Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
Lettura del testo

TRE PARABOLE DEL BELLISSIMO NEMICO

III LA PARABOLA DELL’UOMO RICCO E DEL POVERO LAZARO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

III
LA PARABOLA DELL’UOMO RICCO
E DEL POVERO LAZARO

19. Homo quidam erat dives, qui induebatur purpura, et bysso; et epulabatur quotidie splendide.

20. Et erat quidam mendicus nomine Lazarus, qui jacebat ad januam ejus ulceribus plenus,

21. cupiens saturari de micis quae cadebant de mensa divitis.

luc. xvi

Or vi era un uomo ricco, il quale si vestiva di porpora e di bisso; e ogni giorno godeva splendidamente.

Egli godeva d’ogni letizia, nelle sue belle case e nei suoi belli orti, avendo le case piene di concubine e di musici, gli orti pieni di frutti e di aromati. E ogni giorno al suo risvegliarsi egli era, come una contrada feconda, disposto a prosperare. E ogni giorno nuovi desiderii s’aprivano alla sua carne come sorgenti di gioia.

Egli piacevasi di rimirar la forma pura delle colonne che l’artefice perfetto gli inalzava negli atrii. Così piacevasi di rimirar le gambe agili e robuste che il frombolatore pontava in terra nell’atto del trarre; così la corsa del veltro celere e fulvido su i prati come la fiamma che divora le stipule eccitata dal vento vespertino.

A simiglianza dei re di Media e di Persia, egli poneva i corpi delle sue concubine a macerarsi negli olii odoriferi, e voleva che il Capo degli Unguentarii ogni giorno gli ricercasse un nuovo profumo stillato dalle tuniche dei fiori, dalle gomme degli alberi, dalle glandule degli animali. Ma, quando la pioggia d’estate inondava a un tratto il suolo caldo e fenduto, egli aspirava quella sùbita fragranza terrestre, raccolto in silenzio, con le palpebre socchiuse, obliando il bagno della donna bella, respingendo per quel giorno da sé i bossoli d’oro.

Molto egli amava i conviti di giorno e di notte, e le più delicate vivande nei vasellami più pregiati; e le confetture sinuose ove erano irriconoscibili i sapori dei frutti, sublimati dal fuoco e dal tempo; e i vini che trasmettevano al sangue la divinità delle favole effigiate intorno alle coppe; e tutte quelle cose inerti e di strano aspetto, la cui voluttà segreta non poteva essere appresa se non dalla gola istruita. I maestri delle sue cucine sapevano ricercare nei corpi delle bestie uccise il lombo squisitissimo occultato fra la massa dei muscoli, profondo come un altro cuore; e, in quella guisa che il musico accorda il suo strumento, sapevano moderar con ingegni le virtù sottili del fuoco. Tuttavia egli fu veduto scendere all’improvviso dal suo cavallo per cogliere nella scorza dell’albero un favo e fu veduto semplice come un pastore masticare la cera mista al miele selvaggio, quindi bevere l’acqua del fonte accolta nel cavo della mano.

Molto egli si dilettava di comunicare con la dolcezza delle cose per mezzo di quel senso che, diffuso in tutta la sua persona e affinato nelle estremità delle sue dita, pareva talvolta quasi eccedere i confini del suo corpo, come la luce che trapassa l’alabastro della lampada. Per goderne più lentamente, egli voleva che nell’oscurità e nel silenzio i servitori gli recassero una sua donna avvolta in cento tuniche di varia trama, come un frutto chiuso da un involucro molteplice; cosicché dalla prima all’ultima tunica palpando, per una variazione di piacere, le sue dita presentissero il tepore della polpa feminea e fossero condotte per gradi dove era tangibile la qualità divina. Ma la sabbia dei mari e dei fiumi, fulva e aspra come la giuba del leoncello, o bionda e molle come il pelame del cerbiatto, o argentea come il vello dell’agna, e come tutte queste cose viva, talvolta piacque ai suoi piedi ignudi.

Per ciò non soltanto al suono dei flauti e all’inno dei cantori balzavagli il cuore in petto, ma pur s’egli udiva il chiaro nitrito tremulo correre per le narici de’ suoi cavalli nobilissimi, nell’ora del cibo, quando i palafrenieri s’appressavano a versar nelle coppe di bronzo l’avena calorosa.

