Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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TRE PARABOLE DEL BELLISSIMO NEMICO

GESÙ E IL RISUSCITATO

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GESÙ E IL RISUSCITATO

22 giugno 1907 (Firenze).

Prima di scendere alla città per vedere nello studio di Domenico Trentacoste il suo nuovo Cristo, passo qualche ora all’aria aperta, sul sedile curvo che ho costrutto all’ombra del grande ippocàstano. È pel mio spirito il luogo dell’attenzione e della visione. Un aguzzo artieruccio fiorentino, che parla con l’accento di Porta San Frediano e atteggia il corpo in modo da parer non più un uomo ma un manevole arnese del mestiere, me l’ha graffito a festoni di frutti intorno a’ quali s’avvolgono cartigli con i motti alternati vedo ascolto. Come un festone tra due borchie, l’arte mia non è sospesa tra quelle due parole intente?

Ho riletto il racconto della Passione nell’Evangelo di San Giovanni. Quante volte mi sono accinto ad affrontare l’argomento, e n’ho tremato! Mi sembra che nessuno fino ad oggi abbia rappresentato con la potenza e la vastità necessarie quell’intima tragedia (la più chiusa e profonda ch’io conosca) la quale incomincia dal punto in cui subitamente, come il nuvolo su i monti di Moab alla fine della state, viene sul figlio dell’uomo l’ombra della morte. Nel portico di Salomone, ricorrendo la festa della dedicazione in Gerusalemme, ai Giudei che l’attorniano ostili egli dichiara: «Io e il Padre siamo una medesima cosa.» I Giudei levano le pietre contro a lui per lapidarlo. Egli riesce a scampare dalle loro mani; e se ne va nascostamente di dal Giordano, al luogo ove Giovanni prima battezzava. E quivi dimora per fuggire quelli che vogliono pigliarlo. La certezza della morte prossima e violenta gli appare quando appunto egli confonde sé stesso col Padre, quando egli afferma d’esser uno col Padre, quando dice: «Se io non fo l’opere del Padre mio, non crediatemi; ma se io le fo, benché non crediate a me, credete all’opere, acciocché conosciate, e crediate che il Padre è in me, e ch’io sono in lui.» Incrollabilmente egli crede nel suo messiato, ha la profonda coscienza della sua dignità messianica; ma ecco che la persecuzione e la morte gli sovrastano, ecco che sta su lui la possibilità di disparire, prima che il Regno sia instaurato, ecco ch’egli Mandato da Dio deve conciliare nel suo spirito sbigottito l’accettazione del patimento e del supplizio con la perfezione del suo cómpito regale. Qui comincia la sua meravigliosa angoscia; e qui veramente la forza del dramma ci afferra alle viscere.

Non parlo come esegeta ma come poeta; e tra tutti i miracoli eleggo il più patetico: la resurrezione di Lazaro. Cristo in Betabara è il primo episodio; Cristo in Betania è il secondo. Al ricevere il messaggio delle due sorelle, egli dice ai suoi discepoli: «Andiam di nuovo in Giudea.» I discepoli gli dicono: «Maestro, i Giudei pur ora cercavan di lapidarti, e tu vai di nuovo ?» Essi gli oppongono l’imagine della morte orribile e ignominiosa; ed egli in quel punto vede il mistero della morte dinanzi a sé, nella carne di colui ch’egli ama. «Lazaro è morto» egli dice. Negli apocrifi copti l’Evangelo dei dodici Apostoli reca la scena singolare tra il maestro e Didimo: materia eccellente da elaborare. Ma quel che più mi tocca è il pianto di Gesù dinanzi al monumento non anche scoperchiato.

Il cadavere quatriduano pute. Al grande grido, si leva fasciato di bende. Ora, secondo quell’evangelo apocrifo, Adamo nell’Amenti, nella dimora dei morti, ode la voce; ode la voce che chiama Lazaro; spinge Lazaro fuor dell’Amenti e invia un messaggio a colui ch’ei chiama il suo creatore. Il fratello di Marta e di Maria è dunque rimasto quattro giorni nella dimora dei morti, egli conosce dunque il mistero del trapasso, egli ha veduto quel che è di . Novamente minacciato da coloro che avevan preso insieme consiglio di ucciderlo, Gesù novamente sfugge: prende la via del Deserto, s’incammina verso la contrada vicina del Deserto, verso Efraim. Ma certo la sua anima è tratta in dietro verso il risuscitato che, sciolto dalle bende, sanato della putredine, s’è colco sul giaciglio nella casa delle sorelle. Premuto da un’ansia spaventosa, Gesù lascia sul cammino i discepoli e torna in dietro solo, a notte fonda. Egli rientra nel castello di Betania, batte alla porta di Lazaro; e riappare dinanzi a colui che per quattro giorni stette nella dimora dei morti.

Io vorrei aver la forza d’imaginare e di scrivere quel colloquio notturno, avvenuto nella camera alta, mentre le bende funebri intrise d’unguento radunate in mucchio rendevano odore e udivasi di quando in quando il sommesso gemito roco delle colombe nella cova, a luna logora.




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