Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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TRE PARABOLE DEL BELLISSIMO NEMICO

II LA PARABOLA DEL FIGLIUOL PRODIGO

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II
LA PARABOLA DEL FIGLIUOL PRODIGO

dissipavit substantiam

suam, profuse vivendo.

luc. xv, 13

Un uomo aveva due figliuoli. I quali si nomavano Elihu e Carmi; e vivevano entrambi nella casa del padre, levandosi la lor giovinezza eccellente come i cedri presso le soglie sicure. E, mentre il maggiore a fianco del padre noverava le sacca del grano, il più giovane insidiava le piccole volpi che guastano le vigne fiorite. E, mentre quegli a fianco del padre noverava le mine prodotte dal traffico, questi spiava le donne mercenarie che riponevan nei vaselli il miele il nardo e il croco accompagnando col riso e col canto il lavoro odorato.

Venivano i debitori del padre portando bati d’olio, cori di frumento, in gran numero; e il giovane Carmi, assiso su la più alta loggia, dopo aver considerato quella dovizia che adunavasi nei granai vasti e nelle cisterne profonde, mirava la potenza del fiume che spandevasi per la valle distribuendo la copia delle acque alle terre felici.

Ed amava il fiume parendogli che secondasse il suo desiderio e gli promettesse paesi più belli; e vedeva nel suo pensiero tutta quella adunazione inerte di beni, fatta viva, propagarsi per quella via liquida fino alle città lontane e convertirsi quivi in ogni sorta di allegrezze.

Allora discendeva nei giardini; e, avendo tessuto ghirlande dei più freschi fiori, andava ad adornarne le cisterne colme e i granai pieni, forse per segno del suo pensiero voluttuoso.

Dissegli un giorno Elihu, il fratello, cogliendolo in quell’atto singolare:

O Carmi, perché fai tu questo?

E Carmi, che aveva conosciuto la grazia nel linguaggio di taluni mercatanti loquaci, i quali veneravano un dio chiamato Ermes, rispose e disse:

Perché il frutto non ti faccia dimenticare il fiore, o Elihu. Quando sei nei campi, ricòrdati dei giardini.

Ed Elihu, adiratosi, disse:

Tu non altro sai, o Carmi, che oziare per le logge e pei giardini mentre io servo il padre. Io ho vigilato i lavoratori e noverato i bati d’olio e i cori di fromento a uno a uno. Tu hai scelto le rose.

E Carmi, che aveva appreso la grazia da quegli stranieri, disse:

Perché t’adiri? Non vedi tu come per la mia arte l’abondanza ti sorrida?

E le porte, robuste e rudi come quelle delle prigioni, inghirlandate, sorridevano tuttavia, parendo da quei cerchi floridi fosse per versarsi la ricchezza accolta, come dagli occhi si versa l’intima gioia.

Or avvenne che una donna, fuggitasi da una nave giunta per la via del fiume, riparasse alla casa doviziosa e, avendo ottenuto di rimaner quivi tra le mercenarie addette a conservare il miele e gli unguenti nei vaselli, fosse vista da Carmi nella stanza del soave odore.

Quale è la regina fra le api, tale sembrò ella fra il numero delle lavoratrici. E come le api avean rempiuto i favi accompagnando la lor fatica col murmure, or così quelle rempievano i vaselli cantando in coro per non cedere alla voluttà dei profumi ond’elle si sentivan prese come da un lene sonno. E nella pienezza delle voci la straniera operando movevasi con tal misura che pareva danzasse una danza studiata. E gli occhi di Carmi ne avean tal diletto che niuna cosa da quel stimarono più desiderabile; e videro l’imagine delle belle membra nel palpitar delle fonti, nel piegar degli steli, nell’ondeggiar dei velarii.

Ella chiamavasi Lyde, nata in un’isola nutrice di colombe. I suoi capelli erano così biondi che Carmi da prima illuso credette le colasse lungo le gote quel miele istesso onde ella avea le dita intrise operando; e le api istesse patirono l’inganno. I suoi occhi erano come l’aria cerulea che tremola di mezzogiorno nella gran calura. Le sue labbra ardevano nel suo respiro come due bacche di mirto in una fiamma tacita.