Ed egli era capace anche di donar grandemente, e di piangere, e di uccidere, e d’inventare supplizii, e di generare in silenzio bei pensieri. Egli donò una nave bella veloce e ben munita a un giovine sconosciuto che contemplava da una riva solitaria l’orizzonte lontano.

Or avvenne che fosse egli seduto dinanzi a una tavola imbandita sotto il portico aperto verso gli orti, avendo ai suoi fianchi due concubine elette fra trecento, che si nomavano Adonia ed Elisama. E quivi erano i musici e una cantatrice e un fanciullo etiope, a cui l’olio faceva rilucere la faccia negra come l’ebano polito.

Adonia inchinavasi verso i suoni in atto di soggetta; poiché gli spiriti onde s’animavano le sue membra voluttuose erano di tal natura che la musica li aveva in sua balìa come il vento ha in sua balìa le fiamme labili. E le sue dita presso le sue labbra erano come le ariste d’oro presso il papavero; e tutta l’ardenza del meriggio estivo era nella sua chioma intrecciata maravigliosamente.

Elisama assaporava le confetture che le stavano dinanzi in un piatto di pregio, simili a piccoli datteri prigioni in un’ambra solubile. E le sue mammelle a mezzo ignude fuori del busto risplendevano rosee come la luna che sorge dal colle; e tutta la sua carne pareva risplendere attraverso il vestimento come un doppiere attraverso una cortina fosca.

Udiva Adonia a quando a quando, nelle pause del concerto, uno scalpitare di zoccoli e un grido roco; e le palpitava il cuore perocché ella sapeva che di dai portici il bellissimo domatore Talmai lottava con un cavallo indomabile.

Udiva anche Elisama lo scalpitare e il grido, ed anche a lei palpitava il cuore segreto; perocché la bellezza e la forza di Talmai passando avevano lasciato nella sua carne risplendente un solco profondo di ardore, come i vènti libici che passano per la messe.

E il signore magnifico mirava l’una e l’altra donna a volta a volta con un occhio amoroso e crudele; perocché non gli era ignoto il desiderio che accendeva l’una e l’altra del sangue servile, e già aveva egli deliberato di goderle per l’ultima ora e di farle quindi perire. Ed egli si compiaceva così nel mirarle dilettose e moribonde.

E blandiva l’una e l’altra, e lodava i loro pregi amorosamente e diceva:

O Elisama, Elisama, tu non fosti mai bella e desiderabile quanto in questa ora, o Elisama. Le tue mammelle risplendono come la luna che sorge dal colle erboso. Le tue labbra sono come l’alveolo umido di miele. I tuoi occhi sono come i porti d’un regno quando giungono i navigli carichi di vino e di frumento, di cedro, di nardo e di cinnamomo.

E blandiva l’una e l’altra, e lodava i loro pregi e diceva:

O Adonia, Adonia, tu non fosti mai dolce e pieghevole e aurata come in questa ora, o Adonia. Tutta pieghevole e dolce tu sei nell’onda dei suoni come un fascio di virgulti in un ruscello cristallino. Le tue labbra sono come una parola che non è detta. Le tue trecce sono come l’estate in un laberinto. I tuoi occhi sono come i porti d’un regno quando giungono i navigli degli ambasciatori e i pavesi innumerevoli palpitano per le antenne incessantemente.

E le due concubine udendolo si turbarono in cuore; perocché elle videro che i suoi occhi erano come la reggia d’un regno, ove tutte le faci sono accese tranne una e presso quell’una veglia il carnefice.

Ed egli disse ancóra, quando il concerto ebbe fine, tendendo l’orecchio:

Talmai ha domato il suo cavallo.

E si fece per alcuni istanti un gran silenzio negli atrii e negli orti, come nel cavo degli strumenti non più tocchi. E tutte le cose tacevano e raggiavano, come al passaggio d’una potenza divina, spargendo il vento del mezzodì per ovunque una polvere incognita rapita alle specie lontane dei fiori. E s’udì nel verziere una melagrana della stagione trascorsa fendersi, troppo piena, presso la corolla recente.

Allora il magnifico pensò le donne sconosciute che venivano in quell’ora su i cammelli per il deserto condotte dai suoi servitori al suo letto, e il legno di Algummim che i suoi servitori viandanti dovevano portargli per construire il nuovo letto. Il qual legno non era mai per addietro stato veduto nel paese abitato da lui, ed era nel paese di lungi adoperato in far cetere.

Disse Adonia:

Chi si lamenta presso la porta?

