia notte. So con chi ero, so con chi sono. Lo so. E voglio rimanerci, dominando il mio sgomento. Del rischio ho fatto la mia arte, né altra arte mi piace; né da alcun’altra mi lascerò sedurre e ammollire mai.

Io non discaccio il mio dèmone, ma del mio dèmone posso fare il mio dio.

Mi alzo. Che di tutto il mio travaglio lirico non resti se non questa impronta del mio corpo nell’erba, che m’importa? È l’impronta di una statua veloce, escita dalla fornace, rientrata nella fornace.

Mi alzo. Levo la fronte. Figgo gli occhi innanzi. Mi pongo di contro alla figura di Gesù; che volge la faccia verso di me, non dal fondo oscurato di Iacopo ma dall’aria aperta, non sotto la specie della pittura muta ma sotto la specie dell’albero musico.

Bisogna che alfine io lo guardi a dentro. Bisogna che io nemico lo interpreti e lo riveli: che io lo interpreti per me solo, che io lo riveli a me solo. Bisogna che il Vangelo secondo l’Avversario mi conduca infine ad amarlo in me e ad amarmi in lui. Non lo vedrò grandeggiare se non lascerò grandeggiare il mio stesso dèmone. Non lo amerò se egli non si compirà nel silenzio e se io non andrò ad eguagliare il suo silenzio in fondo al deserto della sete. L’elogio del fiore senza fatica è la sua prima parola che mi tocchi. il silenzio del suo sacrifizio eroico è per consacrarmi al mio vero destino. Quale anima sarà sopra tutte salvata, se non la più coraggiosa? Quale sopra tutte sarà condannata, se non la più ignava? E, se non vige alcun dio quando si possa disobbedirgli, di quale ordine è il mio spirito a cui non posso io giammai disobbedire? Più d’una volta ho dormito nel tempio e più d’una volta ho vegliato nel tempio. Talora ho detto: «Io ti velo, perché t’amo.» Più spesso ho detto: «Io ti svelo, perché t’amo

Ecco. Son nato d’un uomo greco dell’Arcipelago e d’una donna aulentissima di Gerico l’aulente.

Il mio orgoglio sa che Alessandro il Macedone, attraversata la Siria nell’andare verso l’Egitto, espugnate le città forti di Tiro e di Gaza, volle visitare Gerusalemme ove fu onorato dal pontefice giudeo ed ebbe presagi di vittorie celebrando un sacrifizio nel tempio.

Conosco le strìe lasciate nella colonna della Legge dallo scarpello greco.

Discopro su gli anèmoni della Palestina in signoria d’Antioco Epifane le tracce del passo misurato di Pallade Atena favoreggiatrice dell’uomo.

Rimpiango il ginnasio costruito dal re e dal sacerdote, al modo degli Elleni; dove si esercitavano i giovani giudei nei giochi atletici, non temendo ignudi le impurità vietate, anzi tentando di celare per onta il segno del patto carnale, mentre i serventi istessi del tempio tralasciavano l’officio per correre alla palestra unti non dall’iddio.

Incontro per la prima volta il Maestro in un palmeto di Gerico, dove io sono intento a raggiungere i frutti che gravano la cima d’un palmizio troppo alto. Il luogo è solitario. Odo il passo leggero, e mi volgo. Gesù è forse nell’atto di sfuggire alla moltitudine accalcata, che già lontana romoreggia. Lo guardo. In verità, più dolce di tutti i palmeti più diletti alla tribù di Beniamino.

Io sono involto d’un pannolino sopra la carne ignuda; sono vestito d’un vestimento diafano, d’una sindone bianca e piegosa. «Chi sei?» egli mi chiede.

La sua voce quasi timida fa che una imaginazione subitanea rida nel mezzo della mia sollecitudine. D’una storia della sua puerizia, udita non so più dove, mal creduta, io foggio la mia imagine pronto.

«Iesus, Iason, ti ricordi che un giorno, con altri compagni di gioco, riescimmo a inerpicarci su per la muraglia fino allo sporto d’un oriuolo a sole che v’era disegnato in piano ritto a piombo verso mezzodì? Tre dei più arditi eravamo già sopra lo sporto di pietra. Tu toccavi col capo lo stilo di ferro, interrompendo la linea d’ombra che indicava l’ora. Un di noi diede all’altro una spinta repentina; e quegli barcollò, precipitò dall’alto, urtò il suolo, restò esanime. O Iesus, Iason, a te fu data la colpa, tu accusato fosti. E i parenti accorsi mettevano grandi strida, adirandosi, minacciando, lacrimando. E tu rimanevi tuttavia sopra lo sporto, percosso dalla linea dell’ombra e dell’ora. E il tuo padre e la tua madre sopraggiunsero anelando. E la tua madre ti chiese: – L’hai tu precipitato? È vero? Rispondi. – Non rispondesti. Scendesti giù dall’oriuolo, tacito come se la linea dell’ombra e dell’ora dallo gnomone si prolungasse in te fino a terra. Ti chinasti sul compagno morto, che più non dava crollo; e lo chiamasti per nome. – O Alcimos, Eliacim, t’ho io precipitato? – Il fanciullo si scosse, mosse le labbra, batté i cigli, si drizzò sul gomito; e rispose: – Non tu, Signore. – O Iesus, Iason, ero ben io quel fanciullo risuscitato che ti rese testimonianza. Alcimos Eliacim or sono io, dinanzi a te.»

Egli mi guarda e si tace. L’oro del sole cribrato dai palmizii tremola sopra noi. Mi pare egli preso nella mia finzione e nella mia tentazione come in una rete splendente. Io medesimo son preso nella insidia corusca.

«Non mi riconosci, e mi guati. Mi sovviene d’un altro giorno, quando la tua madre bellissima ti mandò con un orciuolo alla fonte per acqua. Ritornavi alla tua casa con l’orciuolo rempiuto; e un de’ tuoi compagni correndo ti urtò così forte che il vaso ti si ruppe. Allora ti togliesti il mantelletto, e nel cavo del panno raccogliesti tutta l’acqua sparsa; e così la portasti alla tua madre. Ben io ti vidi; ché t’avevo io scontrato nella mia corsa incauto

Egli mi guarda in silenzio. E mi sembra che la rete d’oro più si serri intorno a noi e più ripalpiti.

«Ho sete, Iesus, Iason. E non hai rivo d’acqua nelle pieghe del tuo mantello. Prima che tu giungessi, io m’affannavo a cogliere quei datteri difficili e tendevo l’orecchio a cogliere un susurro di sorgente. E sei venuto. E mi sovviene che, in terra d’Egitto, come la tua madre si riposava all’ombra d’un palmizio ricco di datteri, chiese al tuo padre che ne cogliesse. E questi si rammaricava che troppo fosse alto il fusto, e più si rammaricava che fossero omai vuoti gli otri. Allora tu comandasti al palmizio che si chinasse; e l’albero obbedì, e restò chino come a te piacque. E tu gli comandasti che con le sue radici trovasse alcuna vena d’acqua sotterra. E l’albero fece la nova obbedienza; e mai scaturigine più fresca rigò deserto più cocente. E dopo venne un angelo, e tolse un ramo, e s’involò per traspiantarlo negli orti di lassù. Esaudiscimi, Iason. Fa che il mio palmizio mi s’inchini, e che la sua radice mi disseti

Egli mi guarda, e tace. E qualcosa commuove le sue labbra, ch’io non so se sia un nascimento di sorriso o di parola. E io non so distinguere se in lui fermo tremi il bagliore del sole o la perplessità dell’anima.

«Esaudirmi non vuoi, figliuol d’uomo, figliuol di dio

Ora egli dice, socchiudendo i cigli: «Eliacim, non è questo il deserto, né tu hai digiunato quaranta giorni e quaranta notti come io già digiunai avanti che a me si accostasse il tentatore

Io dico, con un sùbito gelo nelle ossa come se la polla scoppiasse dentro me: «Non dunque tu rammemori i prodigi della tua infanzia, né riconosci il tuo risuscitato

Ora nel guatarmi egli aggrotta un poco gli occhi; e io vedo nella sua fronte quella croce che fanno i sopraccigli con la grande ruga diritta.

Egli dice: «E a te sovviene quale ora segnasse nell’oriuolo a sole la linea d’ombra passando su l’innocente capo che toccava lo stilo

Subitamente, senza esitanza, come se nel mezzo dell’anima mi sia fitto l’ago solare, rispondo: «L’ora nona, o Iesus, nel còmputo del popolo servile

E al tremolio del raggio cribrato si aggiunge uno stordimento come di rombo che salga dal mio polso alla mia tempia, come di confuso clamore che senza labbra e senza mani insorga dal profondo di me medesimo. Ma Gesù volge un poco il capo e l’òmero; tende l’orecchio in ascolto, non verso il mio petto tumultuato ma verso il limite del palmeto.

«Chi chiama il figliuolo di Davide

Ecco, al limite del palmeto appare la turba clamorosa. Tra i bei fusti eretti veggo formicolare gli uomini miseri in vesti del colore del fimo e del limo, la folta e stolta miseria tutt’occhi tutta bocche tutta mani. Odo l’implorazione della infelicità infigurata, odo la lamentazione dell’angoscia informe.

«Abbi pietà di noi, Signore!» Egli non ancor si volge intiero ai sopravvegnenti. Come il tremito della lucida rete s’abbassa alle sue spalle, declinando il sole, io scopro il tremito tremendo del suo spirito nella sua fronte e nel suo petto. Egli è come uno che smarrisca la sua virtù e la sua favola. Dice, guardandomi di da me, guardandomi oltre il mio vólto e oltre il mio cuore, mentre la sua ombra passa sotto i miei piedi combaciandosi con la mia dietro di me e la mia dietro di me prolunga la sua in una solitudine incognita indistinta: «Chi la vita, bisogna che accetti la morte

Sento su i miei occhi, che ora non vedono ma prevedono, l’ombra della morte che lo incorona. Sento alla cima dei miei pensieri l’orrore dell’infigurato, l’abominio dell’informe.

«Odimi. Adoro la vita che si perpetua nella morte. Adoro la morte che è la natività sovrana e onniveggente

Su la fronte di lui il vertice della croce più s’incide, più s’infosca. Ma sotto i sopraccigli i suoi occhi sono come i fuochi del pilota in vigilia.

Egli dice: «Or chi ti diede questo insegnamento

«Pàrvadi, la benamata della mia tristezza, la fiordaligi della mia palude

Or perché dunque la mia anima è tanto prossima al canto? E perché a un tratto il palmeto è precluso al clamore, e non v’è nel palmeto se non misurata pausa e aspettazione della melodia?

Si volge verso l’occaso il figliuol d’uomo, e cammina incontro agli uomini. Non m’ha detto che io lo seguitassi, e io l’ho seguitato.

Dietro di lui la sua ombra s’allunga, diritta come le ombre dei palmizii. E il mio passo è nella sua ombra e non mai mi fallisce. Fra tutte le palme invitte che dimorano, seguo la palma che invitta incede.

«Abbi pietà di noi, figlio di Davide

Gli imploranti sembrano pieni della lor propria polvere, prima di dissolversi; ma la lor polvere non brilla nel sole obliquo. Il guaritore s’arresta. E dalla turba tutt’occhi tutta bocche tutta mani si stacca un uomo cieco, e s’inginocchia; un mutolo, e s’inginocchia; un monco, e s’inginocchia.

La pausa nel clamore tetro, il tremito dell’anima escita dalla rete della tentazione mendace, l’ombra sovrapposta all’ombra come la dismisura del corpo alla dismisura dello spirito, la solitudine incognita indistinta, il limite cancellato nell’essere, il dèmone agguagliato al dio, il dio agguagliato all’uomo, l’odio inerme convertito in amore armato, l’anelito anelato in preludio di canto, tutti i segni del palmeto di Gerico continuano a prenunziare e tutte le figure a trasfigurarsi in me seguace e fugace, mendace e verace.

Ho in dispregio e in abominio i discepoli, duri e zotici, che non sanno comprenderloservirlo: quel Simone detto La Pietra e il suo fratello Andrea, e Giacomo di Zebedeo, e Matteo il publicano, e Simon Cananita, e tutti gli altri, anche Giovanni: più degli altri Giovanni. E conosco il segreto di Giuda; e lui solo cerco, e lui scruto, lui scavo, lui travaglio.

«Perché non parli a me piuttosto che ai tuoi servi? Come possono essi amarti, se non ti abbellano, obbedirti se non t’intendono? Io più ti orno e più t’intendo quanto più ti avverso. Disseparando le tue parole, io voglio ritrovare il tuo silenzio dove tu medesimo non lo cerchi» dico al guaritore.

«Conoscimi» gli dico. «Arde in me una lampada perpetua a quel che è divino, sento in me quel che è divino, assai più che s’io fossi vissuto dieci e dieci lustri nel tempio col marmo con l’avorio col cedro col bronzo con l’oro. Spesso io strido e fumigo come il tizzo immerso nell’acqua lustrale. Conoscimi. So come dal sangue si generi la rosa, come dalla lacrima si generi l’anemone. Di quel crasso loto è formato il tuo servil gentame! Conoscimi. Alla luce e al soffio io son lieve come l’anemone dell’alba, come l’anemone del mezzodì

Ogni sua parabola, mi vien fatto di prenderla spirante nella mia mano come un vaso d’argilla appena staccato dalla ruota e messo a seccare sopra la tavoletta. Rimpasto l’argilla arditamente, e la restituisco alla ruota, e la rilavoro con la più nobile arte sàmia, infondendole il ritmo col piede che sul perno sa la musica.

Ecco che ora egli termina la parabola del figliuol prodigo. E, come il verbo ha traversato la turba pei fóri dell’udito e s’è disperso al vento del deserto, intorno al guaritore s’accalcano gli infermi d’ogni luogo e lo pregano che possano sol toccare il lembo della sua vesta.

In disparte, ho già rimpastato e rimodellato l’argilla sapida, per pochi incirconcisi vani; e della creta che m’avanza formo due colombe, a similitudine di quelle votive che Carmi chiese a Beerseba e immerse nel bacino del profumo.

«Iesus, Iasondico al figliuol d’uomo figliuolo di dio che nel ritrarsi passa accompagnato da Didimo, da Giuda e da Filippo «tanti prodigi fai per costoro e non un solo vuoi tu fare per me? Hai sanato il famiglio paralitico del centurione in Cafarnao, se pur ne sei certo; cacciato hai la legione dei dèmoni dall’ossesso nella contrada di Gadara, se n’hai certezza piena; nettato i dieci uomini lebbrosi di Samaria, e mondato tanta altra gente immonda, se ferma certezza n’hai; e ancor ti nieghi di esaltare la grazia d’un’anima intesa a darsi perfezione in terra? Oggi è sabato. E ti sovviene che giorno di sabato era quando fanciullo tu foggiasti dodici rondini col limo? Accadde che un viandante giudeo di passasse e scorgesse la tua opera puerile, o formatore. E sùbito garrì e rimbrottò la tua madre per aver tu fatto ciò che non è lecito in giorno di sabato. E il tuo padre si mise a riprender te. E tu, battendo le mani a palme, gridasti alle rondini di creta che si levassero a volo. E quelle di sùbito si frullarono e involarono, con maraviglia somma degli astanti. Non ti sovviene, legge sopra la legge, luce sopra la luce? Or tu rinnovami il prodigio su queste due colombe fìttili ch’io formai secondando un rito e un sogno del figliuol prodigo. Con un batter di palme, o signore del sabato, fa che si partano a volo e vadano a posarsi su l’altare per l’offerta della sera

Sospinto dai suoi discepoli egli senza rispondere procede al suo cammino verso il tempio.

«Or temi dunque di violare la legge, signore del sabato?» gli grido alle spalle, mentre egli fa l’atto di velarsi il vólto con un lembo della manica. «Meglio ami esser tentato nel tempio dai dottori della legge? meglio ami che lo scriba in veste lunga ti chieda per obliquo un segno del cielo? meglio ami che il levita scalzo dalla tunica di lino, simulando d’esser giusto, osservi le tue labbra per soprapprenderti in parole? Ma io ti seguo, o Iesus, Iason. Io queste due colombe d’argilla m’ardisco recarle fino alla Corte dei Gentili, dove vociferano i mercanti di vittime, dove schiamazzano i cambiatori e i compratori, dove la tortora è presso al becco, dove l’incenso è presso alla farina. E lor darà le penne vive lo sbigottimento dello strepito; e le vedrò sbattere l’ali contro il tetto di cedro. E non vi sarà in me timor servile. Sfrontato io sono come il tentatore del deserto innanzi il digiunatore del deserto. Vai verso il tempio? Or si tien consiglio contro te, per metterti le mani addosso, figliuol d’uomo, per abbatterti e per ucciderti, figliuol di dio. Tu vai al tempio male illuminato; e la morte vien davanti a te per illuminare il tuo cielo. Ora ti scorgono da lungi e, come i fratelli di Giuseppe in Dortain, dicono l’uno all’altro: – Ecco quel de’ sogni s’avanza; ecco il sognatore viene. Uccidiamolo. – Così mormorano. T’annunzio l’ora di porpora, o Iesus, per quell’idria di porfido ove alle nozze convertisti l’acqua pura in vino mero. Odimi. Tutto esce dall’uomo, e in lui ritorna. Tutto quel che è creato è perituro. Nulla di ciò che è veramente vivo può essere insegnato. Odimi. Sol vale all’uomo non cessar di combattere. E tu non desistere, o Iesus, non desistere

La mia voce è rapita dal vento d’ostro; che sibila e rugghia, e sembra sparpagliare pel vespro il sangue di tutti i facitori dei destini, dal sangue di Abele ucciso nel dritto solco infino al sangue di Zaccaria ucciso fra il tempio e l’altare. Gli indovinamenti del mio cuore m’inebriano, come se Pàrvadi m’avesse data a bevere una coppa del suo beveraggio indo. Con non so che ebrietà, vedo il figliuol d’uomo abbassare la manica di sul vólto, alzare il capo, squassare il crine, raddrizzarsi su i talloni, come nel palmeto di Gerico rassomigliare la palma che invitta incede; poi con un gesto imperioso respingere i settatori, allontanarli da sé, farsi più alto nel rimaner solo; infine entrar solo nel tempio vampeggiante fumante clamante. «Or io ti svelo, perché t’amo.» L’ignudo mio coraggio gli fa l’offerta della sera. Nella creta sensibile che m’empie le due pugna, sento rimorire le due colombe di Beerseba.

Ora non posso più abbandonarlo. I Dodici non son più nulla per lui; gli Undici non son più nulla per lui. Egli è solo, senza onniveggenza, senza onnipotenza, senza incanti, senza prodigi, solo con la sua midolla di eroe nel suo fragile ossame, solo con la severa sua immortalità nel suo corpo morituro. E solo io sono il suo seguace avvinto alla sua ombra, solo il suo discepolo temerario senza nome e senza voce, il giovine dalla sindone, vestito di lino sopra la carne ignuda.

Ora la morte, meglio che Pallade, mi appare favoreggiatrice dell’uomo.

Ecco che l’ombra della morte è venuta sul figlio dell’uomo subitamente, come il nuvolo su i monti di Moab alla fine della state.

L’anima gli si turba come la piscina di Betesda quando l’angelo improvviso agita l’acqua col fremito della sua bellezza e tutta la moltitudine degli infermi fa di sé una sola piaga anelando dai cinque portici.

Come al limite del palmeto di Gerico il cieco nato di Timeo, ciascun dei miseri grida verso lui: «Gesù, figliuol di Davide, abbi pietà di me!»

Hanno eglino le vesti del colore del fimo e del limo. Sembran pieni delle lor proprie ceneri, già prima di dissolversi nei lor sepolcri. E, come la donna cananea su i confini di Tiro, ciascun grida verso lui: «Figliuolo di Davide, abbi misericordia di me!»

Hanno veduto entro la stessa chiostra in giorno di sabato l’uomo infermo da trent’otto anni essere sanato, togliere il suo letticello e camminare. Veramente hanno essi veduto quel Gamul di Emmaus, quegli invano quivi per anni invecchiato in attendere il turbamento dell’acqua? Certo lo hanno essi udito rispondere alla dimanda miracolosa: «Io non ho alcuno che mi metta nella piscina quando l’acqua s’intorbida. Ogni volta, un altro vi scende prima di me.»

Or i più miseri gridando ripetono: «Signore, io non ho alcuno. Maestro, io non ho alcuno. Figliuol di Davide, e io non ho alcuno.»

Più d’ogni altro è iterato il lor grido; e trapassa il cuore di colui che ha promesso ai più miseri il retaggio della terra, il regno dei cieli. Non case, non fratelli, non sorelle, non padre, non madre, non figliuoli, non possessioni eglino hanno ma i loro mali, i loro cenci, il giaciglio del lor dolore, il soffio per chiamare e per attendere. «Non ho alcuno.»

Scingono, schiudono, respingono da sé le vesti del colore della feccia e della melma, le fasce, le bende, i sudarii.

E l’orrore della carne infetta è quivi rivelato, come l’attorcimento delle radici, come lo screzio delle pietre torpide, come le crepe del suolo riarso.

E il clamor del lebbroso esce dall’ulcera che delle nari e delle labbra fa una sola fauce, sotto le falde della neve terribile ond’egli è coperto.

E il cieco, nel vento di quell’ambascia, sente i suoi occhi spenti divenire come i fuochi dei piloti in notte di fortuna, come in notte chiusa i fuochi accesi su le torri dei porti.

E il mutolo grida con gli occhi, chiede con l’anima in mano, ode con l’osso del capo.

E tutta la carne è in castigo dinanzi a colui che porta la testimonianza della beatitudine eterna. «Non ho alcuno.»

Tutti sono soli; sono un dolore deforme, un’angoscia deserta, dinanzi al figlio dell’uomo; perché si adempia ciò che fu detto dal profeta Isaia, perché egli prenda sopra di sé le loro infermità e le loro infezioni.

Sono soli, sono simili a Gamul. A simiglianza di lui, hanno moltiplicato gli anni dell’attesa, hanno invecchiato e spossato la speranza.

Quanti assisteva gente cognata o consanguinea, l’hanno respinta come han respinto le bende, e disconosciuta, e in oblio sepolta. «Chi è mia madre? chi sono i miei fratelli

Or quella gente lacrima in disparte, col lembo del manto sul pianto.

E la moltitudine dei morbi non ha se non una parola e una voce, al cospetto del possente che non può. «Signore, Signore, non ho alcuno. Sanasti Gamul, sana anche me. Se tu vuoi, tu puoi.»

E, come l’angosciato alla colonna piega la fronte e cela tra le palme quella croce che fanno i sopraccigli con la grande ruga diritta, a un tratto per tutta la chiostra de’ guai succede alto silenzio.

Ed egli è come uno che smarrisca la sua virtù e dimentichi il suo proprio nome, né sappia se la stella del suo cielo rechi il giorno o la notte.

Or nel silenzio chi regna se non il più silenzioso?

Cessato il grido, una presenza inevitabile domina ogni altro dominio. Il cadavere dell’uomo idropico è nell’acqua, presso lo scalino di pietra. È nella piscina contaminata; e anch’esso è solo, anch’esso non ha alcuno.

Ma pesa come un peso che scrollato si rincalchi, urge come il carico di ognuno, come se ognun lo sopporti con l’òmero o con la cervice, pari alla soma del peccato, pari al giogo della morte.

Preclusa è la salute. Il lavacro salutifero è divenuto impuro.

Precipitandosi Eliasib figliuolo di Adaia per entrar primo, al segno del turbamento, è quivi traboccato senza risollevarsi, è spirato quivi.

Ecco, tra la pietra e l’acqua supino galla, gonfio come un otre fatto d’una pelle di bue, con invetrito l’occhio nel viso esiguo come una foglia arida, con aperto il labbro dalla sete non estinta in eterno.

Ecco, lo fascia l’ombra d’una nuvola.

«O figliuol d’uomo, figliuolo di dio, risùscitalogrida una voce d’uomo nel silenzio. «Chiama Eliasib! Chiamalo

Il figliuol d’uomo non può risuscitarlo. Colui che è per morire non può risuscitare colui che è morto. Né vuol chiamarlo invano. Tace, immoto in un silenzio insuperabile come il silenzio dell’enfia spoglia tra la pietra e l’acqua.

È solo. Tutti sono soli.

«Il mio padre non trarrà i miei piedi dalla rete che mi è tesa di nascosto?» Egli soffre, negli indovinamenti del mio cuore, soffre per lo sforzo di conoscere il suo fine, di conoscere qual sia il termine de’ suoi . «Padre, contendi con quelli che contendono meco, guerreggia con quelli che meco guerreggiano. Non nascondere il tuo vólto da me.»

È solo; deve essere solo. Come l’odio sboccato a un tratto dalla sentina del tempio ha levato pietre per gittargliele contro, egli si sottrae, s’allontana, si rifugia nel monte degli Olivi, si radica nel monte del suo cruccio. È solo; deve esser solo. Non lo seguo. Il suo dolore s’inarca meco da oriente a occidente. Il mio ultimo sogno è su la collina di Acra.

«Ho veduto uomini solitarii sorridere al dolore sopra uno strame di rovi, in un giaciglio di tizzi, in un covile di brace; e ho divinato ch’essi ascoltavano il dolore favellare del dio, rivelare la bellezza sempiterna

Mi parla Pàrvadi, nella piccola casa della contrada di Acra, dove la sua grazia è rinchiusa come la grazia della ibi nella gabbia di papiro. Ed ecco, sorrido di quei che si credono sapere i termini della terra, di quei che pretendono sapere le misure del tempo. E sordo io sono del mio tumulto, echeggiante della mia plenitudine, simile alla conca marina, pieno di lontananze e di evi, pieno di figure e di enimmi, pieno di orizzonti e di laberinti.

Chi pur ieri su la riva del Giordano, al limite del deserto di Giuda, in quella valle solinga, folta di tamerici e di salci, aspergeva d’acqua le sue spalle scarne?

E da quale profondità degli anni scende alla riva del Gange quel redentore per aspergersi, e per purificare la sua spoglia mortale dai segni tetri della troppo dura lotta, e per inginocchiarsi, e per fisare il cielo, e per invocar la morte, e per morir saettato, e per esser sospeso all’albero dagli uccisori iniqui e offerto in pasto agli avoltoi lugubri?

Dice Pàrvadi: «O tu, acqua consacrata dai cinque aromi e dalla preghiera, se dal mare, se dal fiume, se dal rivo, se dalla palude, se dalla cisterna vieni, sei pura e mi purifichi, o tu, essenza del sacrifizio, origine della libertà

Dal paese di lungi ella ha recato un poco d’acqua del suo Gange, in una idria cerulea; e per conservarla v’ha infuso il sale e i profumi.

E in un oricanno fosco di stretta bocca ha recato alcun sorso di quel beveraggio che suscita il delirio e ispira gli oracoli e infonde la divina dimenticanza nelle vergini addette al santuario.

E seco ha recato il suo gelsomino, che fulge come i suoi denti e aulisce come i suoi sospiri; e l’ha traspiantato nel piccolo verziere d’Acra; e l’ha sposato al sicòmoro di bella buccia, che è frequente in Gerusalemme e da taluni è interpretato albero della santa pazienza e da altri albero della santa demenza.

Dice Pàrvadi: «Luce del mio verziere, distogli dal sicòmoro un de’ tuoi rami, il più flessibile, e allacciami come un tempo m’allacciavi

Ella era un tempo addetta al servigio del santuario nel pagode; e nutriva il fuoco santo, e danzava innanzi al santo carro, e profetava ebra inebriando i mendichi e gli infimi.