Una sera ella venne al desiderio di Carmi, presso un roseto intatto. Senza parlare ella aprì la sua tunica; e offerì al giovine le sue mammelle simili a due rose tiepide e pesanti. Ne fu egli ebro così che credette aver dissipato sul corpo di lei in un’ora sola, come in un festino interminabile, tutte le spezie accumulate per anni nella casa del padre. Udendo contro la sua gota battere il cuor misterioso della fuggitiva, navigò nel suo pensiero pel fiume lusinghevole verso il mare lontano. E a lui, giacente nella stanchezza d’amore come in una dolce morte, rempieva gli orecchi il rombo confuso del mare ch’egli non avea mai veduto.

L’isola nutrice di colombe apparvegli allora nell’azzurro delle ciglia dilette, gli apparvero quivi le città bianche sparse intorno ai golfi lunanti, popolate di musici di fanciulli e di meretrici, ricche di statue d’inni di bei letti di belle vesti di belle tazze, religiose, ospitali, ove gli uomini cinti di ghirlande gioivano d’un perpetuo convivio, obbedienti al potere di una dea che Lyde chiamava Afrodite.

Dissegli Lyde:

O Carmi, non vuoi tu adorare Afrodite? Chi non mirò il suo volto, non conosce la gioia perfetta. Ella alzata sul plinto ride lungi nel tempio aperto su molte colonne ai vènti del mare.

Disse Carmi:

O Lyde, io voglio teco adorare Afrodite e, se mi sia concesso, pur quelle che tu chiami le Cariti dai fusi d’oro, e tutte le cose amabili che allietano il cuore dell’uomo.

Ed egli si levò, e venne al cospetto del padre, e disse:

Padre, dammi la parte dei beni che mi tocca.

E il padre, ch’era saggio, non si stupì, né si adirò, ma chiamò il figliuolo primogenito e disse:

O Elihu, il tuo fratello domanda la sua parte di beni.

Disse Carmi sorridendo:

O Elihu, io vado a tessere ghirlande in altri giardini. Vuoi tu venire meco?

Disse Elihu:

Tu hai già la tua compagnia. Io servo il padre.

Disse Carmi:

Bene ti sia, fratello. Che molti bati di olio entrino nelle tue cisterne e molti cori di fromento ne’ tuoi granai; e che alcun comandamento del padre non ti sia grave. Io ti porterò dal paese di lungi qualche dono singolare.

E il padre spartì i beni.

E, pochi giorni appresso, raccolta ogni cosa e apprestato un naviglio, il giovane se ne andò in viaggio con la donna dell’isola, per la corrente del fiume, verso il mare signoreggiato dalla dea che Lyde chiamava Afrodite.

Avendo nella patria di Lyde adorato la dea e sacrificatole molte coppie di colombi, egli visitò di poi le bianche città che avevano templi ove l’altare era servito da torme di meretrici. Egli conobbe quivi la santità del sudore che esprime dai corpi commisti la veemenza dell’amplesso, e apprese il ritmo segreto che regola i moti pe’ quali si accresce la gioia lasciva. Egli scoprì tutti i misteri, sperimentò tutti i gaudii. Sempre donò grandemente: distese la porpora sotto le reni falcate, gittò l’oro sotto i piedi agili; volò ai suoi amori su cavalli emuli del vento, su triremi più veloci degli alcioni. Fu come un re di breve regno. Ma ben volle concedergli Afrodite, avanti che egli divenisse mendico, una testimonianza del suo divin favore; perciocché fece che egli si trovasse ultimamente in un luogo chiamato Eleusi, nel giorno d’una festa solenne a cui traggono tutte le genti di quella nazione. E quivi, essendo tutte le genti adunate presso la riva del mare, egli vide coi suoi occhi mortali avanzarsi una meretrice bellissima fra le belle, chiamata Frine, e sciogliersi il cinto e togliersi la vesta e spandere la chioma e apparir nuda al cospetto della moltitudine attonita, entrar nuda nelle acque, restar quivi raggiata dal riso invincibile della dea che piacevasi di testimoniar per quel modo la sua presenza agli umani.

Tal fu lo spettacolo che vide Carmi con i suoi occhi mortali, avanti che egli divenisse mendico. E in quello stesso giorno egli, recatosi al porto, salì sopra una nave lidia che era pronta a valicare il mare; e navigò alla volta dell’Asia per riavvicinarsi alla sua terra; e nelle angustie del lungo viaggio gli consolava il cuore l’imagine del prodigio d’Eleusi, che egli vedeva a quando a quando rinnovellarsi nel solco fervido della carena. Ma, come approdò, avendo spesa nel viaggio l’ultima dramma, si tenne perduto; e ripensò il padre, il fratello, la prosperità della sua casa, i granai pieni alle cui porte egli sospendeva un tempo le fresche ghirlande, la stanza aromatica ove le donne accompagnavano col riso e col canto il lavoro odorato.

Or non rimaneva al peregrino se non una vesta e la piccola Afrodite di argilla che Lyde avevagli donata lacrimando nel separarsi da lui. Ond’egli cominciò a patir la fame; e si diede a mendicare; ma niuno gli dava pur una mica, perciocché una grave carestia era venuta in quella contrada. Ed egli si mise con uno degli abitatori di quella contrada; il quale lo mandò ai suoi campi, a pasturare i porci. Ed egli desiderava d’empirsi il corpo delle silique che i porci mangiavano, ma niuno glie ne dava.

Ora stavasene egli a piè d’una quercia, pallido come un morente; e premeva tuttavia di sotto alla vesta contro il suo petto l’imagine tutelare di argilla, per riscaldare il suo cuore compreso di gelo. E ripensava la sua dipartita con la donna fuggitiva, e il naviglio carico su la corrente, e la vista del mare sonante raggiante, e l’isola nutrice di colombe, e lo splendore dei templi e la mollezza dei letti e la facilità dei piaceri.

E, sentendosi morire, rivide nella memoria il fratello noverare i bati d’olio e i cori di fromento che i mercenarii versavano nelle cisterne e nei granai. E disse:

Quanti mercenarii di mio padre hanno pane largamente, e io mi muoio di fame. Io mi leverò, e me ne andrò a mio padre, e gli dirò: Padre, io ho peccato contro al cielo e davanti a te; e non son più degno d’esser chiamato tuo figliuolo. Fammi come uno de’ tuoi mercenarii.

Egli adunque si levò; e, lasciati i porci alla pastura, prese il cammino della casa paterna. Lungo il cammino si nutriva di radici, beveva l’acqua dei ruscelli, e a ogni sosta credeva morire. La sua pelle s’inaridiva su le sue ossa scarse di midolla, torcevasi il suo ventre come se veleno d’aspide mordesse le sue interiora. Ed egli andava innanzi, simile a una fronda sospinta.

E vide a un tratto, essendo in prossimità della casa, i buoi sparsi per i pascoli grassi, e le pecore, e le asine, e i cammelli in gran numero, e le secchie piene di latte, e gli alveari pieni di miele. E riconobbe la casa di pietra, gli atrii frequenti di servi, le alte logge d’onde un tempo egli mirava il fiume. Ed ecco scorse il padre assiso presso la soglia pensoso, fatto più bianco; e il cuore gli balzò nel petto; e trattenne un grido, temendo di mostrarsi a lui. Ma lo vide il padre, e n’ebbe pietà; e corse, e gli si gettò al collo, e lo baciò.

E il figliuolo gli disse:

Padre, io ho peccato contro al cielo e davanti a te, e non son più degno d’esser chiamato tuo figliuolo.

Ma il padre disse ai suoi servitori:

Portate qua la veste più bella, e vestitelo. E mettetegli un anello al dito, e dategli ai piedi i sandali. E conducete fuori il vitello ingrassato, e uccidetelo, e mangiamo, e rallegriamoci; perciocché questo mio figliuolo era morto ed è tornato a vita, era perduto ed è stato ritrovato.

E si misero a far gran festa.

Or il figliuol maggiore Elihu era ai campi; e, come egli se ne veniva, essendo presso della casa, udì il concerto e le danze. E, chiamato uno dei servitori, domandò che si volesse dire quella cosa.

E costui gli disse:

Il tuo fratello è venuto. Il tuo padre ha ucciso il vitello ingrassato, perciocché l’ha ricoverato sano e salvo.

Ma Elihu si adirò, e non volle entrare. Uscì allora il padre; e lo pregava perché entrasse.

Ma Elihu rispondendo disse al padre:

Ecco, già tanti anni io ti servo, e non ho giammai trapassato alcun tuo comandamento; e pur giammai tu non m’hai dato un capretto, per rallegrarmi co’ miei amici. Ma, quando questo tuo figliuolo, che ha mangiato i tuoi beni con le meretrici, è venuto, tu gli hai ucciso il vitello ingrassato.

E il padre disse:

Figliuolo, tu sei sempre meco, e ogni cosa mia è tua. Or conveniva far festa e rallegrarsi, perciocché questo tuo fratello era morto ed è tornato a vita, era perduto ed è stato ritrovato.

Ed Elihu entrò, e baciò il fratello; e si assise al convivio, non lieto nel cuore.

Era quivi Carmi assiso nel primo posto, vestito della più bella veste, mondo e asperso di profumi; mentre una servente gli ungeva di balsamo i piedi offesi dal duro cammino. E pareva che egli lasciato avesse nel lavacro tiepido, con la polvere e col sudore, la sua umiltà e la sua afflizione; perciocché, se bene trascolorito e scarno, egli aveva l’aspetto di un ospite insigne che sorride alla festa ma pur con qualche dispregio, come colui ch’è uso ad ornar la sua vita di più delicate eleganze.

Prese adunque davanti a sé la tazza colma, e la rimirò prima di bevere, uso come era a ricever gioia per gli occhi prima che per le labbra; ma non ebbero gli occhi gioia.

Disse egli allora rivolto al fratello che aveva su lui lo sguardo intento:

O Elihu, l’artefice che foggiò questa tazza non sapeva di musica. Nel paese di lungi io ho bevuto in tazze che, solo a vederle, allietavano il cuore. La loro forma era così armoniosa che pareva fatta della virtù medesima cui spande la cetera quando è tocca da una illustre mano. Subitamente il cuore allietato le amava; ed era dolce prima di bevere, o Elihu, sfogliare una rosa su la lor bellezza perfetta come sul capo della fanciulla che sa col suo bacio colmarti il cuore d’oblio.

Disse Elihu, non senza rampogna:

Dovevi adunque, o Carmi, portar teco dal paese di lungi le tazze che ami, poiché dispregi quella che oggi avesti dal padre, tutt’oro.

Disse Carmi:

Eran fragili, o fratel mio.

E, chiudendo gli occhi, bevve rapidamente il vino.

E, come i cantori intonarono un canto di festa, egli stette un poco in ascolto, per giudicare l’accordo, avendo l’orecchio difficile. Quindi, fatto cenno al Capo de’ Musici perché interrompesse il coro, dissegli:

Colui che compose questo canto non conobbe mai la felicità. Conviene che tu accordi le voci e gli strumenti su un altro modo. Io ti darò la norma. Udii già nel paese di lungi tali inni che, udendoli, io credetti d’avere a essere il re di tutto il genere umano; poiché non mai tanto in alto salirono i miei pensieri né mai tanto grande speranza commossemi il cuore. A ogni primavera le canzoni novelle insieme con le rondini, d’isola in isola, valicavano il mare. Nave portatrice d’ingente ricchezza non era bene accolta nel porto come la nave recante la novella canzone. Alcuna m’è nella memoria, o Elihu; e io la darò al Capo de’ Musici perché la vecchiaia del padre ne sia consolata.

Disse Elihu:

Per insegnarci a vivere adunque, o Carmi, tu sei venuto.

Disse Carmi:

Sì, o fratello, se tu vorrai.

Disse Elihu:

Certo adunque le tue navi sono per giungere sul fiume cariche delle cose che noi non conosciamo.

Disse Carmi:

Le navi naufragarono, ma rimasero in me le imagini di quelle cose che tu non conoscesti giammai.

Disse Elihu:

Partendo, o Carmi, tu mi promettesti pel tuo ritorno un dono singolare.

Sorrise alquanto Carmi, ambiguo. Poi con un atto repentino cercò tra le pieghe della sua veste, presso il cuore, dicendo:

Per te, o fratello, io ho salvato questo dono.

E trasse alla luce la piccola Afrodite d’argilla, che sempre egli aveva tenuta sul petto dal giorno lontano in cui erasi diviso da Lyde per correre a nuove allegrezze.

Disse, mostrandola come una cosa veneranda, mentre le parole degli inni estranei gli risalivan dal cuore infiammato:

O Elihu, è questa l’effigie di una dea immortale cui le genti del paese di lungi nomano Afrodite, dea generatrice, che nacque dal fior della schiuma, che ama i sorrisi, che ama i bei letti e le ghirlande e le danze, che accorda la grazia in segreto, che accende di brama furente le stirpi degli uomini e gli uccelli dell’aria e quanti animali nutre la terra e quanti il mare, generatrice di tutte le cose, madre della necessità visibile ed indivisibile, notturna, aurea, florida, invitta, ineffabile, da’ bei capelli, dalle palpebre curve, aulente, ridente, cinta di viole, più dolce del miele, più chiara del fuoco. La foggiò nell’argilla un artefice di nome Automede. Per moltanni mi fu protettrice, mi infuse la fiamma nel sangue, mi largì la forza soave, prolungò nel mio letto i piaceri. Ben questa or mi conforta le membra affrante dal duro cammino, mi l’oblio dei mali trascorsi, mi cinge i fianchi di valore novello, accende ai miei occhi di novello splendore la vita. Questa, o fratello, io ti dono. Ma, prima che tu la riceva, io voglio offerire un’ostia alla dea ineffabile su la mensa ospitale.

Ed egli si chinò verso la servente che gli leniva i piedi col balsamo; perciocché egli aveva sentito nelle mani di colei una virtù d’amore. Si chinò e le disse:

Va, e recami due colombe e un bacino di profumo.

E la servente si levò, e andò, e prese le colombe; e tornò con quelle e col profumo al cospetto di Carmi, il quale la riguardava.

Ed egli le disse riguardandola:

Come suona il tuo nome?

Ed ella rispose e disse:

Beerseba.

Ed era una fanciulla nel fiore dell’adolescenza, alacre come una damma, fremente come il nervo d’un arco; e dalle sue dita ancóra stillava il balsamo ch’ella aveva adoperato per lui.

Le disse Carmi:

Sono dolci le tue dita, o Beerseba.

E immerse nel profumo le colombe, e quindi così molli le liberò al volo. E quelle volarono su la mensa pavide, sfiorarono le fronti con l’umide penne, cosparsero di stille aulentissime tutta la mensa ospitale. Ma breve fu il volo; le penne languirono. Il profumo, ch’era gagliardo, spegneva le vittime alate.

Tese le braccia Beerseba vedendole mancare; perciocché aveva recato per l’offerta le due colombe che più ella amava. Tese le braccia Beerseba, e le moribonde si rifugiarono nel grembo di quella che le aveva nutrite di pura farina e di olive.

Disse Carmi:

Ti elegge la dea, o Beerseba!

E promise la vergine al suo letto, in suo cuore.

Disse al fratello:

O Elihu, ricevi ora adunque il mio dono.

E protese la mano. Ma Elihu non parlò, né si mosse; ma tutti intorno alla mensa restavano attoniti e muti.

Crollò Carmi le spalle; e ripose l’imagine sotto la veste, sul suo cuore infiammato. Poi, tutti ancor restando attoniti e muti intorno alla mensa, fece segno al Capo de’ Musici per intonare una ode ch’egli aveva appresa da un’amabile bocca in una città chiamata Mitilene ramoscello fiorito del mare.



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