Disse Elisama:

Alcuno implora presso la porta.

E i cani latrarono.

E il signore disse al fanciullo nero:

Va e vedi.

E il fanciullo andò e aprì; e i cani cessarono di latrare; e alcuno fece di nuovo un lamento.

Era costui un mendico chiamato Lazaro, il qual giaceva presso la porta, pieno d’ulceri; e desiderava saziarsi delle miche che cadevano dalla tavola del ricco. Anzi ancóra i cani venivano e leccavano le sue ulceri.

Disse Elisama:

È un mendico che si muore.

Ed ella e Adonia, come scorsero l’uomo ulcerato, torsero i loro occhi puri e rabbrividirono nelle lor carni monde.

Disse Adonia al fanciullo nero:

Dagli un pane e chiudi la porta.

Ma l’uomo ricco disse:

No, fanciullo. Fa che egli entri e s’appressi. Voglio che oggi egli conosca il piacere.

E il fanciullo condusse presso la tavola il mendico. E la carne del mendico era come i pampini maculati dall’autunno su la vite spoglia di uve. E stava costui prostrato sul marmo lucente, e i cani gli stavano intorno inoffensivi; e le donne non lo guatavano.

Dissegli l’uomo ricco, guatandolo:

Chi sei tu?

E il mendico rispose, e disse:

Io sono Lazaro.

Disse il magnifico:

E donde vieni tu, Lazaro?

E il mendico rispose, e disse:

Io vengo dall’aver giaciuto nella polvere delle città desolate.

Disse il magnifico:

Or che vuoi tu, Lazaro?

Ed egli significò queste parole come un re il qual sia pronto a donare il più gran dono.

Ma Lazaro rispose, e disse:

Concedi, signore, che io mi sazii delle miche che cadono dalla tua tavola.

E la sua guancia era pallida e cava come un’orma impressa nella cenere, e l’ombra della morte era su le sue palpebre; e si vedeva, quando egli parlava, che non gli era rimasto altro di salvo se non la pelle intorno ai suoi denti. Ed egli teneva l’anima sua umile nella palma della sua mano.

Gli disse il magnifico:

Io empirò la tua bocca di piacere e le tue labbra di giubilo.

E sùbito ordinò al fanciullo nero che recasse dinanzi a colui la più delicata vivanda nel vasellame più pregiato. E il fanciullo obbedì, e pose innanzi al famelico il piatto d’oro.

Ma Lazaro non osava toccare con le sue mani vili il cibo regale. E stette come un uomo abbacinato; e le lacrime gli sgorgarono dai cigli; e pareva che tutto egli svenisse, perocché la fame gli aveva succhiato le midolle e aveva fatto vuote le sue ossa come i sambuchi della cerbottana. E i veltri, che gli erano intorno, divorarono in un attimo la vivanda nel piatto d’oro.

Disse l’uomo ricco:

Misero te!

E ordinò al fanciullo nero che porgesse a colui il vino più generoso nella coppa più bella. E il fanciullo obbedì, e porse al mendico una coppa più splendida che il topazio d’Etiopia.

Ma le mani di Lazaro tremarono così forte che la coppa cadde sul marmo e si infranse; e il vino odorò disperdendosi fra le zampe dei veltri.

Disse ancóra il magnifico:

Misero te!

E ordinò al fanciullo nero che cercasse una veste siria per colui e gliela recasse. E il fanciullo obbedì, e tornò con una veste di color variato ricamata, e la pose al mendico su le braccia.

E l’uomo ricco disse:

Or lèvati, Lazaro, e vèstiti della bella veste.

E Lazaro si levò; ma nel levarsi pose il piede immondo sul lembo della sottilissima veste che si lacerò tutta con un suono simile al grido della rondinella.

Disse ancóra il magnifico:

Misero te!

E passava per gli orti in distanza il domatore Talmai conducendo a mano il cavallo domato che soffiava dalle froge la schiuma. E il signore lo vide e lo chiamò; e con l’una mano prese il cubito di Adonia e con l’altra il cubito di Elisama. E le donne trasalirono; perocché elle videro che i suoi occhi erano come la reggia d’un regno, ove tutte le faci sono accese tranne una e presso quell’una veglia il carnefice.

Disse il magnifico:

Talmai, apprèssati col tuo cavallo domato.

E Talmai s’appressò col suo cavallo che aveva l’unghia sonora e la gola adorna di fremito; e, sorridendo e palpando il collo crinito, disse:

Vedi, signore, ch’io l’ho fatto mansueto come un agnello.

E questa gloria della sua forza cancellava dalla sua fronte il segno di servitù.

Ora stava così Talmai tra due colonne, ritto in piedi, grondante sudore, acceso in volto come un combattente, bellissimo. E il cavallo fremeva per orrore dell’uomo ulcerato. E la nobiltà della stirpe ardeva nelle sue vene come una fiamma inestinguibile. E le vene del suo collo e dei suoi fianchi erano intralciate come i nervi dei suoi testicoli.

Disse il magnifico, riconfortando in quella vista i suoi occhi che avevano guardato il mendico:

Tu avrai gran premio del tuo valore, o Talmai. Va intanto e togli al cavallo quelle belle redini con cui l’hai vinto, e fa che tu me le rechi senza indugio. Io ti aspetto.

E questo diceva perciocché egli avesse già nel suo capo un pensiero, mentre teneva in sue mani le due concubine che avevano tremato di desiderio al cospetto del domatore e tremavano ora di spavento in tutte quante le ossa.

E seguitando egli disse a Lazaro:

O Lazaro, poiché il tuo palato non sa discernere le cose buone dalle perverse e non del piatto né della coppa né della veste tu ti sei giovato, io voglio ultimamente esperimentarti nell’amore. E io ti darò queste mie donne.

E Adonia gridò:

Che vuoi tu far di me, signore?

Ed Elisama gridò:

Che vuoi tu far di me, signore?

Ed elle tremavano e rompevano in pianto; e tutta la loro carne prendeva orrore dell’uomo ulcerato.

E Adonia si lagnava:

Tu hai pur detto che io non fui mai tanto dolce per te, signore!

Ed Elisama:

Tu hai pur detto che le mie mammelle risplendono come la luna per te, signore!

Ed elle tremavano mentre il signore le denudava senza ira alcuna.

E Adonia implorava:

Non mi contaminare, signore, poiché tanto io ti piacqui!

Ed Elisama:

Dammi piuttosto ai tuoi cani da preda che mi divorino!

E il magnifico disse:

Ecco Talmai che porta le sue belle redini, o Adonia, o Elisama.

E il domatore venne portando le lunghe liste purpuree, simili a fortissimi lacci.

E il magnifico disse al mendico:

O Lazaro, sono tue queste donne che mi piacquero. Or congiugniti con elle.

E rivelò il suo pensiero, imperiosamente.

Allora il fanciullo etiope distese sul marmo un tappeto e su quello fu abbattuto Lazaro, e le due concubine riluttanti furono strette contro all’uomo ulcerato, strette furono, avvinte furono con le redini del domatore. Ed era Lazaro come un pampano maculato dall’autunno tra due bei grappoli chiari.

Disse il magnifico al Capo de’ Musici, volendo coprire le grida:

Or fatemi un concerto strepitoso.

Ma le donne non più gridarono, non più si divincolarono, ché pareva le avesse irrigidite l’orrore. Il fanciullo nero distese sul supplizio un manto di scarlatto. E le ombre delle colonne si allungavano, declinando il sole.

Disse il magnifico:

Or vieni meco, Talmai. Io voglio darti un gran premio.

E s’allontanò col giovine per gli orti andando verso il luogo segreto dove un artefice nativo dell’Ellade, nomato Apollodoro, gli creava tali statue che a vederle egli sentiva l’anima sua rinfrescata d’oblio come di rugiade.

Soffermatosi su la soglia, rimirando il domatore, egli sorrise e disse:

Troppo tu sei bello, o Talmai. Ma caduca è la bellezza del giovine mortale. La vita che regge la tua bellezza passerà via più leggermente che la spola del tessitore. Io voglio che la tua perfezione duri eterna. Ecco il tuo premio.

Ed egli entrò, e disse all’artefice:

Questo giovine oggi ha domato un cavallo terribile. Egli è forte come è bello: degno, o Apollodoro, d’essere da te effigiato nel più puro bronzo, per l’eternità.

E l’Ellèno ammirò quell’Asiatico che tributava l’onore divino della statua al giovine per aver domato un cavallo. E ripensò la città sacra di Olimpia sul fiume Alfeo ricco di platani, e la solennità dei Giuochi, e la statua da lui fonduta per un atleta illustre di nome Psaumide cui il famosissimo Pindaro aveva assunto nell’inno alato. E gli riapparve nello splendore degli iddii ridenti la penisola frastagliata come la foglia del gelso per entro al duplice mare.

Disse il magnifico seguitando:

Io dunque ti do, o Apollodoro, questo giovine mortale perché tu me lo renda immortale.

E poiché nel luogo s’udivano ruggire i fuochi che liquefacevano i metalli, egli trasse lo statuario in disparte, e gli disse:

Non puoi tu fare l’impronta su lui vivo e perderlo come tu perdi la cera?

Disse quindi al domatore:

Tu non sarai più servo. Incomincia l’eternità per la tua bellezza, o Talmai. Al tuo bronzo consacrerò le redini del cavallo domato.

E lo lasciò in custodia ai servitori.

Andandosene, pensava alla misteriosa felicità che le belle statue dànno al cuore umano; il qual può gioire di loro senza desiderarle. E, mentre accingevasi a salire su la torre per spiare verso la terra e verso il mare se non apparissero le carovane di Seba e le navi di Tarsis che portar doveano nuovi ornamenti alla sua vita, sopraggiunsegli il fanciullo nero dicendo:

Gli angeli sono discesi nell’atrio ed hanno assunto il mendico su le loro ali e lo hanno rapito in cielo; e un d’essi è rimasto, ed è presso le donne morte e la sua faccia è di bragia.

E il signore non credette a tal meraviglia; ma incredulo volse i passi verso il luogo. Ed era la sera; e le stelle rampollavano a miriadi dalle profondità del firmamento; e i fiori notturni si aprivano per gli orti con un incanto assirio; e tanto arcano era il silenzio intorno che si udivano guizzare e boccheggiare i pesci nelle piscine.

Disse il fanciullo, preso di temenza:

Non vedi tu l’angelo, signore?

E il signore vide veramente la creatura del cielo; perocché veramente uno dei méssi era stato tentato dalla bellezza di Adonia e di Elisama, le quali giacevano quivi ignude e morte, splendendo come gli opali le carni loro.

E le colonne del portico, tocche dallo splendore angelico, erano divenute trasparenti come il cristallo; e il manto di scarlatto era divenuto di neve. E i lacci erano allentati, perocché Lazaro non era più quivi, essendo stato portato dagli angeli nel seno di Abrahamo.

Disse l’uomo ricco alla creatura del cielo:

Ospite celeste, sii tu il benvenuto nelle mie case! Tuoi sono i miei beni, se ti piaccia dimorare presso di me nelle mie case.

E l’angelo rispose, e disse:

Io sarò teco e godrò dei tuoi beni.

E le vaste ali falcate gli caddero dagli òmeri subitamente recise da una spada invisibile; caddero come la fronda della selva, senza romore. Caddero, palpitarono a terra, presso le donne morte e ignude; palpitarono per tutte le penne, resero l’ultimo lume; balenarono, stettero a terra spente.

Disse il magnifico:

Or vieni al festino, ospite celeste, alleggerito delle tue penne, e rallegriamoci. Sono per giungere a me le carovane di Seba e le navi di Tarsis con donne, con cavalli, con vestimenti, con vini, con aromati, con tutte le cose belle che rallegrano la vita dell’uomo.

Ed egli celebrò in quella notte un gran festino, con musica e con danze. Ed insegnò alla creatura del cielo le voluttà della terra. E sempre di poi ebbe per compagno nella sua vita di gioia questo angelo senz’ali. Il quale era bellissimo, non al pari di Talmai ma al pari di una vergine regia; senonché aveva agli òmeri due rosse cicatrici che talvolta s’infiammavano; ed egli ne sentiva l’ardore e diveniva frenetico e chiedeva alla terra impossibili piaceri.

Or avvenne che questo angelo rimanesse erede dell’uomo ricco, essendo morto costui non ancor sazio di giorni.

Ed essendo costui ne’ tormenti dell’inferno, alzò gli occhi e vide da lungi Abrahamo e Lazaro nel seno di esso.

Ed egli, gridando, disse:

Padre Abrahamo, abbi pietà di me, e manda Lazaro, acciocché intinga la punta del dito nell’acqua e rinfreschi la lingua a me tormentato in questa fiamma.

Ma Abrahamo disse:

Figliuolo, ricòrdati che tu hai ricevuto i tuoi beni in vita tua e Lazaro altresì i mali; ma ora egli è consolato, e tu sei tormentato. E, oltre a tutto ciò, fra noi e voi è posta una gran voragine; talché coloro che vorrebbero di qui passare a voi non possono: parimenti coloro che son di non passano a noi.

Ed egli disse:

Ti prego adunque, o padre, che tu lo mandi alla mia casa natale, avendo io cinque fratelli, acciocché faccia testimonianza che talora anch’essi non vengano in questo luogo di tormento.

Abrahamo gli disse:

Hanno Mosè e i profeti, ascoltin quelli.

Ed egli disse:

No, padre Abrahamo; ma se alcun dei morti va a loro si ravvedranno.

Ed Abrahamo gli disse:

Quando non ascoltano Mosè e i profeti, non pur crederanno se alcun de’ morti risusciti.

Ed egli disse:

Se io vado a loro, crederanno. E io anche ti raddurrò quell’angelo che ha ereditato i miei beni. Ti prego adunque, o padre, che tu mi mandi a loro.

E non era in lui se non il desiderio di risuscitare e di ritrovarsi pur brevemente tra i suoi cari beni. Ma Abrahamo non gli rispose; e Lazaro stava muto e immobile nel seno di esso, vestito di luce.

Ed egli disse:

O Lazaro, ti ricordi tu ch’io ti porsi una vivanda delicata in un piatto d’oro, e tu non osasti di toccarla, e i cani te la divorarono dinanzi in un attimo? Misero te, che non conoscesti quel sapore!

E Lazaro stava muto e immobile nel seno di Abrahamo.

Ed egli disse:

O Lazaro, ti ricordi tu che io t’offersi un vino generoso in una bella coppa, e tu lasciasti cadere la coppa e disperdere il vino? Misero te, che non conoscesti la potenza di quel succo!

E Lazaro stava muto e immobile nel seno di Abrahamo.

Ed egli disse:

O Lazaro, ti ricordi che io ti donai una veste siria di color variato ricamata, e tu la lacerasti coll’urto del tuo piede? Misero te, che non sentisti su la tua carne la dolcezza di quel tessuto!

E Lazaro stava muto e immobile nel seno di Abrahamo.

Ed egli disse:

O Lazaro, ti ricordi tu che io ti posi a giacere con due concubine elette fra trecento, su un bel tappeto? A giacere io ti posi con Adonia e con Elisama, come un pampano fra due grappoli d’oro; e tu ti moristi, e gli angeli ti rapirono. Pensa, o Lazaro, quanto fossero dolci le membra loro se un dei méssi ne restò tentato; ed eran morte. Misero te, misero te che non ne godesti!

E Lazaro trasalì nel seno di Abrahamo.

Ed egli disse:

O Lazaro, io canterò in eterno i beni di cui tu non godesti. E le fiamme saranno le mie cetere.

E intorno a lui le fiamme risonavano come una miriade di rosse cetere; ed egli cantava, noverando e celebrando i beni della vita.

E cantando diceva:

Ecco, l’occhio mio ha veduto tutte queste cose, l’orecchio mio le ha udite, la mia lingua le ha assaporate, le mie nari le hanno odorate, le mie mani le hanno palpate, tutta la mia carne ne ha preso gioia!

E tutte le forme di quelle delizie si generavano nella sua memoria; e pareva che il soffio del suo canto conducesse le fiamme volubili ad assumere le apparenze speciose; e pareva che le carovane di Seba e le navi di Tarsis venissero con lor carichi in quella plaga. Ed egli cantava il canto della sua vita bella.

E Lazaro escì dal seno di Abrahamo per ascoltare il canto della vita bella; e s’appressava ascoltando, e s’appressava. Ed ecco, fu su l’orlo della voragine.

E colui che gli aveva offerto il piatto la coppa la veste e l’amore, l’uomo ricco, il magnifico, gli disse ancóra gridando tra il fragor delle fiamme volubili che il soffio del suo canto conduceva in moti e in forme di gioia; gli disse ancóra gridando:

Misero te, Lazaro! Misero te, che non ti sei saziato se non di miche! Ecco, l’occhio mio ha veduto tutte queste cose, l’orecchio mio le ha udite, la mia lingua le ha assaporate, le mie nari le hanno odorate, le mie mani le hanno palpate, tutta la mia carne ne ha preso gioia!

E Lazaro, come si protese perdutamente verso la bellezza di quelle cose vane, precipitò nella voragine.




«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL