Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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TRE PARABOLE DEL BELLISSIMO NEMICO

GESÙ DEPOSTO

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GESÙ DEPOSTO

22 giugno 1907, sera.

Sembra che Gesù fosse di statura mezzana. In Gerico ricca di palmizii il capo dei publicani Zaccheo cerca di vederlo e non può, per la moltitudine che intorno s’accalca. Allora corre innanzi, e sale sopra il sicòmoro. Sembra che il Rabbi non avanzasse dunque né delle spalle né del capo la turba.

Migliore argomento è forse nell’episodio evangelico del puledro, quando egli salendo a Gerusalemme fa sosta in Beftage. «Andate nel castello, che è qui di rincontro; nel quale essendo entrati, troverete un puledro d’asino, legato, sopra il quale niun uomo giammai montò. Scioglietelo e menatemelo.» I discepoli trovano l’asinello, lo coprono di una lor veste; e Gesù monta sopra esso, per entrare nella città. Egli non doveva dunque aver grave peso e lunghe gambe per servirsi di tal cavalcatura.

Ma sembra che nell’arte la linea della bellezza, della nobiltà e della passione debba esser lunga.

Su i vasi greci il corpo umano si raccorcia nelle scene comiche, si allunga oltre misura nelle patetiche. La tragedia protrae l’uomo, il dramma satiresco lo contrae. Nel cratere del museo Campana Apollo, avendo involato l’arco di Eracle, è seduto, simile a un nanerottolo, su la gronda del suo tempio. E il tozzo Eracle si soccorre di uno sgabelletto per giugnerlo. Ma l’uno e l’altro póntano in terra smisurate gambe lottando pel tripode al conspetto di Atena, nel vaso vaticano. I cavalli trionfali delle quadrighe son più alti che il più sperticato camelopardo. Rammento per l’eccesso quelli che Iolao conduce dal carro, in un’anfora di Napoli a figure nere rilevate di bianco.

Bianco nella memoria – contro lo scorcio mantegnesco – mi sorge primo d’ogni altro il Cristo del Tintoretto, il Cristo davanti a Pilato che è nel refettorio della Scuola di San Marco. La tela intorno è oscurata; solo, nel centro, indimenticabile, biancheggia e torreggia il grande fantasma.

Non men torreggerebbe il Cristo supino di Hans Holbein, se si rialzasse e si riavvolgesse nel lenzuolo; ma egli è veramente morto, già preda della putredine, non circonfuso se non di cieco orrore, inerte linea orizzontale, agguagliato alla terra che sta per ringoiarlo, non dissimile alle spoglie di quei ladroni che Antonello da Messina disperatamente inarcò su gli alberi forcuti.

Or qual era il tipo di Cristo? da qual mistione di sangui prodotto? Somigliava egli all’Arabo del Deserto di Siria, dal naso aquilino, dal capo lungo, dai capelli neri, dal corpo svelto? o apparteneva egli alla famiglia bionda, di capo corto e di piatto naso? Discendeva d’una progenie semitica puradifficilissimo evento – o da un de’ tanti inevitabili annestamenti avvenuti, dopo la conquista della Palestina, nella terra signoreggiata?

Certo i conquistatori si mescolarono alla gente del paese, che diversissima era e quasi tritume di schiatte. Vi s’eran confuse le tribù venute d’Oriente, dalle province asiatiche, e quelle venute d’Occidente, dall’Arcipelago, forse dalla costa ellenica, forse dall’alta Africa. I Filistei provenivan forse dall’isola del Minotauro, se n’è testimonio il culto del Giove crètico in Gaza. I popoli che la Bibbia chiama Ittiti eran discesi per le vie del settentrione e sembrano – nella testimonianza dei monumenti egiziirecare qualche impronta della rincagnata Mongòlia. Ma è assai scarso il lume per riconoscere un tal concorso di stirpi. Dopo la gesta d’Alessandro Magno, i Giudei si propagano per tutto il Mediterraneo e attraggono in sé estraneo vigore: Greci e Asiatici, uomini d’altro lignaggio e d’altro linguaggio, si convertono al costume giudaico e moltiplicano le lor generazioni. Or la chioma crespa e nera appalesa forse la discendenza dai nomadi del Deserto sirio? la flavizie è forse il segno della grazia amorrea? il naso camuso è lo stampo degli avi Ittiti? Tutto, in verità, è mal certo.

Domenico Trentacoste ha dunque soltanto cercato di ritrovare, soccorso da una luce ideale, i rilievi d’una struttura eroica lavorata a martello, di dentro in fuori, dalla potenza espressiva dello spirito. È l’ottimo sforzo.

Questo Siciliano biondo, che trattava da orafo la pietra indugiandosi su una giuntura o su una vertebra come su le articolazioni d’un monile sensuale, oggi si fa d’un tratto architetto robusto che sorridendo giustifica le tre paia di coste onde nel suo nome è superato il comun numero di questi saldissimi ed elegantissimi tra i membri dell’architettura umana. I levigati marmi, che i suoi miti occhi parevan quasi inazzurrare come l’indaco fa dei lini, egli ora abbandona per la severità del bronzo figlio durabile del soffio e della fiamma. Religioso costruttore, egli mostra di sapere e di credere che il più bel tempio del mondo è il corpo dell’uomo ben nato.

Nulla più mi commuove quanto lo spettacolo dell’artefice che d’esperimento in esperimento, eleggendo, escludendo, cerca di cogliere la perfezione della sua idea e con pazienza affretta l’ora in cui la sua mano potrà dar la misura del suo intelletto. Ho nella memoria l’altro Cristo del medesimo statuario, anche mirabile; ma gioisco riconoscendo come la variazione apparentemente lieve di una sola linea basti a mutare un’opera bella in un’opera sovrana. Il primo Cristo è un eroe stanco: il dolore è rimasto imprigionato in lui, e ha il medesimo peso delle ossa. Le braccia riposano lungo i fianchi di scarso nerbo come quelle che non solevano reggerearnesearmefardello. Le mani son quelle che intinsero il pane nel piatto dell’ultima cena, per rendere la vita e per accettare la morte. Le dita in entrambe son riunite e composte; e in entrambe i pollici son nascosti, ripiegati entro la palma. Sembra che manchi a ciascuna il dito della forza, del lavoro, del prendimento; e ne viene a ciascuna una rassegnata stanchezza. Le costole sono rilevate quasi a simmetrico ornamento del torace. La gentilezza del sangue davidico sembra affinare le membra; senonché la rotella del ginocchio è prominente, grossa la nocella del polso, greve anche il malleolo. Si parte diritto il naso dalla radice ma con lieve declinazione presso la punta si avvalla: le nari in vita certo si dilatarono e palpitarono. I capelli sono come un pietoso origliere. Le labbra sottili della ferita nel costato son parallele alla linea profonda della bocca. V’è ancóra qua e qualche indizio di mollezza, non definibile.

Nulla di molle rimane nel secondo Cristo. Tutta l’ossatura obbedisce alla più fiera legge architettonica. Le clavicole, le costole, le anche esprimono il vigore costruttivo, l’idea della solidità: serrano e sostengono la potenza dell’anima. Tra il capo e il calcagno il corpo giacente disegna un arco in riposo, la cui corda sia allentata. Ne’ piedi è ancóra visibile la tensione, specialmente nel sinistro che certo è quello il quale era sovrapposto all’altro quando un sol chiodo li figgeva entrambi al legno infame. Essi son volti in su, divergenti, coi cinque tendini manifesti, col pollice annesso alle altre dita. Le gambe lunghe e forti sono, nella lor rigidità, oblique verso destra; ossute le ginocchia; asciutti ma vigorosi i muscoli delle cosce che saldamente s’incavicchiano alle anche risentite. Il ventre è depresso, quasi cavo, già in vita vuotato dal digiuno. Una profonda cavità, tra la clavicola destra e il collo a destra inclinato, esprime l’assenza del respiro, l’inerzia dei polmoni, quasi direi la fuga dell’estremo anelito; ma non come quel vuoto dell’addome che quasi aderisce al bacino visibile. («Eloi, Eloi, lamma sabactani Nell’ora di nona il grande grido è fuggito dal petto, ha riempito il cielo? L’alito ha mosso l’aria, ha formato il nembo? Ogni cosa è compiuta. La spoglia pènzola.)

Anche qui la man dritta è un poco ripiegata, col pollice rivolto verso la palma, con le altre quattro dita insieme congiunte; ma la sinistra è come nell’atto incompiuto di prendere una manata di semi. Il pollice e l’indice aderiscono pel polpastrello; aderiscono il medio e l’anulare; discosto è il mignolo e ripiegato in dentro. Ecco un linguaggio che l’anima sola interpreta in silenzio. Il dorso della destra è inclinato verso la coscia e la tocca appena appena. Ecco un’eloquenza non traducibile: quella medesima che è nelle pause della melodia, quella che è tra sillaba e sillaba nel verso, tra l’una e l’altra scanalatura nella colonna.

Come dinanzi a un torso antico, qui non ho bisogno di contemplare la testa per commuovermi. L’òmero prominente del braccio, ecco, mi penetra nel mezzo del cuore come il cuneo s’addentra nella fibra del vivo albero.

Tuttavia quanto è patetica questa testa di giovine eroe portata dal collo puro che s’allarga alla base per meglio sostenerla! Palesare la nudità del corpo, che di solito vediamo coperto dalle vesti, è ben più facile che palesare quella del vólto continuamente nudo. Il teschio ben costrutto traspare di sotto alla pelle emaciata e imberbe. Il naso tenue, di profilo nettissimo, ha il carattere delle cose che tagliano, che separano. L’occhio s’infossa sotto l’arco del sopracciglio, ma non so che veggenza attraversa la palpebra chiusa. La fronte è senza rughe: è il luogo della luce. La bocca è aperta alquanto, col labbro superiore che si rialza, senza dolore ma senza pace. Ha detto tutte le sue parole? Ancóra parlerà alla donna nel giardino di Nicodemo, a Cleopa su la via di Emmaus, agli undici su la mensa della chiusa camera. Ancóra su la riva del mar di Tiberiade chiederà tre volte a Pietro: «Simon di Giona, m’ami tu?»

Nudità agonistica. Per solo vestimento egli ha la corona di spine che i soldati romani gli cinsero. Per solo guanciale ha la sua capellatura in cui persiste l’odore del nardo. Ove sono le ferite sacre, nelle mani, nei piedi, nel costato?

Egli è senza piaghe. L’artefice ha tralasciato di segnarle. Io mi chino a guardare da presso la bocca, che in vita parlava il dialetto arameo. In arameo disse: «Ho sete» se così disse; e lo stelo d’issopo le accostò la spugna imbevuta di posca. Ma non forse conosceva il greco, ch’era parlato in Sefori, in Cesarea, in Tiberiade?

Siamo in silenzio dinanzi all’eroe perfetto. Due cuccioli maremmani, due villosi custodi di greggia, sono accovacciati sotto il lungo trespolo; e guatano con dolci occhi di bambini ridenti. «Simon di Giona, pasci i miei agnelli.» Tutta la casa tace. Il solstizio d’oro pende sul tetto.

E i fóri dei chiodi? – io dico a Domenico, per tentarlo. – E il colpo di lancia?

È vero – egli risponde, senza riflettere; e si volge a cercare la stecca di bossolo, non senza un certo impeto come se cercasse una lama per ferire veracemente. Io rimango immobile e muto, spiandolo con l’angolo dell’occhio. Non so perché, un’ansia confusa nel mio cuore una indefinita gravità all’attimo.

La materia plastica è così lucida che conferisce alla modellatura un’apparenza quasi metallica. Tutto è semplicità, solidità, convergente forza in questo grande involucro dello spirito.

Muto nell’attesa, io spio l’artefice candido. Volgendo e rivolgendo fra le dita la stecca, egli guarda le mani, i piedi, il costato. Due volte disegna nell’aria un gesto, e si rattiene. Esita. S’egli m’interroga col timido sguardo, io gli sfuggo. Ma perché il cuore mi batte come se una grande cosa fosse per risolversi?

Senza colpo ferire, egli si volge e posa il bossolo, in silenzio. Allora anch’io mi volgo. E ci guardiamo negli occhi, con i nostri nudi occhi di poeti, in un attimo di commozione fraterna. E io me ne vado, senza far motto, per serbare tutta in me quella preziosa stilla di vita ideale.


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