Ella sa come quest’ansia del divino, ella sa come questo furore di perdizione e questo ardore di salvazione, ella sa come questa brama di sacrifizio e di rinnovellamento travagliassero la sua terra profonda, la sua schiatta penosa, ben innanzi che il pastore d’Egitto, ben innanzi che il pastore di Giudea guidasse il primo gregge, ben innanzi che la figlia del Faraone rinvenisse nella giuncaia la cestella, ben innanzi che Tebe di sette porte e Tebe di cento porte e Atene della Vittoria senza penne e Roma degli archi trionfali e Babilonia delle mura frali fosser fondate da semiddii e da re.

«Dimmi, Pàrvadi: s’ode tuttora lungh’esso il tuo Gange il pianto di Alessandro? V’è tuttora laggiù quella gente umile e povera che non voleva nulla possedere, che soleva scavar le fosse de’ suoi morti alla soglia delle sue case e ne aveva assidua cura e le ornava e le pregava all’ombra del suo dio

Dice Pàrvadi: «Credo che s’oda tuttora il re di quella gente rispondere al Bicorne: – Le sepolture son le nostre porte, sono le soglie della vita vera, i limiti dell’ombra e della luce. – Credo che s’oda rispondere al Bicorne: – Povertà ci conduce nella via che va più oltre e va sempre più alto, dove la tua ansia non può giungere. – Credo che s’oda rispondere al Bicorne: – Tu ti stupisci, Iskender. Le delizie del mondo t’hanno saziato? Sei tu sazio? A qual di questi ignudi teschi il teschio tuo somiglierà, Iskender? – Il Bicorne lo stringe fra le braccia e gli offre: – Vieni. Siimi compagno. Partisci meco il regno, e tutti i beni della mia gloria immensa. – E quegli dice: – Mi basta il bene che la mia preghiera dona al mio cuore umile. Ti piango. – Allora il Grande piange un grande pianto

Io penso al monte degli Olivi che par lontano come il più lontano vertice dei secoli, come il monte dei Musici rapiti. Non v’è più l’ora presente, non v’è più l’ora futura. Il mio spirito è il cenacolo dei saggi convenuti dal fondo della mia memoria. E, se bene io non pianga, so esservi nell’universo un pianto ove s’aduna più gran dolore di quello espresso da colui che piange. E m’appare Alessandro dalla testa inclinata su l’òmero sinistro, dalla chioma leonina, dall’umido sguardo.

E qualcosa m’addolcisce, ch’io non so. E i pensieri, che mi vengono dagli spazii del mondo e dai tempi del mondo, or mi sono come i sandali allacciati e dislacciati ai piedi della donna che le ricordanze affaticano. E chiedo al profondo di me se la luce nel vólto di tutti gli uomini sia per esser menomata o aumentata.

«Pàrvadi, i tuoi capelli non rabbrividiscono d’un vento che soffia lontano? la tua fronte non ti duole d’un serto che non la cinge? Or che sogno tu sogni? e che sogno tu sognavi

Dice Pàrvadi: «Sognavo che alcuno avesse annodato i miei piedi con la corda dell’arco e che tuttavia mi forzasse di danzare. Sognavo che alcuno m’avesse cucito le labbra con un filo vermiglio, intriso nel sangue, e che tuttavia mi forzasse di cantare

Avido di quel che invisibile è in lei, le chiedo: «E che pensiero tu pensi

Dice Pàrvadi: «Penso quel nostro santo che pigliava leonesse da mungere, e le mungeva, e poi faceva quel latte magnanimo rapprendere, e lo formava tra i giunchi per nutrirne i poveri

«E che altro pensiero tu pensi

«Penso a quello specchio che io portavo appeso dietro la mia schiena per due liste girate intorno agli òmeri, quando servivo nel pagode, affinché l’imagine divina potesse dinanzi a sé considerare il fervore della moltitudine seguitante. E il mio passo era simile al passo di colei che non disgiunge le ginocchia e non fa rumore incedendoondeggia. Tal era perché lo specchio fosse fedele, perché non mai turbata fosse la sua fedeltà

È bella come son belli gli occhi prima che la prima lacrima ne sgorghi, tutta bella come la tristezza vespertina prima che la stilla d’Espero ne sgorghi.

«O fiore del loto, o fiordaligi della mia palude, come puoi tu dunque fendere il mio bronzo col filo d’una foglia così tenue

La mia ansia par si disciolga in canto non modulato.

«Asia, Asia, tu che porti le ceneri dei tempi come semenze innumerabili, tu che in te serbi tutte le paure e tutte le speranze della vita, tu che sul tuo segreto abbassi le tue palpebre dorate, né alcun ferro d’oppressore potrà mai dissigillarle

La vita dei secoli si sveglia e anela: in un’anima di aspettante? in una gola di amante? Il flutto decumano della vita, il più impetuoso e il più vasto, mi giunge, mi sommerge, mi sormonta, mi rompe. Che mai può nascere dove una grande onda spira?

«O Pàrvadi, mescolato ho il mio cuore con le musiche del mare: non del mare che bagna Sodoma ed Engaddi, ma del mare che bagna Delo e Lesbo. Amo la vita

Dice la donna: «Amala. E quanto più ella è crudele, e più amala. L’amore è dolce; e pur la più malvagia parte è dolce quant’altra cosa mai, fuorché quella morte che consacra le speranze dei viventi, quella che fa la luce, e la mano d’alcun uomo non ha possa d’intertener tal luce un’ora di più.»

Forse l’amo. Ricca ella è di nuovi raggi e di antichi aromi. E l’una delle mie anime, che l’ama, è tre volte dolente: d’essere immortale, d’essere insonne, d’esser senza pianto. E mi sembra che in me una voce si lagni così: «O dio, foss’io soltanto uomo; e foss’io pago dell’ombra accolta nella mia carne, foss’io serrato nell’oscurità delle viscere e dei precordii; e non avess’io da te rivendicato il diritto di promettere

Pàrvadi s’appressa. Ma tende all’improvviso la fiala del suo filtro di demenza. «Torbido sei e triste. Bevine qualche stilla; e dimentica tutto, fuorché la benamata della tua tristezza. Niuno spirito è forte come lo spirito della primavera. Lascia che col margine della foglia di loto io fenda il tuo bronzo fulvo. E amami. Ti supplico, pel prodigio segreto che la rondine compie sotto la mia gronda

Respingo la sua fiala; prendo la sua bocca.

E intorno a noi sono le cose miti, intorno a noi le delizie che non saziano. Ecco i sandali dalla suola sottile come il pampano. Ecco il cofano che serba i suoi lisci i suoi unguenti i suoi collirii. Ecco la torcia composta con la midolla della canna e involta nella tunica di cera. Ecco il flauto e la sua custodia di legno odorifero. Ecco la bisaccia che contiene le sorte delle semenze pel verziere. Ecco i crotali di bossolo sonoro. Ecco i bossoli delle spezie e dei profumi. Ecco la spola mattutina che si sveglia e garrisce con la rondine. Ecco quel velo che la vergine del santuario una notte trovò sospeso ai rami del cedro, e le parve che in candore argentino vincesse la pienezza della luna.

«Vieni a sederti nell’ombra del sicòmoro

Per escir meco nel verziere, ella ha scelto le due più belle vesti: la sua veste di danzatrice sacra, che sembra aver ritenuto nelle sue pieghe il movimento misterioso imitante le vicissitudini degli astri; e la sua veste di cantatrice sacra, ove sembra perduri il soffio della invocazione. «Fuoco, che esprimi dall’offerta il profumo; che torci il ferro come vimine; che divampi nel delirio di chi danza, e nelle vene della gazella inseguita, e nelle braccia forti che s’annodano

Ella è tra le mie braccia, all’ombra del sicòmoro avvinto dal gelsomino. E, per un attimo, mi balena l’imagine di quell’uomo ricco e rattratto, di quel capo dei publicani Zaccheo, che in Gerico salì sopra il sicòmoro per vedere il passaggio di Gesù. Il fogliame a quando a quando tremola e sospira su l’oblio che mi tiene.

Pàrvadi in sogno spezza la corda dell’arco che le annodava i malleoli; e non per danzare. Spezza il filo vermiglio che le cuciva le labbra; e non per cantare. E le due vesti seguono il suo sogno.

Il sole cala verso quell’isola nutrice di colombe ove Lyde trasse il figliuol prodigo. Di dalla cinta, rossica il fastigio della Porta giudiziaria. Belle ombre nericanti solcano la bragia tormentosa del Golgota. La piccola casa di mattone, la gabbia di papiro per la mia ibi, sembra si dissangui e si rapprenda in grumi. Non s’ode se non il rombo di due cuori perduti, il bombo di due api disperse.

Di sùbito, Pàrvadi sussulta; mette un grido più roco d’un singhiozzo, si ritrae, si contrae; tenta avvolgersi in sé, ristringersi in sé stessa, tutta ambrata dal vespero e dal pudore; perché ora s’avvede che le manca pur la terza delle sue vesti: l’ombra del sicòmoro.

È notte. Il cenacolo è abbandonato, con le finestre aperte verso la valle del Chedron. Su la mensa tuttavia sono sparsi i pani azzimi, le erbe amare, i calici bevuti e non bevuti, gli ossi dell’agnello pasquale, gli ossi dei frutti conci; e v’è tuttavia il segno dei gomiti ignavi attorno, v’è quasi l’afa dei pusillanimi, v’è l’impronta dei grevi sacchi adagiati, v’è il pesame dell’epa, il buiore della fauce, il lentore del masticamento.

Indago, cerco, quasi famelico, quasi cane furtivo. Non esito; non m’inganno. Ben per le finestre aperte spiavo mentre essi cenavano. Trovo nella scodella spezzata il cantuccio di pane intinto. Trovo un briciolo di quello che ha benedetto il morituro, ed è il suo corpo. Trovo in una coppa un fondiglio di quel vino che è il suo sangue. Prendo e mangio. Prendo e bevo.

Esco. Scendo verso il Chedron. Nella corsa la mia sindone è un’ala gonfia di ansia. Nell’orto mi celo. Sono il più doloroso degli olivi abbarbicati al suolo avaro, dove i discepoli pasciuti di pasqua ronfano. Patisco col solitario. Le gocciole della sua fronte colano su la mia gota; i grumoli del suo disperato sudore mi si struggono in bocca.

Più orrida e più miseranda è la notte quando i dormienti si destano. La mia sindone vuota e lacera nelle mani degli armati testimonia più fieramente che il lor balbettìo tetro. Il gran silenzio ignudo mi lega alla grande vittima, come le stille e i grumi del suo sudore.

Il figliuol d’uomo non parla più. Guarda, e non parla. Sopporta, e non parla. Serra le labbra contuse, le labbra fendute; e non parla.

Non è vero ch’egli vacilli, ch’egli si sbianchi, ch’egli s’incurvi fino a terra, sotto il peso della croce. Non è vero che un uomo di Cirene, un certo Simone di Libia, allevii l’eroe, prenda il legno su la sua spalla servile. Non è vero che Giovanni gli si accosti, che il discepolo femineo conduca il coro delle femmine piangenti.

Egli passa davanti alla casa di Acra, davanti alla casa di cotto, al verziere del sicòmoro. Perdutamente la donna esce, si spinge fino a lui, gli asciuga il sudore e il sangue col velo del cedro di Madura, gli offre l’oricanno del filtro. Egli scuote il capo, torce la bocca. Va innanzi per l’erta. Non parla.

S’egli parlasse e se la sua voce fosse pari all’immensità e alla terribilità della sua agonia, gli uomini si abbatterebbero nella polvere, e crollerebbe il tempio, crollerebbero le prigioni i palagi dei Maccabei e di Erode la torre di Siloe la tomba di Davide, si scoperchierebbero tutti i sepolcri.

Non parla. Non è vero ch’egli dica: «Padre, perdona loro.» Non è vero ch’egli si volga al ladrone e gli risponda. Non è vero ch’egli confidi la madre al discepolo imbelle. Non è vero ch’egli chieda da bere, ch’egli si lasci sopraffare dalla febbre sitibonda; né è vero che l’ambascia del Frantoio gli ritorni e gli strappi il grido dubitoso; né è vero che in una sesta e in una settima parola s’angustii, il suo grande anelito, il suo grande ultimo respiro, esalato a superare i confini dei deserti e dei pelaghi e dei firmamenti e delle età. Alcuna delle sette parole non è proferita, non è udita. Solo il silenzio, tutto il silenzio che dalle origini dell’uomo alla perfezione dell’uomo s’incarna sopra la magnanimità del sacrifizio, solo il silenzio è pari al Mediatore. L’attesto.

E i soldati di Roma, più abominevoli dei servi giudei, guatano il Mediatore crocifisso con i tardi occhi bovini di quei legionarii che avean combattuto al comando di Pompeo i pirati cilicii e avean trafugato fino al Tevere marzio il simulacro di Mithra, casto genio della luce d’oriente.

Un d’essi, sordido e irsuto come capro, gli sfonda il costato col ferro dell’asta.

Sento su me il getto del sangue e del siero. Una forza subitanea mi sale dal macigno del Golgota ove poggio le calcagna tristi, disperato di non avere ali. Atterro il bruto, lo calpesto, gli strappo l’asta dal pugno. Tra il buio e gli sbattimenti delle fiaccole mi perdo.

Il ferro di quell’asta è la prima foglia del mio lauro avvenire.

O vigilia d’arme e d’anima nella piccola casa di Acra, nella casa di mattone rossigna come il sangue accagliato, ma ospitale alla rondine attica, io di te taccio. Sotto silenzio io ti trapasso, o mia grande ora antelucana che congiungi il cielo stellato alla terra scissa e dell’eroico mio dolore fai un giubilo celeste in terra.

Nell’ombra Pàrvadi rattiene la sua vita; si allevia, si cancella, si fa spirabile, aerosa, come quando recava lo specchio fedele precedendo l’imagine divina. E ha nella sua mano la sua foglia di loto; e sopra il suo ginocchio riposa il margine della foglia, che per amore avea fenduto il mio bronzo composto di tre metalli occulti.

Siamo nell’ombra, senza parlarci, senza toccarci. Davanti a noi, sospeso, è il velo del cedro di Madura, con le tracce del vólto rasciugato. Entrambi siamo fissi nell’albore.

Sul ginocchio di Pàrvadi la foglia trema, seguendo il tremito del velo dove l’amore sembra risuscitare il vólto. Ed entrambi ora palpitiamo d’un palpito che non è dei nostri cuori disgiunti ma d’un altro cuore. Nella chiusa stanza il velo fa l’alba? «Ei solleva le sue palpebre; e il mondo s’illustra, e il giorno si separa dalla notte, e ogni creatura si fa spirito

Sorgo. Rattiene la sua vita nell’ombra la donna dei misteri e dei delirii. Non v’è tra noi commiato, non v’è pianto. Rimane sul suo ginocchio la foglia trepida del loto. La foglia cruenta del lauro in cima all’asta romana viene meco.

Varco la soglia, rientro nella notte. Sopra Gerusalemme non è ancor l’alba. Mi risale pei calcagni al petto quella forza del Golgota, che non anche si cangia in ala infaticabile ma mi trasporta in corsa e in ansia al remoto e all’ignoto. Per qual via? Per quella che aperse già negli spaventi e nelle stragi e nelle rapine agli schiavi ribelli il legislatore illegittimo dalla fronte d’ariete balenante di frodi sacerdotali?

Esco dalla città che sanguina e che fete. Cammino ad austro verso il deserto, tra i monti di Giuda e il Mar morto, verso l’Idumea, verso le arene di Sur, verso un luogo dove la mutazione non sia congiunta al patimento, verso un luogo dove di macigno squadrato in macigno squadrato e commesso gli uomini salgano verso il dio e il dio discenda verso gli uomini.

Cammino, nella notte, nell’alba, nell’aurora, nel meriggio. Non mi soffermo. Conobbi già una Vittoria ansante che si soffermava per riallacciare il suo sandalo al suo malleolo umiliando le sue penne.

Vinco la sete; sono despota della mia sete; della mia sete non muoiomorir posso. Cerco la mia sorgente; non beverò se non alla mia sorgente. Non in Horeb è la mia rupe, non in Horeb dove la turba ulula. Non con la verga percoterò la mia rupe; ma con questa lancia che mi scotta nella man serrata, con questa che m’incuoce la mia palma incisa di tanti segni fatali.

E il ferro di questa lancia non è dunque la prima foglia del mio lauro avvenire?



«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL