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IL SECONDO AMANTE
DI LUCREZIA BUTI
[1907]
figlia ultimogenita di san marco
apparizione melodiosa del patimento creatore
Dopo le calende di ottobre, 1907.
(La Mirabella)
Quante ho io anime? E tutte compiute, come se per dar compiutezza a ciascuna io abbia consunta una lunghissima vita in cimenti in ardimenti in paragoni in contemplazioni.
Tante ho io anime, e tante stirpi. «Non contento di allignare nel terreno al suo paese domestico, nobilissima pianta peregrina nel nostro terreno translata e allignata» già diceva di me, quando ero collegiale d’Abruzzo nel collegio toscano di Prato, un solenne accademicónzolo dei Misòduli. Chi di me più intoscanito, anche allora? Pareva che non soltanto io avessi bevuto a gran sorsi tutta l’acqua del Bisenzio ma pur ingollato i ciottoli. E un mio compagno già paggetto del sagrestano di Campi de’ Flagellanti, che nel dormentorio svegliandosi vedeva il contiguo letto abbandonato dall’amico della lucerna e non mi supponeva tanto ingordo di olio pallàdio, una mattina mi disse nel rullo del tamburo battuto a sveglia: «Lo so, Gabriele arcangelo. Ogni notte tu ritorni all’Oratorio del Buon Consiglio, e rientri nella predella dell’ancona e ti rimetti a dire Ne timeas Maria. Lo so, Gabriele dell’Annunzio. Invenisti enim gratiam apud Deum.»
Sorrido ripensando ch’ero anche allora nunzio robbiano, d’invetriato bianco su fondo azzurro, e che nell’Oratorio pratese del Buon Consiglio già m’era nato questo amore, anzi questa ghiottornìa venuta m’era, delle terre di Luca e di Andrea. Quando passavo con la camerata dinanzi al Duomo, a volta a volta lasciavo gli occhi sopra il pergamo del Cìngolo e sopra la lunetta della porta maggiore; e spesso mi scaltrivo a scantonare, io carcerato, verso Santa Maria delle Carceri per lasciar gli occhi al fregio dei festoni e ai quattro tondi. E quando passavamo davanti la porta del Buon Consiglio sormontata dal gallo in ghirlanda, dicevo piano al sagrestanello campigiano che anteponeva san Luca a Sallustio e san Matteo a Cornelio Nepote: «Bizzoco, stasera, dopo la cappella, io torno qui senza cena. Non mi tradire al censore, beghino. Missus est angelus Gabriel a Deo consilii divini nuntius et humanae pacis sequester. Così sia.» Ma già il sogno sacrilego faceva più ambiguo il mio sorriso; e già io mi fingevo che la porta stretta fosse quella del monastero di Santa Margherita.
Quanto di quel mio sorriso e quanto di quel mio gioco e quanto di quella mia imaginazione rifioriscono mentre cammino verso Certomondo a discoprire una di quelle «opere di terra quasi eterne» seguitata da un de’ miei segugi? È un mattino di settembre, dopo l’equinozio. L’aria è temprata d’una così chiara toscanità che, dalla semplice parlatura d’un legnaiolo di Stia mia guida, mi sembra avere in me rinfrescato lo stupore di Bonagiunta quando nel girone ode per la prima volta il dolce stil nuovo. «Sei Braciola da Stia? Sei tu Orbecco da Palagio?» Mi faccio l’orecchio attentissimo di un accordatore per intonar le mie domande alle sue risposte, il mio accento al suo. Mi ritorna nella memoria l’irrisione feroce dei miei condiscepoli nel ginnasio pratese quando per la prima volta chiamato mi levai dal mio banco a declinare il nome della rosa pronunziandolo come fosse il participio passato del verbo ródere. Mi ritorna nella memoria quella mia costante e orgogliosa disciplina vocale per cui giunsi in breve a correggere i suoni del dialetto nativo e a vincere di «moderazione con bellezza» perfino un mio emulo affettatuzzo di Siena. «O rosa che di Napoli venisti, e ti bagnasti nella Fonte Gaia!»
Andiamo verso Campaldino. L’opera nascosta di Luca o di Andrea è laggiù, a Certomondo, forse nel luogo del convento francescano fondato da due de’ conti Guidi in rendimento di grazie per la vittoria di Montaperti. Cammino sopra la battaglia, calco la strage. Dante è là, a cavallo co’ feditori; e vedo che cavalca lungo, vedo che ha staffa lunga, com’è la mia maniera in caccia. Io però son di quei pedoni che poi si metteranno sotto i ventri de’ cavalli con le coltella in mano. Ho vista corta, come il Vescovo; ma ben distinguo i palvesi de’ nemici.
La campagna ha un odore appassionato, forse di foglie che il settembre cuoce. Ma nel terreno non è grassezza. La figliola di Ugolino non potrebbe oggi dire crudelmente alla donna di Buonconte «che il terreno senta ancóra di quella grassezza» e ghibellina e guelfa; ché tutto il paese è magro e rilieva l’osso ben costrutto, ogni lineamento è scarnito e smunto, ogni dintorno si assottiglia e taglia come la mascella di Dante ventiquattrenne o come la mascella della scure di Guglielmino.
Eccoci. Sotto le formelle d’un soffitto da refettorio boccheggiano tini riversi, sgocciolano botti risciacquate, stagna un’afa bassa di vendemmia vecchia che si risente. In un rudere di chiostro un galletto battagliero di Valdarno canta sopra un ceppo d’aratro sementino. Dov’è la terra cotta?
È murata nel muro della fienaia, è imbiancata di calcina, incrostata di più imbiancature, quasi agguagliata dalla crosta all’intonaco. Tuttavia la sento.
Sento il fortore dei secoli come qui sento l’odore del fieno grumereccio. Sento la struttura cruda di questa famiglia contadina aguzzarsi al guadagno, come sento la prosa di Giovanni Villani allegrarsi in gaggio di battaglia o il Pratomagno farsi più grande di sé nella terzina del secondo balzo. Tutto quel che v’è di pio e di rubesto nel Casentino sembra a un tratto scendermi nel più profondo a ritrovare le matrici del mio genio originario.
Ecco che nel segreto libro della mia memoria si solleva a un tratto, come a un soffio di gioventù, la pagina d’un altro mio pellegrinaggio per le mie terre d’Abruzzi. «Andavamo per le terre, nella grande estate, cercando le tracce di quella bellezza che ci aveva generati alla poesia. Avevamo nel cammino la gola riarsa dalla sete; e non so che ansia di apparizioni e di rivelazioni ci riardeva più giù della strozza. A Sulmona, nella cattedrale di San Panfilo, davanti a un dono sconosciuto d’Innocenzo VII, ci pareva d’apprendere una modulazione sconosciuta, e quasi una maniera incognita di fiorire, guardando l’oro del calice sorgere dall’argento della corolla come non mai metallo flavo sorse da metallo bianco primaverilmente effigiato d’angeli musici. E andavamo, andavamo più oltre. Di chiesa in chiesa, di sagrestia in sagrestia, di tesoro in tesoro ci avveniva di scoprire le altre croci processionali, quelle con l’astile, quelle senza astile che potevamo reggere su le nostre braccia, che potevamo tenere fra le nostre mani pel traverso come un’urna crociata per le due anse dolenti offerta alla nostra arsura. Assetati eravamo dal cammino; e le belle croci chiare ci dissetavano. In talune era qualcosa d’indicibile che ci lasciava pensosi e perplessi in via. Sentivamo l’artefice turbato dal primo soffio del Rinascimento, già toccato da una indistinta seduzione; sentivamo quasi un’amorosa incertezza nella sua mano condotta dall’anima inquieta, nel suo cesello raggentilito, nel suo smalto rinfierito, nei rapporti insoliti del duplice metallo. E taluno di noi, forse il più giovine artista, quegli che forse avea pur vissuto all’inizio di tale intagliata e colorata e musicata primavera, quegli che pur ne serbava nelle sue vene la ricordanza e l’ansia, taluno di noi più lungamente tratteneva nelle sue mani e nelle sue pupille il segno. E, se era un calice di benedizione, elevandolo, come nell’offertorio, ripensava in sé parole dette o non dette: – È questo il mio calice, questa è la parte del calice mio. – Forse credeva egli che fundo in imo fervesse la sua arte novella. Senza officio e senza musica faceva quindi l’offerta all’avvenire. Ma pur chiedeva alla sua propria novità se di garbo più breve e più casto fosse quel calice d’elettro offerto alla vergine iddia della sapienza da Elena, fatto a forma della mammella ledèa. E ancor si turbava; perché taluno al suo fianco, inconsapevole, presso il tesoro dell’Annunziata, aveva detto: «Un tempo vendevano i calici per riscattare gli schiavi.»
Sto in piedi, sopra un’asse poggiata in piano a un cavalletto, dico veramente sopra una vera scala d’imbiancatore; che una di quelle donne m’assicura col suo peso affinché io non trabocchi nello sforzo di raschiare l’impiastriccio con la mia coltella aretina da sbudellar cavagli guelfi. Indovino e palpo la testa dell’arcangelo, la sua zazzera, le sue braccia conserte, l’ala destra acuta, il ginocchio destro piegato, il vaso con entro cinque gambi di gigli fra esso e Maria. Indovino il volto chinato della Vergine assisa, le sue man congiunte presso il suo mento, il libro aperto su le sue ginocchia, i due piedi che avanzano fuor della sua veste piegosa.
Quest’asse brandisce; ma come non si spezza? Regge il peso d’un sol uomo? o di quanti uomini?
Non è un’asse piana e liscia. È il mòzzo d’una ruota che gira, il mòzzo d’una ruota d’anime. È la sala d’una ruota vertiginosa, l’asse di un mondo volubile e tacito. È d’oro come quello del carro solare. Volat vi fervidus axis.
Quanto mi piace che la natura abbia privilegiato me per adunare mescolare trasmutare sublimare in un attimo le più remote e diverse e prodighe e peregrine ed esquisite essenze dello spirito! In cima a questa scala d’imbiancatore, contro questo mezzorilievo robbiesco, con questo raschiatoio tagliente in mano, nell’odor del fieno seròtino, mentre il galletto pettoruto canta di sul timone, mentre un poledrino nitrisce quasi imitando il belato pavido, mentre un bimbo moccioso gioca con un lacrimatorio escito chi sa da qual sepolcreto, mentre dietro le mie spalle passano l’Arno laggiù sette secoli toscani e s’avanzano come sette bandiere dell’oste raunata sul Monte al Pruno, io discopro una bellezza ignota dentro me insaziato d’anni o in un muro vecchio di fienaia? Il cuore mi trema, i pensieri mi vacillano; ma la mano è confermata dall’attenzione, il polso è agevolato dallo scaltrimento. «Senno in Lombardia, scaltrimento in Toscana.» Raschio a poco a poco; e abile sono a evitar che la polvere della raschiatura m’entri negli occhi. Sono tutt’occhi, e trattengo il respiro. Mi rifaccio della testa di Gabriele. Ora mi sembra di liberarla da spesse croste di lebbra; e ora, bagnata la prima sgrossatura, mi par di diliscare una scàrdova di molte scaglie, al modo dantesco di Griffolino d’Arezzo. La donna, che m’assicura la scala, regge sul capo un gran catino d’acqua dove io a quando a quando inzuppo uno strofinaccio da stoviglie e ripulisco e lustro. L’ampiezza del catino me la nasconde, di sopra in giù. Chinandomi a raccattar su l’asse un ferro che m’è sfuggito di mano, la sbircio; e un poco m’indugio chinato a rimirarla, perché è fatta fieramente come una di quelle fanti da Piero della Francesca atteggiate intorno alla regina di Saba che adora il trave miracoloso.
Mi rialzo; mi rimetto a raschiare; con l’acume penetro nelle bóccole della capellatura, ritrovo a una a una le rivolte dei riccioli; contorno l’aureola. Vo rinettando tutti i cavi e i rilievi, intorno alla fronte e per la tempia e pel collo e per la nuca. Il coltello alla mia sottilità palpitante è cesello grosso o mezzano o piccolo, è ciappola o tonda o quadra, è punta di smeriglio, unghia di bulino; e sempre è amore, e sempre è timore, e sempre è ardore. E mi par di meritar l’elogio che s’ebbe dal Ghiberti il figliuolo appunto dell’imbianchino di Valdelsa; il qual nel rinettare «ebbe molto buona maniera e intelligenza». Or è bronzo questo, come la porta di San Giovanni? o come quella della prima sagrestia di Santa Maria del Fiore, che facea dire ai maestri di getto quanto giovasse a Luca «essere stato orefice»? Qui dunque Luca incredibilmente è tornato al bronzo dalla sua terra invetriata?
Attentissimo sono a non scalfire, a non sgraffiare lo smalto. Or non il cuore soltanto mi trema, ma mi comincia a mancar la mano. Mi arresto, a quando a quando, per signoreggiare l’ansia che mi soverchia. Sotto l’acume la materia mi si muta come mi si muta l’anima. Era calcina grossa, e poi era terra cotta, e poi pareva bronzo; e ora è cosa viva. E ora mi torna dalla lontana puerizia l’imaginazione del beghino di Campi, quasi recata da uno sprazzo del sangue d’allora, da una vampa della fantasia d’allora. «Io lo so, Gabriele dell’Annunzio.» E mi sembra che si faccia silenzio in Certomondo come quando il Vescovo a cavallo si scaglia nel folto della mischia per morire. Anche la donna disegnata da Piero è immobile così che sembra reggere il catino come la cariatide regge l’architrave. Non odo il suo respiro, non il canto del gallo, non il nitrito del poledro, non il fiotto del bimbo. Odo il mio gran cuore; e quasi l’anelito della campagna che si cuoce al sole di settembre in un lento martirio estatico, e il compianto eguale delle cicale che si estinguono nella stagione estinta; e l’intermesso favellio del vento fra chiostro e cantina, fra sagrestia e fienaia. E il mio cuore sente che la Pescara confluisce nell’Arno, come il Solano, come l’Archiano. E il mio cuore sente che la Maiella s’arrotonda sopra la Verna, come a beare e indiare il petto materno che mi deve rinutrire. E il vento mi porta la voce della mia madre, il mio nome nomato dalla mia madre. «Gabriele! Gabriele!»
Temo di traboccare in fuori, dall’asse che brandisce sopra la scala. I confini dell’anima si perdono, i confini del corpo si cancellano. Il ferro mi sfugge dal pugno. Il volto mi si piega su quell’effigie che la polvere tuttora ingombra. Le mie palpebre serrano uno sguardo che forse non m’appartiene, che forse non ebbi mai.
Non raccatto il ferro; ma riabbraccio la mia volontà nel mio mistero, con un impeto quasi ferino. Mi volgo per rituffare il cencio molle nella conca. Il gioco della luce fa dell’acqua specchio. Nello specchio ignoto scopro il mio viso ignoto, il mio sguardo ignoto, che non vedrò più mai, che non avrò più mai.
E credo di scoprirlo un’altra volta quando aspergo la testa del messaggero, quando la detergo, quasi per sacramento, quando viva e pura l’ho dinanzi a me vivo e puro, rivelata dall’acqua e dall’anima, restituita al fulgore e al fervore.
Missus est angelus Gabriel a Deo.
il catino di certomondo
Così ho compreso il valore degli occhi nelle figure di Piero. Ho compreso perché quel loro sguardo mi commuova tanto a dentro e m’incanti. Ho compreso perché taluna di quelle figure, alla prima vista, mi paresse interiormente vivere sotto certe incantagioni e sotto certe costellazioni e in un certo ordine di cagioni recondite. Allora pensavo: «Costantino dorme sotto la tenda, vegliato dalle sue guardie. È l’uomo della sua storia, emerso dalle sue note fonti istoriali; è l’uomo de’ suoi eventi e de’ suoi gesti e de’ suoi detti insigni. Ma se si sveglia, ma se apre gli occhi, scopro in lui l’oscurità d’un sogno che non è il suo sogno interpretato, la profondità d’una visione che non è la sua visione celebrata. Il suo capo prieme il suo capezzale; il suo corpo rilieva la sua coperta; il suo letto è bene acconciato, con la sua rimboccatura fatta. Ma, se apre gli occhi, conosco un altro essere in lui, conosco in lui un aspetto di quel mistero fisso che occupa il suo paggio sveglio con pontato il gomito e con la gota nella palma. Se apre gli occhi, il suo sguardo propone al mio potere lirico la divinazione e l’interpretazione d’un altro fato.» Così pensavo. Già dunque allora gli occhi chiusi di Costantino sognante mi aiutavano a comprendere quella portentosa ambiguità delle «cose vere» e dello «incognito indistinto» ne’ freschi di quel pittore che «ebbe bonissima cognizione d’Euclide».
Nel catino della villana di Certomondo è il segreto di Piero della Francesca. Nella spera dell’acqua io mi son visto come Giuda cavato dalla cisterna, come alla sommersione di Massenzio il cavaliere dalla mazza ferrata sul cavallo ubero, come nella disfatta di Cosroe un dei feditori dal morioncello o dalla cappellina. Le palpebre contengono lo sguardo quasi imprigionandolo, se pur si possa imprigionare l’innumerabile o l’infinito. Mi fingo che qui «tutti i migliori giri tirati nei corpi regolari» sieno come un solido laberinto ove si celi il mostro ignoto. Ognuna di queste creature, o inginocchiata o eretta o in ammanto o in arme, mi appare come abitata da un altro essere non umano e non divino, da una sorta di bestialità misteriosa e fatale che guati per gli spiragli e non formata soperchii le espresse forme esatte. Il mio sguardo, nella spera ripercosso all’improvviso, esprimeva assai più che me uomo determinato, era assai più potente di me uomo limitato. Così, nelle invenzioni di Piero del Borgo a San Sepolcro, là dove egli merita, ahimè, «lode grandissima per avere contraffatto in fresco l’armi che lustrano», gli sguardi sono più potenti e affatati di coloro che con le ciglia li frenano. Il pittore di Maria Maddalena e di Lodovico re di Francia, tanto incurvato a studiar le «cose vere», tanto pieno di prospettive e di scorci, è l’occhiuto onnivedente; e il suo simbolo di geometra frescante per me imita quello del Padre nostro: un occhio di luce nera in un triangolo sferale.
Sempre ne’ suoi freschi un solo sguardo di santa, di savio, di reina, di famiglio, di guerriero, di donzella, di vittorioso, di sconfitto, di adorante, di annunziante, sempre crea una luce arcana tra i corpi «troppo belli e troppo eccellenti». E la mia perspicacità torna al Cupido bendato che senz’arco scocca il dardo; s’indugia in quell’angelo scoccato con il capo all’ingiù, che illumina di sé il tabernacolo del dormiente Costantino e le guardie in arme e il paggio in pensiere e tutti i dintorni «con grandissima discrezione».
L’altrieri, nel coro della chiesa di San Francesco, considerando il muro dove è la fuga e la sommersione di Massenzio, interrogando gli intervalli eloquenti fra le aste e le insegne, mi aguzzavo nell’imaginare a misura della potenza di Piero la fuga e la sommersione di Buonconte. Gli occhi della mente aguzzavo per vedere gli occhi mortali del Montefeltrano forato nella gola, che sanguinando giunge a piede insino la foce del fiume funesto, mentre le negre nubi procellose tumultuano sul dosso di Pratomagno e i primi baleni squarciano la notte precoce e le prime tuona mugghiano. Egli cade, col nome di Maria al sommo dell’anima che s’invola salvata dalla lagrima: cade la carne sola e si profonda, con le braccia incrociate contro il petto. Lo vòltola e lo stràscica e lo sbatte la rapina dell’acqua sanguigna. Gli scioglie la croce delle due braccia. Gli sconficca il petto dalla sua croce d’ossa.
Or chi erra giù per le ripe, chi si travaglia tra sassi e radiche, a ritrovar quella croce spaventosa di carne esangue?
Non Giovanna la donna di Buonconte, che non n’ha cura. Non il Vescovo che s’è tolta la celata per combattere a capo scoperto, per mostrare al guelfo e alla morte la sua corona clericale, per far di sua tonsura ultima sfida agli uccisori.
O Piero da San Sepolcro, il tuo Costantino manda l’imperatrice a ritrovar la croce di Gesù. Ma, a similitudine dell’acqua che scioglie la croce umana, non Elena scompone la divina? Non porta ella un legno seco, e non lascia l’altro legno nel tempio alzato là dove sorgeva quel di Venere?
Or dipingimi sul muro l’invenzione della croce di Buonconte in questa chiesa edificata dalla Misericordia e da frate Giovanni di Pistoia. E ponimi in un canto, là dove posto hai l’uomo ammantato, ponimi l’uomo dal lucco rosso, quello del Purgatorio; che non sanguina e non lacrima e non cade. E mostrami come tu gli fai l’occhio grifagno; mostrami il troppo fiso sguardo che tu gli sai dare.
Mi cerco e mi ricerco in questo Casentino di passione e di preghiera, come già mi cercai e ricercai nel suolo aspro dove nacqui e nel dolore di colei che mi portò. Se nato non fossi nella terra d’Abruzzi, vorrei esser nato qui, nella terra della Verna e di Michelagnolo. Qui, più che altrove, posso io irrobustire la mia pertinace salvatichezza nativa e nel tempo medesimo spiritualizzare fino all’apice della grazia ogni mio istinto selvaggio.
Quando feci soggiorno in Romena, presso il castello dei Guidi, l’estate era così arida che pareva «tener le labbra aperte» come la miseria del maestro Adamo. Tutti i ruscelletti verzicanti, tutti i canali freddi e molli parevano disseccarsi. E pur mi piaceva che di tanto rea sete ardesse il luogo dove il Bresciano falsò la lega suggellata. Anche una volta l’invenzione e la realtà si fondevano in me così misteriosamente che ne ricevevo un senso della vita novissimo, quasi sostanza incognita creata da quell’alchìmia ch’esercitò Capocchio il vicin lebbroso del maestro Adamo. E della mia intima alchìmia pensavo, come penso, al modo confuciano, essere «un genere di pazzia che non pregiudica alla saviezza».
Ma chi potrà mai ritrovare e noverare in una grande corrente lirica le vene gli spiriti gli alvei? La mia non beata beatrice sorridendo e un poco irridendo osservava come io forzassi anche l’acqua tapina dell’idropico di Romena a percotere la pala della mia rota folle, e come io fossi pur riescito contro Dante a troncar l’anguinaia del falsatore «fatto a guisa di liuto» per meglio adattarlo alla mia orchestra pànica.
Era il tempo dell’ebrietà di Alcyone. Era il tempo di quelle metamorfosi immortali. Ogni giorno mettevo la sella a un cavallo balzano da tre ma non alato; e me n’andavo a passar l’Arno; o me n’andavo verso la Giogana, verso «il gran giogo» a bevermi un sorso della Fonte Fredda, a tentare un galoppo alpestre sul Prato al Soglio. E ogni giorno mi trasfiguravo nell’estro d’una laude eterea come una lodola o muscolosa come una lonza.
Si dice che nessuno, e neppur la sibilla, osasse investigare l’adito sacro onde saliva l’afflato delfico ed erompeva l’ànsito dei responsi. Tuttavia non ho mai temuto e non temo di guardare nel più profondo di me per iscoprire come dall’ingombro carnale, come dalla bestialità indomita, come dalla turbolenza sanguigna si esalino le aure divine del mio spirito, si sprigioni l’anelito del mio presentimento, si riveli il segno della mia vocazione, s’inalzi il mònito del mio nume.
Non mi turbo quando la mia fiamma interiore dissolve gli elementi del mio carme e mi ricaccia in bocca il gusto del mio sangue e della mia cenere. Non mi sbigottisco quando il troppo ardito gioco dei miei pensieri e delle mie concordanze e delle mie discordanze solleva pesi ignavi che mi ricadono sopra. Non anso quando contro le mie coste, dilatate dalla mia aspirazione verso ciò che non muore, patisco l’urgenza d’una materia che non signoreggio. E veggente e antiveggente io non disdegno di credere che l’aquila ha una terza palpebra a ricordo della sua origine di rettile.
In un mattino d’agosto mi levai, non so perché, con l’inquietudine energica dello statuario che deve accendere la fornace e gittare di bronzo la sua statua. Tutti i miei pensieri mattutini mi parevano formarsi in una specie di sensualità plastica. Il mattino era ambiguo così che non distinguevo se la mia smania si generasse dalla nuvola densa o dal cielo afoso. Anche nell’aria era come una volontà di colorarsi d’una concia insolita. Mi fingevo che volesse imitare quel ceruleo da certi artieri vetustissimi fatto con lastre di rame immerse nella feccia del vino. Anche gli olivi s’erano incupiti stranamente, s’eran come abbronzati ne’ tronchi scarni; e mi evocavano nella stranezza della mia fantasia di gettatore quei guerrieri votivi di Sicione dall’unghie incrostate d’argento.
Mi sellai da me il cavallo; da me gli imboccai il filetto, m’imbavai le dita; gli respirai contro le froge, mi lasciai respirare in faccia, comunicai con l’animo equestre la mia anima umana; balzato in sella, aderito al mantel sauro, sùbito mi sentii mezzo uomo e mezzo cavallo, sùbito si sentì egli mezzo cavallo e mezzo uomo. E mi misi a ridere del mio stalliere che mi raccontava come il suo padre, là presso Romena, giù dalle torri mozze di Guido Guerra e di Guido Pace, in una caverna segreta avesse ritrovato il falso conio di mastro Adamo. Dissi: «E io stamani ho genio d’andare a ritrovare la macìa dell’uomo morto, che m’insegni a falsar la lega suggellata del Battista, con tre carati di mondiglia, se il conio è pronto.»
Spinsi il cavallo verso la Consuma; presi la strada vecchia fiorentina; cercai la strada rustica dell’Ommorto; la trapassai d’un miglio scarso; vidi un mucchio di sassi biancicare; conobbi una di quelle «diverse biche» che putono nella decima bolgia; mi finsi il Bresciano sotto le pietre non arso ma tuttora fatto a guisa di liuto, e la ventraia rigonfiare e arrotondare il mucchio. Sicuro, feci: «È questa la macìa dell’uomo morto.» E non fallai. Era quella.
Il mio cavallo un poco paventava; ma la dolcezza della mia mano e della mia voce, e il mio gergo equino che intendevamo entrambi, riesciron a piantarlo su i quattro zoccoli davanti al tumulo dell’idropico. Guatavo dentro me? fuori di me? E dentro e fuori dovevo aver recuperato gli occhi ch’eran rimasti laggiù nel catino di Certomondo. Ero un cavaliere? Ero un formatore? Formavo me stesso dal limo della terra? Rimpastavo il mio limo e ne facevo una figura incognita? Veramente m’innestavo nella bestia? Imparavo l’arte degli innesti dall’inventore greco del centauro? o da quell’infernale plasticatore che nella settima bolgia sovrumanamente incrudelisce contro Agnolo e Cianfa?
Verba sicut ceram formamus et fingimus.
Ma questa macìa non involge la forma con una rivestitura di sassi in vece di terra, come in una officina fusoria smantellata? So che dentro non v’è l’Ommorto ma l’opera d’arte immarcescibile. La vedo. La sento nel mio pollice creante. Non bado alla ventraia tesa, all’epa croia, difformata dall’acqua marcia, senza gradi di piani e di rilievi, notabile non più d’un tamburo senza stringoni scordato, se non vi si stirasse atrocemente il bellìco simile all’albugine di un occhio sgranato dal terrore. Mi fisso nella faccia smunta che pare una foglia secca rimasta attaccata al picciuolo d’una zucca vernina; e, come la membrana ancor si regge appena appena tra le nervature, così la pelle morticcia resta sopra l’ossa che tutte quasi alla mia notomia si appalesano. E anche il braccio m’attira, esente da gonfiore, bene intagliato, co’ muscoli asciutti, col gomito aguzzo, con la nocca del polso rilevato, con le dita chiuse a pugno così che le unghie avare rincavano le incisioni della palma, come quando mastro Adamo percosse il volto di Sinone da Troia nell’alterco e il pugno non parve men duro di quel che il Greco gli aveva sonato nel tamburo della pancia. «Or pur mira! Che per poco è che teco non mi risso!» Mi risso? No. Questo significa che io non rivaleggio se non coi maggiori di me. E mi piace.
Nel cavalcare verso Pratovecchio, nel risalire alle torri di Romena, mentre di quando in quando l’andatura della mia bestia sembra insinuarsi a tempo nel metro delle cicale che han già messo tra le loro corde il rastrellino di tre denti doppii, mi godo d’una specie di fervore muscolare, d’una sorta di ebrezza «scùltile o conflàtile», ponendomi in un accordo equestre così perfetto che quasi è come s’io mi provassi in commettermi al cavallo e in ottener la perfezione dell’innesto. Ma come son io tanto leggero e pieghevole in sella se porto addosso di tutto rilievo l’abbozzo d’un gruppo più fiero che il bronzo della miglior battaglia di Bertoldo discepolo di Donato? Non so.
Verba sicut ceram formamus et fingimus. Faccio di cera? faccio di terra? Sbozzo e finisco la pietra d’un tratto a furore di martello?
Faccio di gitto. Formo d’animo e gitto di bronzo; e attendere non posso. Non do tempo alla creta che mi si risecchi, non al metallo che mi si raffreddi. Son io la mia fornace, e sono il mio attizzatore, il mio manovale di qualsisia bisogna. Della mia penna ho fatto il mandriano a percotere la spina. La colata è di sangue bono; e ne’ rami di gitto, nei numeri del verso, mi discende dal cervello.
Tanto fervore, tanto vigore, tanto furore in una stanza angusta come una cella di Camaldoli! Della cella di san Romualdo mi piace che qui non ci sia se non la mola senza stanga, di bona pietra; e dopo il gitto la scarpellerò. Dentro ci voglio ritrovare il dio vero.
Ora m’imbestio. Di non so che divina bestialità m’inebrio, e di non so che semìfera poesia pasturata dell’erbe di Circe, magata di pastura favolosa. Ora la finzione è demenza; e di abbandonarmi alla mia demenza pànica ho una tema puerile.
Sono solo. Il pomeriggio si tace; la casa si tace. La porta è socchiusa perché entri nell’afa qualche bava di vento. Spezzo una penna, spezzo un’altra penna. L’una dopo l’altra spezzo nell’impeto tutte le asticciuole «prima elette». Certo, lo spacco della penna non mi vale la tacca della freccia. Sono in piedi davanti al leggìo, con alta la mia fronte di poeta; ma contro le mie coste forti sento l’urgenza d’una forza che non so più dominare né misurare.
Si scrollò, si squassò, si svincolò.
È la lotta del centauro e del cervo, nella pineta tirrena, in riva al Serchio. Abbattutosi nel cervo appostato dal cacciatore, il bimembre lo assale, lo espugna e lo uccide.
Tra luci ed ombre, sotto il muto cielo
saettato da sprazzi porporini,
lottavano. E su i due corpi ferini,
su le zampe le punte il fitto pelo
il crino irsuto il prepotente sesso,
io vedea con angoscia il capo alzarsi
di mia specie, agitare i ricci sparsi
quel vento d’ira sul mio capo istesso.
Che più m’importa della mia arte se io stesso divengo la materia della mia arte, la qualità della mia finzione materiata? Che m’importa de’ miei ritmi se io medesimo sono il respirante impulso del mio poema?
Una specie di dèmone mimetico mi possiede. La sua veemenza mi respinge dalle mie carte, mi prende, mi tiene. Mi preme la nuca, mi piega la schiena, m’abbassa le braccia, mi ponta le mani aperte su l’impiantito di mattoni, mi cangia le mani e i piedi in quattro zoccoli, m’avviluppa la lingua tra parola che rigna e nitrito che parla, mi chiude nel contorno vocale della mia strofe che io chiudo.
Ma l’uom co’ pugni avea divaricato
e divelto le corna del nemico.
Dietro di me, senza volgermi, senza rialzarmi, indovino una presenza inattesa, prima che per la porta socchiusa mi giunga un accento espresso di stupore, un timbro di riso represso, un motto di arguzia rattenuto. Attimo indicibile di vergogna e quasi di schianto, che mi rapisce a patire nel fondo dei tempi il sacrilegio del mistero interrotto, del segreto violato!
Mi rotolo, mi rannicchio, mi nascondo il viso tra le braccia; ricopro la mia confusione e il mio rossore; mi sembra d’esser ferito, mi sembra d’esser blandito; non so s’io abbia voglia di piangere, s’io abbia voglia di ridere; non so se mi convenga di ostinarmi nel mio cruccio puerile o di lasciarmi sciogliere dalla grazia festevole. Non so più nulla di me, non so più nulla del mio prodigio né del mio delirio.
Resto col viso nascosto, aggruppato e contratto nella mia angoscia oscura. Odo il passo discreto che s’allontana. Mi par d’intravedere il sorriso fuggitivo di una pietà che comprende, d’una grazia che sa. Non mi rialzo; non mi rilasso. Sul mattone insensibile il mio corpo s’appesantisce sempre più; mi diventa sempre più opaco e ottuso, come se si estinguesse a poco a poco nella mia carne il fosforeggiamento del mio pensiero e a poco a poco si affievolisse il fremito della forza intrusa.
Il chiarore vanisce. Il sopore m’adagia.
Ero al colmo della vita. Sono tuttora al colmo della vita, se bene senza passato, se bene senza presente, se bene senza avvenire. L’uso dei limiti e dei termini m’è vano. Rimemorare non è per me aver vissuto né rivivere; ma è vivere nel vivere. Credo che io sarò sempre al colmo della vita finché io non mi parta dalla vita: nel senso del potere in ogni attimo dal vertice abbracciare tutto il giro di essa vita. L’ammonimento emblematico di quel remotissimo savio «Fa tu un’isola per te stesso» non è in me una disciplina di volontà ma una creazione spontanea e reale, come una di quelle isole improvvise che sorgono dall’oceano e non appariscono sopra l’acque se non in forma di eminenza dirupata, in aspetto di guglia inaccessibile senza approdo che pianeggi intorno ma con intorno solamente un orlo esiguo; che non è l’orlo topico dell’abisso o del precipizio, bensì l’orlo del rischio o del segreto.
Io vivo, a me sempre piacque di vivere, su l’orlo del rischio e su l’orlo del segreto.
Su l’uno e su l’altro è intieramente abolito il comun senso del tempo. Su l’uno e su l’altro come sul vertice, non vige se non quella specie di tempo che è la fluidità stessa della vita interiore. Mi son beffato, sin dal banco della scuola, di quel «vecchio asciutto» che nello Scherno degli dei «tutto il giorno sta co ’l polverino in mano». Assai più dell’oriuolo da polvere mi piace l’oriuolo da acqua; e anche più quel da luce, che io stesso inventai per dissimulare nella mia casa di fatica e di voluttà le lampade elettriche. Ma nella clessìdra io ripugno a considerar la misura; non considero se non la fluidezza, che nel mio spirito è indicibilmente più celere e più ampia. Clepsydra mentitur… Sul banco della scuola non ritenni io di Giovenale se non questo emistichio. E sempre mi risi, non senza spregio, di que’ miei condiscepoli che alla nascosa, con una imperturbabilità di ladri spartani, s’ingegnavano di scuotere e sbattere, in barba dell’esaminatore intorpidito, il polverino dell’esame orale, per affrettar la fine del tormento inquisitorio.
Soltanto le invenzioni e le trasgressioni dello spirito, soltanto le novità e le temerità e le avidità dello spirito possono accelerare il ritmo della vita. E pur sempre mi rido, non senza alterezza, del gesto furbo e furtivo che veggo moltiplicarsi intorno a me nel mondo innumerabilmente, forse non men puerile di quello che m’avvenne di sorprendere nell’aula de’ miei studii.
Io, ne’ miei belli attimi, riduco a una folgorante unità lirica gli spiriti e le imagini che a me vengono dai quattro punti della sfera e da tutti i punti dell’orizzonte trovando in me accoglimento e comprendimento simultanei. Anche i vènti dello spirito hanno una Rosa con assai più di trentadue rombi; anche le età del mondo hanno una Rosa con assai più divarii che a distinguerli non bastino tutti i metalli nobili e vili dei pianeti e delle stelle fisse. E con l’una e l’altra Rosa io mi son piloto perdutissimo a scoprire i miei mondi: al sommo? all’imo?
Più dell’oceano m’attira l’empireo. Il cielo mi rapisce come un fato delle mie midolle, non nel senso cristiano. In quel medesimo eremo di Romena, dopo l’imbestiamento sanguinario, composi il Ditirambo d’Icaro. Per giorni e giorni l’ombra d’Icaro mi tormentò e mi esaltò. Lo vedevo tra me e le persone familiari, tra me e le cose consuete, talvolta col rilievo e col colore dell’allucinazione.
Quasi il color marino aveano assunto
le sue membra, ma gli occhi eran solari.
Su i prati della Stradella, al Poggio Caprenno, al Piano della Malanotte, alla Lama, alla Penna, mi drizzavo su le staffe per meglio campeggiare nell’aria delle alture, inchiodato alla terra co’ quattro ferri della mia bestia. E l’ombra era là, talvolta così da presso che mi pareva a una lunghezza di rèdine alzata sopra la fronte senza ciuffo, come la croce di luce su la fronte del cervo apparita a Eustachio in selva.
Ben al Monte della Penna vidi a un tratto levarsi dal sasso precipite una grande aquila di color lionato. E, ritto in sella, inventai il combattimento fra l’alunna di Giove e il figlio di Dedalo.
una goccia di sangue larga e calda
come goccia di nuvolo d’agosto
Lampeggiava e tonava su la Giogana. Era la prima goccia della bufera d’agosto.
Se tutto a me doventa poesia, il mondo non è dunque la mia sostanza? Mi basta guardarlo, mi basta fissarlo; e lo prendo, lo posseggo, l’ho dentro me.
O Dèspota, costui – dissi – è l’antico
fratel mio. Le sue prove amo innovare
io nell’ignoto. Indulgi, o Invitto, a questa
mia d’altezze e d’abissi avidità!
Ma non era il mio fratello; era il mio animo, era il mio corpo stesso; era il mio cruccio d’uomo senz’ali, era la mia ansietà di volo, era la mia smania d’eccesso e d’oltranza. Non egli anelava in me, non egli gridava in me; sì bene io gridavo in lui «con tutte le midolle del mio cuore», come diceva il mistico nel ratto. E mia, mia solamente, di me solo era anche la parola del mistico. Non avevo mai sentito nel mio petto un animo tanto tirannico, tanto predace, tanto vorace.
Per un sospettoso istinto di pudore, per un risentimento di quella vergogna già arrossita, non più lasciavo socchiuso l’uscio. Mi rinchiudevo, e m’affocavo e soffocavo. Mi sbattevo come un’aquila ardente in una gabbia cieca, come doveva sbattersi Icaro nella caverna dove il padre gli foggiava l’ali con troppa tardità. La poesia mi faceva groppo alla gola, come il pianto, come il sangue. La mia volontà di dire rompeva il metro, superava il numero. Ogni grande strofa del Ditirambo m’incominciava «Icaro disse», mi ricominciava «Icaro disse», mi si rifaceva «Icaro disse». Era come un’ambascia implacabile; era come uno struggimento di bevere il soffio dell’altezza titanica; era come una brama di eguagliare nel respiro il petto di Pan.
Non avevo padre, non avevo più padre. Parlavo a me stesso; gridavo verso me; sfidavo me, disubbidivo a me.
io con te lotterò, per superarti.
Fin dal battito primo, io sarò l’emulo
tuo, la mia forza intenderò per vincerti.
E la mia via sarà dovunque, ad imo,
a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola,
sarà dovunque e non nel medio limite…
Soffrivo. Ma c’era un’anima in me, un’anima senza volto, che soffriva più di me, abbrancata e strizzata dalla tanaglia della sorte, da una di quelle tanaglie che i fonditori di metallo chiamano abbracciatoie. Non riescivo a svincolarla; e sapevo oscuramente che si sarebbe un giorno svincolata con la sua sola stratta, per andar più alto di me, per sorpassare tutte le mie mete.
Udivo talvolta un fruscìo lieve dietro la porta; e il cuore mi tremava con tutte le midolle, come non avrebbe potuto tremarmi se avessi inteso stormire il peplo della più casta fra le muse. Era la veste della pietosa. Era la pietosa venuta a origliare. Mi sentivo tanto pallido; e pure mi sembrava di farmi più pallido.
Anche una volta un pudore selvaggio, e forse divino, soffriva in me. Scrutavo intorno come per accertarmi che non fosse alcun indizio del mio entusiasmo, nella cella placata. Tentavo di cancellare su la parete bianca i segni che avevo fatti con un carbone da disegnatore. Smettevo; mi avvicinavo all’uscio; esitavo. Ricevevo, attraverso il legno umile, l’ansia d’una creatura fraterna; e quella, attraverso il legno umile, riceveva la mia ansia.
Ella entra nella mia stanza e nella mia anima, com’entra nella mente un bel pensiero, come se io fossi il luogo della sua divozione ed ella in me servisse la mia più alta poesia. «Mi sentivi. Hai aperto. Non ti vergogni più. Hai volato, figlio. Ritorni?»
Quando ella parla, fioriscono gli anemoni nella sua voce che è come una prateria mattutina. Non odo quel ch’ella dice; intendo quel che non dice. Penso talvolta ch’ella accordi uno strumento ammirabile, di quelli che vivevano e morivano con chi li aveva inventati. E di quei primi accordi la mia anima è contenta, il mio cuore è colmo. E non domando di più, non desidero di più. Basta alla mia felicità profonda udire il tono del suo mistero, preceduto dal baleno del suo sorriso. V’è un dolore che gioisce, e v’è una gioia che si duole. Lo sapevo. Lo so. Ma l’uno e l’altra ora hanno per me un volto, hanno il suo volto; l’uno e l’altra hanno per me un gesto, hanno il suo gesto; l’uno e l’altra hanno per me una voce, hanno la sua voce.
Ecco che l’ardore d’Icaro mi si spegne. Ecco che già Icaro scorge sotto di sé le ombre lievi delle penne che cadono tremolando dalla cera ammollita. Vale tanto anelare all’alto, se il primo accento d’una creatura terrestre fa in terra questa melodia?
Ella dice: «Come sei pallido, figlio! Giacché tu m’hai aperto, ripòsati un poco, datti un poco di tregua, dammene un poco anche a me. Non ti prendi un momento di respiro; non mi lasci un momento di respiro. Sempre amo e temo, quando sono con te, il cavallo alla porta e le ali all’anima.»
Si siede presso il piccolo balcone. Io m’inginocchio presso i suoi ginocchi. Respiriamo eguali.
Ella ha tra le mani un libretto di cuoio bruno con impresso il segno dell’Ospizio di Fontebona. Guarda in giù, là dove la valle vapora così che non si distingue la pallidezza dell’Arno dalla fumea del vespro; e l’uno e l’altra m’appariscono come due lunghi lembi che quelle mani sieno in punto di sollevare col gesto che Spinello diede alla Madonna del Soccorso nella chiesa di Santa Maria delle Grazie. Non so: le sue mani hanno qualcosa d’infinito, in un disegno tanto netto e puro. Penso che dalle ultime falangi s’irradii e si prolunghi il suo spirito; ché altrimenti come potrebbero, senza muoversi, toccarmi la cima del cuore?
Ella dice: «T’ho portato questo libretto perché, senza conoscerti, un asceta senza nome qui parla di te. E, perché tu lo trovassi, volevo non veduta posarlo sul pavimento, là dove quella sera ti raggomitolavi tutto vergognoso.»
Ora quelle mani sollevano i lembi del fiume e del vapore e della mia dolcezza; e ne fanno, col gesto del Soccorso, non so che cavo d’ammanto per accogliere tutte le implorazioni.
Ella cerca la pagina; poi resta per alcuni attimi trasognata; poi mi legge.
«Come è fatta questa anima così forte, così inferma, così piccola, così grande, che cerca le secrete cose e contempla le più alte? Come dunque è fatta questa che tante sa dell’altre cose e non sa come ella sia fatta?»
Ella s’interrompe. Sfoglia, e cerca una pagina più lontana, con le dita che un poco le tremano perché nel tempo medesimo passano su la cima del mio cuore.
«Non essendo a te medesimo dissimile, non di meno dissimigliantemente tocchi le dissimiglianti cose.»
Ella s’interrompe; poi cerca, con un atto indicibilmente cauto, come se sfogliasse il mio segreto.
«Tu hai in te numero e non puoi essere annoverato, però che se’ misurevolmente senza misura…»
Ella s’interrompe. La sua bocca è tuttora atteggiata alla parola senza suono, forse a quella che segue e ch’io non so. La sua bocca, quando sorride, fulge come la neve sola sul vertice dove non s’arriva. Ma ora non sorride, e pure sembra modular la luce.
Chino la fronte sopra le sue ginocchia; e nel silenzio, vivente non come la vita di due creature ma come l’aspirazione di tutte le creature, dentro mi suona l’estrema offerta dell’amore alato.
T’offre quest’ali d’uomo Icaro, t’offre
Ella prende la mia fronte nelle sue mani. Poi mi discosta pianamente e si leva, di sùbito, quasi temendo che la sua piena trabocchi. Muove due passi verso la parete, rasentando il leggìo e premendo per un attimo la palma su le mie carte. Si arresta.
Ha veduto su la parete bianca la data di oggi, sotto sei righe della scrittura di carbone; che tuttavia appariscono distinte nel chiarore del tramonto religioso.
La prego: «Perché leggi? Perché vuoi che mi vergogni ancóra? Non leggere. Lascia che io cancelli! Non ho avuto il tempo di cancellare.»
Ella mi trattiene. Veramente una grazia della terra mi trattiene, con quel sorriso di neve ardua che si vuol struggere per annunciare la primavera al piano.
Dice: «Perché, figlio? Non è anche una pagina di questo asceta senza nome, portata via dal vento della sera e sbattuta contro il tuo muro?»
Parla e sorride: fa della luce due modulazioni. Forse per ciò riesce a leggere, mentre io abbasso il capo scontroso. Legge, sommessa. E nondimeno la sua voce sommessa è tanto potente in profondità che vale la più alta chiamata alla vita eroica.
Dico che il «non più oltre» è la bestemmia
al dio e all’uomo più oltraggiosa.
l’apparizione di malatestino
Così di continuo ella s’arrischiava all’orlo del mio segreto, lievissimamente; e pur la sua più lucida levità non riesciva a vincere quel geloso pudore del mio genio, quella mia selvatica vergogna che si sfogava a cavar dagli scheggioni del colle i più larghi sassi per fermare le mie carte sul leggìo non contro la rapina del vento ma contro l’acume della pietà. «Ora ci pianti un’altra pietra sopra! E un’altra ancóra! E poi un’altra ancóra!» mi diceva mettendomi in canzone.
E si ricordava per quanto tempo io mi fossi poi mostrato scontento e scontroso, là nella Versilia, al Motrone, quando una sera, poco prima dell’ora delle lampade, uscii dalla mia stanza di lavoro gridando come un forsennato giù per le scale: «Un lume! Un lume!» E me ne ricordavo anch’io. Era d’agosto, era il buon mese de’ miei estri. Avevo lavorato di continuo in piedi, alla mia prima tragedia dei Malatesti, sette ore e sette. Avevo la fronte in fiamme. M’ero seduto, co’ gomiti su i ginocchi, col capo fra le mani, con gli occhi serrati, per vedere Malatestino, per creare in me la sua figura di carne e d’ossa, per inventare il suo vero aspetto nel punto ch’egli è accecato dal colpo di pietra al forzamento della Torre Galassa. Dal sangue accumulato nel mio cervello l’imagine si formò a un tratto intiera, così viva e tremenda che per isfuggirle spalancai gli occhi. E dal cervello mi balzò dinanzi, mi si piantò dinanzi su le sue gambe arcate di cavalcatore, mi forò con la punta nera dell’unica pupilla, mi minacciò con una guardatura che il pesto rosso facea più bieca, come s’egli serbasse lo sguardo del coraggio anche in fondo alla ferita: Malatestino!
Allucinato, sopraffatto dalla mia allucinazione, non potei frenare le grida. Persistendo l’imagine nell’ombra, non potei sottrarmi all’ombra, non potei non scrollare il mio delirio di là dalla soglia fatata, non potei non domandare a gran voce una lampada, una lampada! E la compagna accorsa fu sbigottita di me come io del fantasma.
Quella sera, mentre io rimanevo in silenzio e quasi in corruccio, ella passò le sue dita magnetiche su le vene gonfie delle mie tempie; e disse: «Quanto sei ricco dentro te! La Follia non è tanto ricca, figlio.»
Rabbrividii oscuramente. E sentii fremere le radici oscure della mia predestinazione. E quanto ella s’impietosisse ben sentii per quel nome ch’ella traeva dalla sua più tenera pietà, per quella parola della pietà cristiana che sempre evocava alla mia pena il Deposto involto nella Sindone, per quella cadenza di lauda umbra che sempre nella sua voce s’approssimava al limite del canto.
Certo ella divinò la mia tristezza mista d’indefinito terrore, come tutto di me divinava ella senza pur guardarmi. E parve rifoggiare secondo il disegno delle sue labbra il verbo evangelico: «Finché luce hai, credi nella luce; e per te stesso eleggiti figlio di luce.»
il miele dei millennii e l’ape dell’ora
Io pensavo, guardando le sue mani, ai nostri lontani giorni d’Egitto e a quella tomba di Tel-el-Amarna dove sul muro è figurato il disco eterno della luce in atto di tendere verso la terra lunghi raggi terminanti in mani esigue e benigne così che sembrano la figura della carezza primaverile.
E ripensavo a quell’altra tomba scoperta il giorno innanzi ed esplorata, dove entrammo; e, tra le cose dell’arte funeraria e del rito occulto, era un vaso di miele; e un uomo dotto fra i dotti ne sollevò il coperchio innanzi a noi attoniti; e il miele, dopo mille e mille e mille anni sepolcrali, vi traluceva roscido come quello che cola primo dai favi; e in quell’attimo trepidammo insieme udendo l’ombra sonora dell’ipogeo tutta vibrare a un inatteso bombo d’ape; e da un repentino sogno superstizioso fummo occupati ascoltando l’ape venire a noi come dall’apiario dei secoli, come dal melario della morte; e i dotti credettero che per l’ingresso d’oriente e pel corridoio a pendio venuta fosse dalla valletta chiamata Biban-el-Moluch. E, come l’ape ronzante si mostrava avida del fresco miele millenne e s’ostinava in tentar di giungere al vaso, i dotti s’affannavano a scacciarla, a schiacciarla; e allora la mia compagna prese a difenderla parando con le sue mani qua e là lo sventolio importuno. E le belle mani bianche nell’ombra del sepolcro alzate pareva aliassero a gara con la creatura studiosa; e pareva le offerissero nel cavo delle palme aggiuntate rifugio come in vital bugno. E quivi, presso l’anulare senza anelli, la destra fedele fu punta dall’ape del mattino e dei millennii.
Grido non s’udì. Si vide illuminare l’ipogeo tebano un sorriso venuto di più lungi che la valletta di Biban-el-Moluch. Né più s’udì il ronzo dell’ape avida. Tutto fu quieto come il miele. E l’un dei dotti novamente si chinò sul sepolcro; e s’ardì sollevare la ghirlanda appena impallidita che cingeva il morto; e l’accostò alla mia compagna come se per studio l’accostasse al chiarore d’una lampada. Allora si vide tra due fiori un’ape esanime, perfettamente conservata. Appariva intatta. Sol le mancava l’apice d’un’ala.
«Te ne ricordi? Ti ricordi di quella specie d’antica antifona egizia che volesti sapere, cantata dalla grande piangitrice che s’accompagnava col timpano percosso? Giubilo celeste sopra la terra. La piangitrice ripeteva il versetto quattro volte: a levante, a ponente, a tramontana, a ostro. Giubilo celeste sopra la terra. Te ne ricordi? E ti ricordi di quella iscrizione su quella stele tagliata a imagine d’una porta, che volesti conoscere? e già la conoscevi composta per te, incisa per te, in uno schisto nerastro de’ più duri. Confessa. La conoscevi, la conosci. Voleva essere il sorriso di coloro che piangono.»
il primo segno dell’alta sorte
Sul dosso del pollice sinistro, fin dall’infanzia ho il contrassegno indelebile della mia nativa alterezza. E di questo sigillo mi piaccio perché tanto piace a mia madre che sa chiudere alteramente in sé quel che non può appartenere se non a lei sola. Dagli anni più remoti, ogni volta che io ritorno a mia madre e ch’ella prende le mie mani infaticabili nelle sue benedette, ogni volta ella mi cerca sul dosso del pollice la cicatrice e me la guarda in silenzio con un sorriso che merita anch’esso i caratteri di quella stele egiziaca. Così ella rammenta, così io rammento.
Avevo nove anni. Ero fuggito di casa per correre all’approdo delle paranze nella foce della Pescara, per raggiungere alla banchina un mózzo ortonese mio stregato che soleva portarmi qualche «frutto di mare» stillante e fragrante nella sua berretta crèmisi. Avevo meco in tasca un coltello a scrocco, mal rubato, da forzare i nicchi. Ricevuta l’offerta, fiutata la preda marina che già m’inebriava di salsedine e m’inumidiva la lingua di pregusto, me ne andai sul bastione dove già da tempo avevo per amico un vecchio cannone borbonico di ferro, propagginato con la bocca all’ingiù, un buon cortaldo che m’era a grado perché lo superavo di tutta la testa e gli potevo mettere i ginocchi contro gli orecchioni.
Scelsi un nicchio nericcio, non mai veduto; lo poggiai su la culatta, e di punta e di taglio mi misi a fargli forza. Era tanto serrato che non gli ritrovavo la commessura delle valve. Nell’impazienza la lama mi sguizzò, e la punta mi si conficcò nella mano che teneva fermo il guscio ostico. Il sangue mi colava giù pel ferro colato del cannone, e il salso mi coceva forte nello squarcio. Ma non mi arresi, non mi sgomentai. Con il coltello insanguinato seguitai a forzare il nicchio avverso, ostinazione contro ostinazione, crudezza contro crudezza. E le voci dei pescatori sopravvegnenti che tiravano le paranze coi canapi a ormeggio, e nel tramonto l’ultimo bagliore delle vele rogge ammainate a mano, e la rissa rauca delle profferte sopra le ceste della pesca ricca sparse all’incanto, e i fuochi del nuvolato acceso verso la Maiella, e gli squilli di tromba nella caserma lunga mi davano non so qual conturbazione confusa che m’ingrandiva sopra me, di là da me. E la ferita improvvisa, e la vista del mio sangue, e lo splendore del mio sangue, e la mia stessa costanza, e la mia stessa incuranza m’ingrandivano. Ed era la prima volta ch’io sentivo con tanta solitudine il mistero del mio corpo, il mistero del mio spirito, l’elezione della mia nascita.
Alfine apersi il guscio disperato. E, senza nettar la valva, senza sgocciolare il salso misto al sangue, con una specie d’ingordigia vendicativa m’affrettai a mandar giù.
Non era se non un poco di polpa lùbrica e amariccia.
Allora mi ritrovai solo con la mia ferita sola, con la mia mano rossa e dolente; e col pensiero della mia madre, con la figura della mia soglia, con l’inquietudine del ritorno. Affrettavo la sera, affrettavo il buio. Cominciavo a sentirmi fiacco. La mia pezzuola era scarsa per farmene una fasciatura stretta. Mi venne l’impeto di sporgermi dall’orlo del bastione e di chiamare a squarciagola il mózzo, di chiamare qualcuno al soccorso. Ruppi l’impeto in me, lo troncai sùbito. Sfrombolai le conchiglie come ciottoli, conficcai il mio coltello in terra, a piè del cannone propagginato, spingendolo così che v’entrasse anche il corno. Poi, sùbito, mi pentii per un pensiero che mi balenò. E grattai la terra, e sconficcai la lama che riscintillava perché l’attrito l’avea netta. Mi tolsi la giubba. Mi tagliai una lista di camicia, mi tagliai una manica di camicia. Mi rimisi la giubba, senz’avvedermi che m’insanguinavo tutto. Mi fasciai col lino la ferita. Scesi dal bastione, a testa alta, opponendo non so che strana alterigia alla fiacchezza. Evitai gli incontri. Mi diressi verso un luogo basso della vecchia fortezza, verso il vecchio arsenale cortinato tutt’intorno, chiamato Rampigna, invaso dalle erbe, ridotto pascolo di capre e ricreazione di scolari, non distante dalle scuole e dalle carceri. S’annottava. S’udiva il martellare dei carcerieri sopra le sbarre delle inferriate. Si vedeva ancóra qualche capra fosca intagliarsi nel cielo, di sul profilo della cortina erbosa; e mi ricordo che scambiai per l’occhio fosforescente della capra dimònia una delle prime stelle, e sussultai sotto quella guardatura da zodiaco.
La ferita mi doleva sempre più. La fasciatura si faceva rossa. Mi venne in mente che le femmine del mio contado usavano il ragnatelo come il dittamo di Creta, l’usavano come una specie di balsamo vulnerario, buono a ristagnare il sangue. Avevo veduto dita di bimbi avvolte in tele di ragno. Avevo veduto una mia sorella scendere nella carbonaia a ricercarne per medicarsi un taglio di temperino. Sapevo che giù pe’ finestroni dell’antica santabarbara ne pendevano senza numero, ché più volte m’ero scapriccito a lacerarle con una gran frasca eccitato dal vincere il ribrezzo che mi faceano i ràgnoli.
Ora, nell’abbellarsi della ricordanza, mi piace quel fanciullo fantastico e scontroso che perde sangue e non si sbigottisce, e ripugna al soccorso, e guarda e tocca la sua ferita senza venir meno, e dallo splendore del suo sangue riceve la prima vampa di un entusiasmo inconsapevole, e in una credenza del suo popolo ripone la speranza di guarirsi da sé stesso, e s’indugia al ritorno nella casa paterna per un’angoscia quasi gloriosa che inconsapevolmente gli aggrava la disparità fra il piccolo guaio puerile e l’anelito della piccola anima riscossa.
Annottava. Là, dinanzi al finestrone della santabarbara, il ribrezzo dei ràgnoli era fatto più grave dall’abbuiarsi. Serravo i denti contro i brividi. A tratti a tratti gettavo un grido roco credendomi di porre in fuga le tante zampe paurose. Raccoglievo le tele con la tesa del mio cappello da marinaio. E, non so perché, come più dominavo la paura, come più reprimevo il mio istinto, come più m’arrischiavo alla conquista, più mi s’ingrandiva nella fantasia la virtù vulneraria del rimedio popolesco.
Di poi non so più nulla. Non mi ricordo se non del buio, in quella specie di bolgia inselvatichita tra le cortine disarmate, dove pur sempre la capra d’inferno mi guatava nera col suo occhio di stella. Non mi ricordo se non della mia corsa disperata verso la casa, con negli orecchi un gran ronzìo che a quando a quando mi pareva scoppio di lamenti. Non mi ricordo se non di una fanfara di fanti che mi venne incontro andando alla caserma; e passai tra gli squilli come per mezzo a un folto di sferze acute che mi sferzassero senza ch’io gridassi. Non mi ricordo se non d’un silenzio di tomba alla mia soglia; e poi d’una scala che mi fuggiva sotto i piedi come una cateratta di mulino rimbombante; e poi d’un altro silenzio spaventoso, e dell’urlo di mia madre, e del pallore di mia madre, e del suo balbettio folle che non era se non un tremito del mento come dislocato; e di me in ginocchio ai suoi ginocchi, di me col braccio rosso levato verso di lei come un moncherino, di me che dentro ero scavato e che pur dal vuoto traevo non so che tuono di voce coraggiosa ripetendo: «Non aver paura! Non aver paura! Non aver paura!»
Tutto il resto non vale. L’agitazione, l’inquisizione, il tumulto, le grida, il pianto, il rimprovero, le domande iterate, i sospetti ingiusti, le accuse incerte si confondono nella mia memoria, s’affievoliscono, vaniscono. Il grande valore spirituale di questo ricordo è per me nel primo segno impresso al mio animo dalla mia sorte, nella prima impronta segreta della mia predestinazione.
sum id quod sum
Ero un fanciullo, non ancóra esiliato, non ancóra straniato dal mio focolare, non ancóra strappato all’amore vigilante e divinante di mia madre che quasi ogni notte si levava per un’ansia subitanea e veniva alla mia stanza e indagava il mio sonno e mi poneva una mano sul cuore e si chinava a bevermi l’alito e sentiva in sé che la vita era bella perché io vivevo e perché ella m’aveva fatto a simiglianza d’una imagine velata dall’angelo del mio nome.
Ero un fanciullo impetuoso. E mi fu concesso di comprendere in quella sera, per una specie di comandamento muto a cenni, come io non fossi nato se non per servire la mia vita profonda e la mia verità incomunicabile. Mi fu concesso di comprendere in confuso come io fossi destinato a un conflitto perpetuo fra la interpretazione comune dei miei atti e la mia intima potenza di trasfigurazione e di sublimazione. E oggi, nel rimemorare, penso che già da allora io fanciullo mi sapessi inoppugnabilmente unico interprete della mia coscienza umana governata pertanto da regole sovrumane. Già da allora mi appariva un baglior sanguigno della mia fede oggi certa nella rispondenza, necessaria e fertile senza misura e senza pausa, tra il mio servaggio bestiale e la libertà del mio genio. Non v’è forse nella mia puerizia un simbolo più potente, anzi una successione di simboli, da quel primo sprazzo fulgido di sangue a quella scipitaggine molliccia, da quel coltello nettato nel suolo a quella credulità nel rimedio rustico, da quella sosta quasi magica nella santabarbara a quell’astro acceso nell’occhio demonìaco della capra, una successione di simboli significanti la mia concordanza attuosa con la natura e con la stirpe. E, mentre scrivo e significo l’evento rimotissimo, il calore di quel primo sangue e il rossore di quel segreto d’anima non sono estranei al mio stile, anzi concorrono a dimostrarmi come veramente la forma della mia poesia si manifesti in una transustanziazione del mio pensiero e del mio sentimento non diversa, sotto la specie ideale, dal trasmutamento del pane e del vino nel santissimo corpo. Così anche apparisce per simbolo – contro tutti gli irrisori melensi acquattati nelle chiaviche delle mie strade maestre – quanta severità sia nella mia sensualità, e di qual pasto vivente – com’è uso nei serragli di belve, o erbivori immansueti – io abbia sempre nutrito e nutra le mie passioni mentali. V’è una eleganza eroica nell’operare fuor di qualunque altra sanzione – minaccia di pena, promessa di ricompensa, misura di bene e di male conseguiti in osservare e in trasgredire – dico fuor di qualunque altra sanzione che non sia la certezza inebriante d’aver compiuta una conquista interiore nella signoria che è veracemente nostra e che ci proponiamo di compiutissimamente conquistare vendicare illustrare. La somma spirituale dell’uomo, in tutti gli spazii e in tutti i tempi, non ha per aumentatore se non colui che tanto è audace e tanto è pertinace da saper divenire quel che è. Fin da’ miei prim’anni io volli divenire quel che sono. E, con più vigile disciplina e con temerità più fidente, oggi mi sforzo di divenir quel che sono. E non allenterò lo sforzo se non quando avrò convertito per la mia anima in sentenza luminosa l’impresa vanagloriosa di quell’Enrico Borbone di Navarra: Gratia Dei sum id quod sum.
Sorrido, verso il ricordo puerile, pensando che il modulo della grande struttura quadrata, il modulo dell’ottimo ordine di architettura umana, il modulo di Policleto è il dattilo, cioè il traverso del dito. Il modulo della segreta mia vita ascetica saliente per una successione di ritmi è il traverso del mio pollice sanguinante e dolorante. Per leggiadria sorrido, ma sono sicuro.
A mia madre che incalzava di domande angosciose la mia fermezza, china la sua guancia teneramente a fiore della mia mano fasciata, io rispondevo con una parola che dopo trent’anni doveva rifiorire nella bocca d’una dolce e devota e piagata e mutilata creatura della mia poesia. «Non dimandare! Non dimandare!»
E quando ella seppe la storietta del coltello a scrocco, quando per un séguito singolarissimo di casi la mia disavventura del bastione fu scoperta, alla sua sollecitudine nell’appurare il fatto consumato, nell’esaminare ogni particolarità, nel cernere il vero dal falso, io rispondevo: «Ma era un’altra cosa.» E non di mentire arrossivo sì bene di non mentire.
Negli anni di poi, quando tornavo a lei carico di sorti e sdegnoso di gloriòla ambigua e giammai sazio di mia gloria nascosta, ella talvolta nei nostri colloquii solinghi corrugava la fronte per comprendere, e sempre si sforzava di comprendere non per giudicare ma per più amare; e mi prendeva la mano sinistra, e mi cercava sul dorso del pollice la cicatrice impallidita; e me la baciava con labbra più lievi d’una foglia di quelle rose scempie a cinque petali che tanto le erano dilette. E, con una grazia arcana che pareva adunare tutte le grazie della sua giovinezza adorabile e della mia infanzia irrequieta, diceva piano: «Ma era un’altra cosa.» Più piano ripeteva: «Ma era un’altra cosa.»
glosa dell’acino e del frammento
Scrivo nel Libro segreto del perché. E oggi la mia isola è un’isola ionia perché ho davanti a me un graticcio ricoperto di grappoli fitti come i riccioli intorno alla testardaggine di Giacinto figlio di Diomeda. Ne ho assaggiato qualche acino; anzi ne ho piluccato una gran pigna, senza licenza. Ma è uva di Ser Alamanno Salviati; e posso dire che la licenza me la dà il «testo di lingua» Lionardo, magari sotto il nome cruschevole d’Ormannozzo Rigogoli, per amore di quel suo Paradosso «nel quale si mostra che non importa che la Storia sia vera e quistionasi alcuna cosa contro la Poesia». È uva salamanna, e s’impassisce come l’uva greca.
Si cuoce al sole, e detta è passolina,
anche laggiù su l’istmo, anche a Corinto,
e nella bianca di colombe Egina.
E qui, su la tavoletta dove scrivo, ho un frammento di vaso aretino adornato di tralci e di grappoli che mi danno più piacere del sapore lasciatomi in bocca dall’uva buona del Salviati, più piacere del vaso d’oro esemplare, se pur me lo posasse qui dinanzi quell’irsuto sabino ignorantissimo depredatore di Atene. V’è sotto la ghirlanda bacchica il flauto doppio d’un tibìcine che non v’ha lasciato se non le due mani su’ fóri. Per chi suona e in quale modo la tibia destra? e la sinistra in qual modo e per chi? Oggi mi sembra di proporre l’enigma all’arte mia. E mi ritorna in mente la maraviglia di Ristoro d’Arezzo davanti a certi «pezzi di vasa» ch’egli credeva discesi dal cielo «non potendo sapere come quelle vasa furono fatte, né la forma né lo colore né l’altro artificio», maravigliandosi «che l’umana natura potesse montare tanto alto in sottilità».
Com’è fatta questa mia prosa che io scrivo per me, per me solo, con quel «secreto stile» che Bindo Bonichi accennò in non so quale sprazzo di bagliore venutogli dal cozzo delle rime, ma che io dopo i molti secoli di Siena trovo e imparo e conduco a perfezione? Com’è fatta?
È più facile rispondere al vecchio Ristoro attonito; più facile è svelare l’arte di questo frammento aretino, o illustrare alcuno di quei costrutti misteriosi che secondo Apuleio le rondini fornivano in Coptos di Tebaide, o significare come sia modellata la mia fronte, come sia girato dal vasaio il mio cranio con queste tante commettiture e incastrature più fatidicamente espressive che i segni nella palma della mano aperta.
Com’è fatto questo mio costrutto di parole? Per arte imperita quasi divina incuria? per arte peritissima in eccesso? Bene: ecco la doppia tibia sotto i pampani e i grappoli d’argilla etrusca. Bene: ecco la mia penna stridula al margine del graticcio stipato d’uva salamanna.
Ancóra sorrido a un ricordo della pubertà, ché l’uva bianca mi fa desiderare l’uva nera.
Tornato in tempo di vacanze dal collegio della Cicogna, o forse dall’Oratorio del Buon Consiglio, o forse dal pulpito del Cìngolo ch’erami nido e madia, stavo con mio padre ai campi. Abitavamo soli quella villa del Fuoco memorabile per tante opere di rondini in cantina e per tanti busti di re coronati intorno alle terrazze. Insidiavo non senz’arte una pastorella che, per iscusarmi innanzi alle tosche Muse e al tosco Elicona, fingevo aver tratta fuor d’una ballatetta di messer Agnolo da Montepulciano.
La pastorella si leva per tempo,
menando le caprette a pascer fora.
Ma la più savia scusa innanzi a me era il suo nome. Avea nome Sblendore, si chiamava Splendore, quasi battezzata fosse dalla sua biondezza.
Mi studiavo invano di sorprenderla, ché era molto guardinga e mi sapeva manesco, e le piacevo. Ma, verso la fine di settembre, a vespro, avendola spiata e seguitata cauto, la colsi nella vigna deserta. Ella m’adocchiò di lontano. E, sgomenta, perché io non la riconoscessi, colse un grappolo d’uva nera e se lo schiacciò contro il viso, se ne impiastricciò tutta la faccia da gota a gota da mento a fronte, si fece una maschera insana, una maschera di piccola baccante; e rimase a tremare sotto i pampani, contro la vite carica, simile a un’altra canna della vite, che fosse sostenuta e non sostenesse. M’avvicinai anch’io tremando, forse con gli occhi del supplice e forse con la bocca del fauno; e la chiamai per nome con una voce che la turbò a dentro, perché mi parve che sotto la maschera di mosto impallidisse e quasi tramortisse.
Allora le presi le mani di pigiatrice, che stillavano e appiccicavano, imbrattate di bucce e di fiòcini. E le parlai d’amore, e la pregai d’amore; e le cercai la bocca nella vendemmia intempestiva, cercai il succo dell’uva di là da’ suoi denti di lupatta, quasi avviluppando il mio desiderio con l’ombra del vespro supplicato e stimolato. Ella repugnava tremava balbettava, afflitta dalla sua stessa maschera nericcia, da quel dolciore acquoso che le colava pel mento giù nel seno, dalle pellicole dei chicchi e dai racimoli del graspo ne’ capelli e negli orecchi e ne’ pendenti. Mi si ruppe alla presa come la canna della vite; si lasciò cadere a terra, s’accosciò, singhiozzò, scoppiò in lagrime. E la faccia dell’orgia fu il viso dell’afflizione; e lo sgomento d’amore si torse come il ceppo della vite, pianse come la vite tagliata, parve accecarsi come la cieca radice sotterra. E il mosto si mescolò col pianto, e colarono insieme il pianto e il mosto!
Io credo che per me anche in quel punto fosse un’altra cosa, come quando volli forzare quell’altra conchiglia. E v’è un senso segreto, pel mio genio e pel mio destino, anche in questa figura che io disegno.
Quel che m’importa è cogliere in me un qualche mistero umano o un qualche accordo insolito fra la mia forma mentale e la forma universa, per esprimerlo incomparabilmente e inimitabilmente pur nei limiti prescritti dal linguaggio a me sortito. Quel che m’importa è profondarmi fuor d’ogni artifizio a ritrovare la sostanza della poesia, a ritrovare la midolla dell’Albero vitale, la midolla di quel Frassino eternale che in un mito attorto all’asse della terra è l’emblema della eccelsa e ampia e ramosa creazione lirica. Quel che m’importa è dimostrare a me medesimo e agli iniziati come la bellezza lirica sia non soltanto la legge interiore della Terra ma la sua operazione assidua, non meno eccellente di quella attribuita dai teologi alla Grazia celeste; che si palesa per lo spiraglio di taluna apparenza perfetta o di taluna imagine mentale, dall’imo al sommo e dal sommo all’imo, cosicché – per esempio – quel bel fiore e questo mio bel pensiero mi sono come due aditi socchiusi ond’essi a me vennero e per ove saprò io discender alle origini loro, considerando tali aditi in significato di «parte più riposta del tempio non penetrabile, secondo i riti del gentilesimo, se non dai sacerdoti».
Questo doppio flauto su questo coccio aretino m’è simbolo del duplice tono che io sono ancor costretto a trarre dal mio spirito. Ecco che io potrei spezzare con le dita l’orliccio di questa argilla, e delle due tibie lasciare una sola. E potrei forse osare lo spezzamento anche nell’arte mia, secondo esso emblema ch’io so al mio modo interpretare. Ma, pur nella più costante disciplina, conviene talora sospendere l’influsso della volontà sul corso degli intimi eventi; ché non soltanto dalla mia volontà io attendo la mia perfezione. Il mio segreto è tra la musica e il silenzio. Delle due canne divellere e infrangere una, oggi, forse non è se non un gesto intempestivo. Mi conviene per ora approfondire i miei studii di contrappunto, e condurre le mie ricerche nel senso già indicato da una mia definizione giovenile della pausa e nel senso d’una mia intuizione giovenile così espressa: «Io sento che le mie più belle parole sono stillanti di silenzio, come stillano acqua le ninfee divelte di sott’acqua.» Non v’è già qui un indizio e forse un inizio del lavoro in profondità, ch’io proseguo? non v’è già qui un cenno della regola che io osservo nel nutrire le mie radici?
Il poeta laureato di Arezzo non componeva i suoi dialoghi se non per arrivare a comprendere sé medesimo. «Fuggendo la moltitudine degli uomini, o mio libello, contento tu sarai di star meco, non dimenticando il tuo proprio nome, perché tu se’ il mio Secreto, e così se’ chiamato; e, come di ciascuna cosa in secreto studiata e significata ti ricordi, così in loco secreto la commemori.»
Ma gli mancava l’amor sensuale della parola, questa quasi ferina sensualità che un giorno fece dire alla terziaria di Romena: «Certe volte, quando parli e t’abbandoni al tuo parlare, hai una bocca di fauno e uno sguardo di semideo.» Per conoscer sé stesso, egli si specchiava nel suo latino scolastico, ahi, non come in làmina d’oro ma come in «piombato vetro»!
Il mio linguaggio per contro m’appartiene come il più potente de’ miei istinti: è un istinto carnale purificato ed esaltato dal fuoco bianco della mia intelligenza. Certi costrutti di parole mi salgono dal fondo alla superficie preceduti da un lor proprio barlume, come certe specie degli abissi marini, che lucono prima d’esser ravvisati e predati. Ben io mi ravviso in loro, ben io talvolta conosco in loro quel che di me non conoscevo, quel che di me non imaginavo, assai prima di tenerli e di configgerli vivi nella pagina. E m’accade talvolta, per imprigionare un pensiero difficile e indocile che vuole isfuggirmi e deludermi, m’accade di spessire la mia materia verbale come quell’ambra che imprigiona la pecchia nell’epigramma del Bilbìlico. Ho il senso tecnico di tanta ispessitudine, come direbbe un volgarizzatore dei Santi Padri; ho una destrezza di mestiere consumato, una sicurezza di ricettario compulsato, una prosunzione di console dell’arte peritissimo, come se il mio costrutto fosse veramente da trattare con un certo grado di bollore e con una certa giunta d’ingredienti e con una certa «consumazione del terzo». Tanto che un giorno il mio Giovanni Pascoli, qui ducit in antra Pieridum, mi domandò graziosissimamente con un sorriso subdolo di alchimizzatore rivale che mi volesse trar fuori un mio segreto d’alchìmia, mi domandò parodiando il brieve d’Imperiale Oldrado: «Con che miracolo lo fai?» E io, dottor sottilissimo, ridendo parco, gli risposi con una ricetta del Ricettario fiorentino: «Metto in mortaio e rimeno con pestello di piombo tantoché cominci a spessire; e po’ doe un bollore, tantoché giustamente si spessisca.» Egli scrollò quella sua gran testa spessa, capace di ospitare il più folto de’ lauri come il più aereo de’ pensieri; e mi fece, arguto: «Altro che pestello di piombo! Tu meni e rimeni la mazza tonda, come suoli. Ma parliamo sul serio. Io sto, lo sai, con Anton Maria Salvini: la rettorica è una faccenda, e faccenda seriosa.» Seriissimo, abbassando la voce e soffiandogli il segreto in quel suo orecchio un po’ acceso di salsuggine, che sapeva i versi di tutti gli uccelli e tutte le onomatopeie d’Aristofane: «Il cardamomo! Io sto, lo sai, con Dioscoride e con Pietro Andrea Mattioli. I miei unguenti odoriferi io li spessisco con il cardamomo: non con quello degli Arabi, con quello de’ Greci. Non mi tradire a Scannadeo Scannabue, o vocalis fraudis docte! Tu sai ch’io m’ho più bossoletti e alberelli e acetàboli che non ebbe mai Cantambanco. Se vuoi, te ne vendo uno cavato in un bel rubino di ponente. Ma tu con Plinio m’opponi che non v’è altra gemma più imitabile dalla menzogna del vetro, o castalio dolo potens. M’opponi? t’apponi? Apponti. Te lo dice il Granchio dell’Infarinato, con la più cruschevole delle due bocche. Apponti.»
Questa sorta di arguzie erudite, che per altro è nelle nostre tradizioni academiche, spesso mi serve a dissimulare, a destreggiarmi, a schermirmi, specie contro il genere irritabile; il qual non può e non vuole ammettere, fino a oggi, ch’io sia d’un diversissimo genere per nascita per sangue per cultura per magnificenza per prodezza per libertà per intenzione per aspettazione. La mia finale e ultima «intenzion dell’arte» e la mia sicura «aspettazion d’istinto» non potranno esser manifestati e comunicati ai miei prossimi e ai miei remoti se non con un’opera avvenire, con una impresa avvenire, nelle quali entrambe io riesca a incarnare il mio mistero.
Il mistero d’una creatura è tanto più adorabile quanto più cerchi di sorriso ella sa crescere intorno a sé, quasi a simiglianza degli aloni.
Lassù, nel collegio della Cicogna, avevo meritato la predilezione d’un buon naturalista barbuto che si stupiva del mio fervore studioso, dalle mie domande implacabili essendo incitato a ricercare. Non solo nelle ore della lezione ma anche nelle ore vietate, io frequentavo appassionatamente il piccolo museo di cose naturali; e nulla tanto mi piaceva quanto di schiacciare il mio naso stringato contro le vetrine ermetiche, nulla quanto di traveder riflessa la mia figura ne’ vetri e di fingermela commista alla vita immobile ma intensa degli animali impagliati. Fin da allora forse si svegliava in me, come in un fanciullo di Memfi, quella superstizione bestiaria che più tardi, innanzi ai monumenti della funebre arte egizia, m’incantò come s’io quivi ritrovassi un libro di figure già sfogliato dalla mia infanzia avida di morire. E certo, nelle mastabe di Gize, nelle tombe di Abusir e di Saccara, negli obelischi tebani, nei bassirilievi di Abido, mi parve di ritrovare il senso singolarissimo delle forme animali, quel medesimo ch’io m’ebbi dai miei sogni prolungati nel piccolo museo scolastico e musicati dallo zampillo del giardino. Nella vetrina come nella piramide, le bestie imbalsamate o scolpite o dipinte erano «naturali»; l’oca di Prato era come l’oca di Meidum; la scimmia lo sparviere il gatto la rana il pesce lo sciacallo l’antilope l’ibi del mio collegio pratese erano come quelli d’un sepolcro di Edfu o di Unas; ma gli uni e gli altri, esatti nel balsamo e nell’arte secondo natura, erano per trapasso un’altra cosa.
In una mia domenica di castigo, impedito d’escire a passeggiare fuor di Porta pistoiese, estorsi il mazzo delle chiavi al bidello, profittai della vacanza domenicale concessa al giardiniere, corruppi Cice infermiere e carceriere, sgattaiolai per la scala dell’infermeria, penetrai nel museo fisico; apersi a una a una tutte le custodie; fui per un’ora un faraoncello felice attorniato di bestie mummie, se bene senza i frutti del festino mortuario e senza il ramo della mimosa sensitiva.
Ma fui anche ladro; e m’è dolce nella memoria il fremito del latrocinio. Callidus effracta ossiculum fur abstulit arca per scrupolo di probità scrissi col dito sul cristallo appannato d’alito. Rubai un osso che mi parve ammirabile; e lo rubai in latino! Il professore di cose naturali, e il Cristo che col sangue del suo costato risuscitò l’uomo alla grazia, entrambi mi perdonarono e mi perdonano.
Era un grande òmero di pellicano, un grande osso che pareva sodo e greve come se fosse intagliato in un dente d’elefante o d’ippopotamo. O maraviglia! Lo presi in mano, lo soppesai nella palma; e non potei frenare il grido del mio stupore. E non finivo di restarmene a bocca aperta. E nel lustro del vetro mi travidi con occhi splendidi e tutto radioso, un po’ sgomento come l’altrieri nel catino della villana di Certomondo.
Il grande òmero del pellicano era più lieve che vetro soffiato, più lieve che alluminio laminato, forse più delle piume che gli mancavano! Ed era l’osso dell’uccello emblematico, pio fodicat qui pectora rostro!
Non finivo di maravigliarmi; non finivo di voltare e rivoltare e ammirare e pensare e sognare. Udii per fortuna, nel mio stupore, sonar l’orologio della Cicogna; e m’avvidi che mi bisognava senza indugio rientrar lassù nella carcere. Avvolsi l’osso nella pezzuola, e me lo nascosi in petto, sotto la giubba; cosicché pareva mi fosse fiorita una mammella sola e l’altra mi si fosse mortificata, come a una povera Amàzone in convitto.
Rimontai la scala dell’infermeria ansando e palpitando come se invece d’un osso inerte io portassi un’ala agitata sul mio cuore. Passai i lunghi corridoi a volo. Gettai le chiavi al bidello sbigottito. Rientrai nella mia camerata, mi risedetti al mio posto, mi rannicchiai contro il tavolino. Mi tolsi l’osso di sotto alla giubba, e lo insinuai nel tiretto socchiuso. E udivo le risse dei balestrucci sotto la gronda; udivo lo scalpiccìo dei compagni tornanti su per le scale; vedevo le prime ombre della sera entrare per le finestre a tramoggia e farmi cenno, come le larve delle tentazioni. E mi sembrava che dalla reliquia furtiva rinascesse il pellicano e mi trasfondesse un sangue nuovo, tanto era acre il mio palpito. E tanto mi fastidivano i berci e gli sberleffi dei compagni, che d’alato ridoventavo pedestre per calciare.
Annottava. Veniva l’ora dell’olio solerte, con l’ora della stella. La mia lucerna fu la prima accesa. E, come per l’oscurato collegio del Gesuita risonarono i tre rulli dello studio, con infinita cautela io mi misi a osservare l’òmero furato ricoprendomi col braccio con la spalla e con la gota. E pur sempre la levità mi appariva portentosa, e mi dava non so che ansia come d’un esemplare proposto a non so qual mia disciplina d’imitazione. E conobbi, con una nuova maraviglia, che quella levità dissimulava una potenza e una resistenza di metallo temprato; ché una moltitudine d’aghi ossei la traversavano in tutti i sensi, a guisa di contrafforti esigui ivi connessi e commessi dalla sapienza dell’Artefice.
«Alunno Gabriele dell’Annunzio, nell’ora dello studio non est capiendum furtim et ruptim il panforte di Siena o il neccio di Gavinana ut gulae pareas et ingluviem improbus expleas» squittì verso me dalla sua nera bigoncia il pedagogo inimichevole ammonitore rotondo e mordace.
Una risatella chioccia rasentò le scansìe piene di noia e si stutò ne’ calamai melmosi.
Mi piacque che, dal pedagogo al canchero, tutti credessero caduto in peccato di gola, e meritevole del sesto girone, l’angelo dell’astinenza; ché già s’aromatizzava, ahi, d’orgoglio e di dispregio il cuor dell’angelo.
Anche una volta il mio rossore strano mi fu privilegio e solitudine. Scrollai le spalle; chiusi adagio il tiretto, non senza palpito, quasi fossero per dibattersi nel chiuso rinate penne. Poi presi in mano il libro del Paradiso: assai più peso di quell’osso ma non dissimigliante forse, in alcuna parte. E ritrovai un comento di Francesco da Buti, che mi moltiplicò nella fronte ingombra il fremito delle imagini indistinte. «Pellicano è uno uccello che nasce nell’Egitto, ed è bianco; e poiché ha allevato li figliuoli, e sono cresciuti, si levano li figliuoli contro lo padre e la madre, e combattono con loro, percotendoli nel volto, tantoché lo padre, e la madre gli uccide; e poi lo padre sta sopra li figliuoli, e dassi nel petto suo col becco, tantoché n’esce lo sangue, e spargelo sopra loro, e così risuscita.»
Per que’ figliuoli «che tradiscono i padri e fedisconli con l’ali», qualche vena d’orrore fendeva le mie imaginazioni astruse che, di tratto in tratto, s’indurivano come nodosi enimmi. E sentivo a poco a poco menomata la mia libertà d’animo, come se io fossi omai avvinto alla cosa furtiva, come se io fossi asservito al mio furto; ché, quanto più m’acuivo a indagare la significazione fatale del mio atto, tanto più mi s’adunava intorno all’atto un’ombra incognita ma pur fertile. «Quest’òmero polito e senza peso, tenue come un pezzo d’esca da focile e resistente come una modanatura di colubrina, perché tanto m’incita? e a che? Sembra un ammonimento, sembra un comandamento, sembra un esempio, un precetto, un presagio, un indizio: di che? Potrei trovar la maniera scaltra di rimetterlo al suo luogo. Potrei rompere questa specie d’incantesimo tormentoso. Ma sento che non debbo. In me sento che debbo tenerlo, che debbo conservarlo. Ma come lo nascondo al pedagogo e ai cancheri? E com’è possibile che o prima o poi non si scopra il ladro? che mai penserà lo scopritore, di questo ladro che ruba nella vetrina un osso esemplare? Come i profani si spiegheranno il furto? Io, se fossi veramente nella mia terra l’erede legittimo del Sulmontino credulo di tutte le metamorfosi, dovrei da prima credere che il mio latinetto su quel vetro appannato d’alito non s’è svanito né s’è perso. Ossiculum abstulit, come un buon cùcciolo? Osseam molem tantam? Il latinetto, fugace o tenace, vivido o fievole, non importa. Ma, se veramente m’aiutasse il metro del precettor peligno, dovrei conficcarmi quest’òmero nel luogo del mio, inserirmelo, innestarmelo, aggiustarmelo nel punto giusto onde potrebbe ancor pendere la faretra puerile decus; e aspettare il prodigio dell’innesto, essergli pari nell’entusiasmo dell’aspettazione. E, nesto per nesto, in dispetto del Padre spirituale mio persecutore che fa lustrar la sua severità tra le pinne cupide del naso a pozzuolo e le borse paonazze degli occhi caprigni, non si potrebbe contaminare il latino d’Ovidio con quello del Salmista? Similis factus sum pellicano, sono fatto simile al pellicano di solitudine.»
«Tantillus puer, et tantus peccator!» soleva stabaccando bofonchiare il prete bòffice.
Ecco che a me il cardamomo di Dioscoride e l’òmero del pio nutritore son due precetti di stile piacevoli, in un sorriso d’ironia adulta, in un sorriso d’ironia impube, che tuttavia non mi vietano di reverire la verità paziente come già il mio studio reveriva l’olio della vergine prudente.
Anche quest’osso è un modulo – il modulo di Gabriele – come il dattilo di Policleto. So costruire solidamente una frase musicale, fuor d’ogni imitazione classica e d’ogni uggia di copule consuete, dandole nell’intima forza e nel ritmo singolarissimo una levità d’uccello, diversa da quella che noto in taluni frammenti ellenici, novissima, tutta mia, maniera mia, non comparabile e non imitabile.
Un certo Valente Aloigi di Castel San Nicolò, che credo abiti tuttora a Battifolle sopra l’orlo d’un fosso ricchissimo di granchi e granchiolini, si rimemora d’aver vissuto tre o quattr’anni, in una vita remota, come dàino pezzato. Sì veramente, fu dàino pezzato. E può dire il colore esatto del suo pelame e la disposizione delle chiazze, tant’è vero che nella tintoria del paese quel grado di tinta scura che ha nome «pancia di dàino» è sempre acconciato da lui nelle tine con suoi mescolamenti speciali; e io me ne son fatto un gabbanetto da cavalcare, di lana tosata scardassata filata tessuta in Casentino.
Ora, con la medesima chiarezza, con la medesima esattezza, io mi ricordo d’essere stato non solo tutto quel che amo e studio e figuro e trasfiguro in opere d’ingegno ma tutto quel che veggo in via, tutto quel che considero intento e attento pur senza proposito di farmene materia d’arte.
Ho detto: in via. Ma non veggo io nello stato di viatore, conforme allo stato di viatore. Mi piace la distinzione teologica perché mi conviene e m’è propria. L’ha il Segneri nella Manna dell’Anima. Non sono viatore, sono comprensore; perché, non credo, veggo; e veggo da comprensore.
Ho visto crollare i marmi del Partenone color di frumento, e l’Orto degli Olivi sterilirsi come il fico in su la strada di Betania.
Ho visto dormire sopra la manica verde di Macometto il gatto color di neve, e il profeta far cenno di non lo risvegliare e sospendere il corso degli eventi e l’ordine della necessità e l’attesa degli uomini, tutto sospendere su quel sonno candido che aboliva la potenza della legge inspirata e del braccio impavido.
Ho vissuto con gli Arabi ingentiliti di Sicilia, compagno a quei compagni nati d’un sangue più chiaro che la chiarezza di Achenàr o di Altaìr o di Aldebaràn. E con loro, di mezzo agosto, nelle notti piovevoli di stelle, solevo andar cercando al fiuto il miglior moscado dei vigneti siracusani.
Messer Marco Polo or non vuol egli condurmi al re Caidu perché anch’io mi provi di lottare con la vergine regia chiamata in lingua tartara Aigiairn? che significa lucente luna. Questa principessa è tanto forte che in tutto il reame non si trova uomo da poterla vincere. Ha ella sempre vinto i lottatori, pur mettendo per posta il suo terribil corpo contro cento cavalli; e guadagnato n’ha già diecimila! Ma, nell’andare, passo davanti alla casa d’un’altra creatura; che s’affaccia e sembra incurvi un de’ suoi aghi per farne un amo a prendere il mio cuore. M’accosto; ed ella dice: «No, non venire. Tu mi scompigli i miei salici che io stessa piantai al limitare!» E mi soffermo, e poi m’avanzo; ed ella dice: «No. Ti prego. Tu mi spezzi il mio arbusto di sandalo che io medesima stamani ho abbeverato!» E mi soffermo, e poi mi riardisco e riardo; ed ella dice: «No, ti supplico. Mi sfogli il mio rosaio delle rose scempie che han tanti petali quanti ha sensi l’uomo; e, se l’un cada all’una, tu non puoi sapere di qual suo bene ella rimanga orbata, ché non favella né si lagna.» Mi ritraggo alquanto; e l’ago ricurvo in amo senza esca mi morde il cuore; e rinunciar m’è duro. Ella soggiunge: «Va per la tua via, principe. Non persistere. Non fare che il mio gelso diventi vermiglio come per quel truce amore che si narra in un carme del tuo mare infido. Sii pietoso al mio gelso. I filugelli chiedono la fronda: han fame.» Io chino il capo, e taccio; e dimentico l’invitta e il guiderdone. E modestamente m’accoscio in terra, di contro al limitare della gentilezza; e penso che nessun amo fu mai celato nella grazia di un’esca più soave.
Il Serafico dal sasso della Verna mi conduce la Povertà, quale io la conobbi e l’amai, nella chiesa bassa di Assisi, «inanellata pria». Egli è già quasi cieco, ed è fanciullo! Crede che basti scalzarsi per divenir povero; crede che basti andare mendicando con la scodella, di porta in porta, per esser povero; crede che basti caricarsi di pietre e di calcina, crede che basti rifiutar di vendere pur un danaio di sudore, per esser povero. E io gli dico: «Figliuolo mio, tutto potrò essere, fuorché povero. Tutto potrò io donare come dono, e non rimaner mai povero. E s’io m’appresso alla tua santa Povertà e, dopo te, le pongo al dito l’anello nuziale in pegno e in segno, la sposa mia scalza e lacera si trasmuta in regina di tutte le corone, e s’ammanta di porpora ermellinata, e s’allaccia calzari vaiati, e sola aulisce come l’Arabia turìfera, molto più, frate, molto più che le cento libbre di Nicodemo.»
la vita archimiata
Penso a Nicolao Nicoli che la mia toscanità riconosce tra i miei antecessori di signoria inalienabile, se bene Giovanni Villani mi accordi aver io trattato il dominio «con più potenza che mai anticessoro avesse fatto». E quanto mi piacerebbe aver la mia vita scritta da Vespasiano cartolaio! Quanto mi piacerebbe vedermi rispecchiato intiero nella sua candidezza di favella e d’animo, con tutte le mie maraviglie nella semplicità della sua maraviglia!
«Aveva Nicolao notizia di tutti i siti della terra, e tanta e tale, che, fusse chi volesse che fusse istato in uno luogo, domandandonelo, Nicolao sapeva ragionare meglio che colui che v’era stato.» Questo non è possesso regio? Ma, se bene Nicolao sapesse palpare le medaglie e contornare i camei e gustare la grana d’un frammentuzzo di pario, gli mancava a goder la piena signoria questa mia sensualità onnigodente e onnisciente. Credo che, per ammirarmi e laudarmi, Vespasiano da Bisticci cartolaio s’intenderebbe con Braciola da Stia legnaiolo. Ma io non dispero di origliare, un giorno o l’altro, nell’osteria di Beppe Maurri detto Picchio, il loro dialogo di me. Mi garba Vespasiano perché nativamente e inconsapevolmente attribuisce all’intelligenza e alla perizia le virtù della magìa e dell’alchìmia. Qualche parte di talune sue vite illustri sembra archimiata com’è la mia tutta quanta.
Quanto mi piace questo! «Oltre all’altre cose, Plinio intero non era in Firenze, se non uno frammentato. Nicolao sapeva che n’era uno a Lubecchi, nella Magna, e ordinò che Cosimo facesse d’averlo, e così fece. E per mezzo suo venne Plinio in Firenze.» Tanto mi piace; e non può tanto piacere ad altri mai.
Ma come avrebbe egli risposto a un grecastro che gli avesse voluto vendere il piano di Maratona? Certo con quella faceta eleganza fiorentina che non poteva intendere né esercitare il Britanno morto claudicando a Missolungi. Il piano di Maratona, con tutto l’ossame e con l’ombra di Milziade, fu offerto a Giorgio Byron per sedicimila piastre; e credo ch’egli non isdegnasse di trattare.
Ora chi mi potrebbe oggi vendere il Casentino? chi mai s’ardirebbe di venire a mercatar l’investitura, se io ne son signore legittimo, di contro a tutti i lucumoni etruschi e di sopra a tutti i conti Guidi? Quando Francesco ultimo dei Guidi escì da Poppi con le sue trentaquattro some di roba, v’entrai ben io prima di Neri Capponi. E, prima della Repubblica fiorentina, io m’ingollai tutto il paese, da Staia a Chiusci, da Romena a Bibbiena, dalla Verna a Camaldoli, compreso il laghetto medicato delle Ciliegeta (o Nicolao!) con bronzi e bronzi e bronzi (o Nicolao!), con la «cava degli Idoli». E, se il Piccinino frignò che i suoi cavalli non tritavan sassi, i miei li trìtano.
Io non ho ne’ miei armarii e scrigni «infinite medaglie di bronzo e di ariento e d’oro», come l’amico di frate Francesco da Pietrapane. Ma ben ho il conio nel cranio: ho il torsello nell’osso coronale e la pila nell’occipite.
Quand’ero scolaro a sgobbo di latino sotto il magisterio canoro di Onorato Occioni esule da Trieste, andavo spesso a razzolare raspare frugare i giudei rigattieri in Campo de’ Fiori per trovar monete, medaglie, statuette, istoriette di rilievo, intagli di niello, sempre disposto a barattar pranzo merenda cena golosìa fornicherìa e ogni altro piacer romanesco per la scoperta inaspettata, per la rarità insperata, pronto a gustar la spica di Metaponto il grappolo di Calacte la conchiglia di Cume il granchio di Cos la colomba di Sicione il gallo di Suessa il cigno di Camarina e perfin la civetta di Rubi nella succedanea ricotta del procoio, apparecchiatissimo a masticare il bove di Esernia il cavallo di Larissa il cane di Erice il cervo di Petelia il cignale di Arpi il leopardo di Centuripe in statere in dramma in tetradramma in decagramma, e perfin l’elefante d’Etruria e i serpenti di Enna, attraverso la soccorrevole piccia domestica di fichi seccati e maritati in Vacri d’Abruzzo.
Ahimè, troppo spesso mi dovevo contentare d’un baiocco della Sede vacante! Sol una volta m’avvenne di tirar fuori da un mucchio d’ottoname un Sigismondo di Matteo de’ Pasti e un Lionello di Vittore Pisano.
Così, nella sfortuna, anch’io cominciai a ingegnarmi e dilettarmi di contraffare i conii delle medaglie antiche. E per ciò forse, da falsatore a falsario, m’ebbi nel mio eremo di Romena tanta familiarità con Maestro Adamo.
marfisa e la vecchiezza
Ecco, per esempio. Un giorno d’autunno, a Ferrara, il 6 novembre 1898, m’ero indugiato nella Palazzina, assalito dai sogni insani, oppresso dai sogni malsani, forse chi sa da quali demonia risvegliate e aizzate nella casa della malìa e della voluttà. Ero torbido e acre, forse perché tuttora mi travagliava il veleno che una musa borgiana della contea di Virtù aveva tentato di insinuarmi per più giorni misto al non natìo cinabro delle labbra sapienti: il veleno a termine. E la casa di Marfisa era in mano di guastatori bestiali.
Preso a un tratto da non so che cattiveria tirannica, feci da padrone. Chiamai gli intrusi, comandai agli ottusi; che accorrevano da ogni parte, fabbri, falegnami, calcinaiuoli, mercanti di canape, mercantuzzi di capecchio. Tutte le porte del passato mi furono aperte da quelle mani polverulente. E la casa di Marfisa era la Vecchiezza, come Schifanoia era la Gioventù. Da per tutto s’affoltava canizie, s’ammassava canizie, s’arruffava canizie. Il Tempo aveva lasciato la falce per le cesoie. Con cesoie senza stridore tagliava le chiome agli amori vecchi, ai piaceri vecchi, alle vecchie menzogne, alle vecchie glorie, alle vecchie fedi, alle vecchie arti.
È la canapa dei canapai? Ma non ascolto ora veramente uno stridìo di cesoie stanche o arrugginite?
In un de’ cortili lavora un fabbro a un’ancudinetta, e lima il ferro che geme. Un uomo fosco di fuliggine mi conduce a una porta scheggiata, m’apre. Varco la soglia consunta, sconnessa; e vedo un pezzo di soffitto a cassettoni, tutto rose vermiglie in campi d’oro. E passo.
Questo è il teatro delle danze macabre? la Morte danza con la Poesia? La volta è come una gran pergola devastata da un temporale d’agosto. Pampani verdicci e pigne d’uva bionda penzolano, più tristi che se fossero sfuggite alla vendemmia ma rimaste premute a mezzo, qua e là calcate, rotte qua e là. È l’uva d’oro che il signore d’Este tramutò dai vigneti di Provenza nei vigneti ferraresi? Vengono di Po gli uccelli a piluccare? e più aereo fanno il pergolato?
Corre in giro, di pilastro in pilastro, un fregio di piccoli festoni tanto esquisiti che mi vien voglia di rapire il più fresco e di chiuderlo in ghirlanda, di annodarlo con un nastro a spina, per una bella testa assente e innocente.
«La vuoi? la vuoi tu qui? Vuoi che io te la chiami?»
Una voce di rinunzia e di dolore, inconsapevolmente irosa, par mi sorprenda inappagato e avido, tra Marfisa mal morta e l’avvelenatrice mal viva. M’impiglio nel fascio delle capellature canute; m’impiglio nel capecchio; m’inviluppo nella stoppa.
Passo un altro limitare. E quest’altro palco vacillante sembra annerito dall’incendio; o forse dal fumo dei lambicchi, dei crogiuoli, dei fornelli. Per tutto il pavimento sono sparsi canestri e ceste e tini e ruote: forme ritorte e circolate: circoli d’incantesimo. E l’uomo di fuliggine mi addita la porta, dove tra assi rozze è un’asse dipinta; e scorgo nel guasto una figura di donna dagli occhi seguaci, in veste rigida di pompa, con una cagnolina che mi sembra generata dal cane magico addetto ai sortilegi di Armida nel giardino di Dosso Dossi.
«Questa è Marfisa» latra l’uomo fosco. «In questo luogo ci si sente.»
Le volte delle camere ondeggiano come in punto di sommergersi, coi vasi coi fiori coi frutti con gli uccelli. I ragnateli ne’ vani delle finestre ondeggiano come piante trascolorate in uno specchio palustre. Tutto s’impallidisce, s’incanutisce, s’avvizzisce.
«O Dosso Dossi, almeno tu dammi l’ardenza del tuo San Giorgio!»
E nel biancicore funesto mi rifiammeggia l’uccisore del drago di palude ammansato dal cìngolo della Vergine. È ardente, è armato, con la tunica rossa e con le brache rosse di sotto all’armatura, respirante il fuoco della liberazione dalla gola e dall’animo. Ma gli svolazza sopra al fuoco il suo bel manto verde: un che di fresco, un che di lene e di novello, ignoto a me, ignoto a lui.
Tremenda gioia è respirare il fuoco. Sono arsiccio, e pur tentato d’appiccare l’incendio alle balle di canapa. Fuggo, cerco la strada ferrarese, m’allontano. M’imbatto in una fila di carri a quattro ruote, tinti di rosso, carichi di canapa, tirati da buoi bianchi.
In vicinanza di Santa Maria della Rosa è la casa che il primo Alfonso diede a Laura Dianti.
E so che il secondo Alfonso per i servigi e per le ambascerie eleggere soleva «le persone raccomandate dalla bellezza».
In fondo alla via solitaria, quasi fluente tra muri di mattone rosso e grigi scheletri di alberi, s’allarga un sacrato ove tra i ciottoli cresce l’erba folta come in un pratello mai calpesto. E Santa Maria della Consolazione ha la facciata di mattone rosso. E sì costante è il tremolio dei trifogli umidi nel pratello, che sembran tremolarne anche le due colonne del portale, anche le inferriate delle quattro finestre basse.
Quale delle donne morte mi cercherà fra i trifogli lo scongiuro di quattro foglie?
Pia Mater consolationis quae consolat nos… La chiesa è abbandonata. Il campanello è assordato dalla ruggine. Sotto le due navi il pavimento è inverdito dall’umidità, chiazzato di muffa e di gromma, simile a un’acqua stagnante. Il pulpito si fende e pèncola. I carri funebri, guatando dalle occhiaie dei fanali spenti, fanno più nera l’ombra. Nel luogo dell’altar maggiore è una catasta di legna, quasi rogo che attenda di conflagrare e di rugghiare. Sembra che l’abside conflagri di sùbita sinfonia. Gli angeli musici suonano viole violini tiorbe arcileuti trombe pifferi cimbali sinfoniando. Gli strumenti grandeggiano. Le viole da gamba gareggiano di statura con i chèrubi chiomati. Le vesti angeliche, giallette rossigne verdine rance mavì, ampliano l’abside in arcobaleno. E il rogo brama di ardere, agogna di sinfoniare.
M’avanzo a tastoni nella mia tristezza. Di tratto in tratto urto con le mani uno spigolo, uno stipite, un usciale. Intravedo una Santa Caterina in una lunetta; e penso che, per aver servito e seppellito un lebbroso, le si appiccò la lebbra ma di lì a poco le si mutaron le mani in bianche e pure da disgradarne un nato d’allora. E il custode mi sibila, attraverso la sua raucedine, che il monastero si usò e si usa per lazzaretto. E, come si china ansimando a raccattare la pezzuola che gli casca, penso che piglia una manciata di terra per ispargerla sul capo del lebbroso. «Muori al mondo, rinasci al dio.» Giù per le mura pallide, giù per le arcate pallide, pendono i ragnateli, tremano i ragnateli. E ora scivolo sopra un pavimento muffito, ora scalpiccio l’erba d’una corte umida. E ogni corte è un cimitero murato; e sopra le lapidi le corone mortuarie di novembre marciscono affliggendo l’erba vivida. E per tutto è il tanfo dei fiori putrefatti.
Chi mi rilegge il vangelo dei Dieci Lebbrosi? questo bizzoco incatarrito? «Se andando per via t’incontri in chi voglia parlar teco, ti vieto di risponder prima che tu ti sia messo contro vento.»
Per l’immenso monastero di sette chiostri e di sette orti odo sonare di continuo quella tabella che si suona in vece delle campane negli ultimi tre giorni della settimana santa. Chi la scuote dentro i miei orecchi che mi dolgono? «Se avrai mestieri di qualcosa, sì la chiederai al suono di questa tabella, scosto dalle persone e contro vento.»
Cammino, cammino. Non so i luoghi; non li conosco, e forse li riconosco. Sette chiostri, sette orti. Il mattone si sgretola, qua e là rosso come grùmoli che colano. Il legno si tarla e s’infracida, qua e là giallo come galestro che si sfalda. La pietra si consuma e si liscia come ossame disotterrato che non scricchiola. Il Tempo nella casa di Marfisa ricusa la falce e piglia le cesoie. Qui ricusa le cesoie e piglia lesina per forare, macinetta per trituzzare, lima sorda per rodere.
«Fratel mio, prendi questo gabbano, e mettitelo in segno di umiltà; e non escire mai di qui senza.»
Dubito. Esito. Passo. Le arcate minaccian di crollare; le colonne accennano a inginocchiarsi; gli architravi s’incurvano; le imposte si fendono; i vetri s’incrìnano. Pe’ lunghi corridoi che sitano di morticcio e di umidiccio, certe credenze sgangherate sembran schiacciarsi contro il muro per lasciar passare il vivente o lo spettro, fatte con legname di bare e di feretri in disuso.
Entro in un altro chiostro inselvatichito come un’aia che da anni e anni non sia più battuta dalle trebbie. M’ingolfo nell’ombra stantìa d’un altro andito. Sbocco in un altro chiostro ricinto da colonne di mattone roggio, abitato da qualche magro mandorlo tristo che dimenticò il miracolo de’ suoi fiori; e v’è un pozzo protetto da una tettoia a capanna dove canticchia un passerotto rabbaruffato. E m’accosto; e mi spenzolo alla sponda fra due solchi di fune; e non mi riesce di scorgere luccichìo d’acqua; e il secchio è senza fondo, abbandonato là da una monaca danaide. Ho sete, come un misello.
«Piglia questo barletto, dove porrai ciò che ti sarà dato da bere; e a pena di disobbedienza ti vieto di bere a’ rii, alle fontane, ai pozzi.»
Ma dove sono? In Santa Maria della Consolazione? nel convento dei Servi? nella Casa Romei? nella Certosa? in qual luogo di abbandono e di miseria? Tutto nel mondo invecchia? O qual febbre autunnale invecchia me?
Forse là, sopra l’arco della porta minore irta di draghi e di chimere, anche la faccia di Madonna Ferrara si raggrinza, diviene tutta crespe. S’incanutiscono i capelli folti, spartiti nel mezzo della fronte corrugata; e le coprono gli orecchi assorditi, dove forse tuttora, come le onde nella conca deserta, riecheggiano le cantate da camera a voce sola di Giovanbattista Mazzaferrata e le toccate d’intavolatura di cimbalo e organo del Frescobaldi.
O musica di Ferrara! Dai quattro punti e dal punto di sotterra viene verso me la musica a cinque voci di Giovanni Maroni. «Su la sinistra sponda Del regal Po si scorse Soavissimo fior novello e vago.» I suoi madrigali s’avvicendano con quelli di Filippo Nicoletti, quasi alterna melodia di baci alterni. «Baciate, ohimè, baciate. Lungo è il nostro desìo, il tempo è breve.» E oggi forse anche il cinabro venefico della musa borgiana, dell’amante di Virtù, è migliore di questa cenere lugubre.
Mi risponde la tentennella del lebbroso. «Piglia questa, per segno che t’è vietato parlare a veruno che non sia come te.»
Fuggo; e non so dove io fugga, se dentro me o fuor di me. Mi ritrovo innanzi a un gran camino spento. Il fuoco è spento; e la cappa fiora come un albero da frutto in marzo, gli alari fogliano come le canne del padule intiepidito. Alzo gli occhi al fregio che ricorre intorno; e la mia ansia anch’ella fa sosta sotto il pergolato, si siede tra il fogliame carico di frutti, presso le belle donne assise che hanno lunghi cartigli parlanti nelle belle mani mute. Mute le belle mani, mute le bocche belle che pur si schiudono a gara con la melagrana e la melanconia. Ma che dicono i cartigli? Inteso a deciferare le scritture avvizzite, con gli occhi bene aperti, non le intendo se non quando ho gli occhi chiusi. Corrono musiche lungh’esse le pergole. Ogni cartiglio sinuoso reca il cominciamento d’un madrigale ferrarese.
Ora Giovanni Pittoni fa una ricercata su la sua tiorba, e tien gli occhi fissi su l’intavolatura. E i gentili musici si mescolano con le gentili donne dei cartigli. E v’è Spirto da Reggio, v’è Leandro Mirra, v’è Costanzo Porta, v’è Paolo Virchi, v’è Francesco Soriano. E Francesco Viola canta: «O cieco e folle amore.» E Giovanni Crivelli: «O stelle ardenti.» E Sebastiano Cherici intona a due voci: «Dolce ardor che favilla.» E Giulio Eremita: «Poi che il mio largo pianto.» E Luzzasco Luzzaschi intona il secondo sonetto del Petrarca in vita di Madonna Laura: «Per far una leggiadra sua vendetta.» E Girolamo Belli d’Argenta, dopo una pausa senza sorriso, intona il madrigale di Torquato Tasso per Marfisa d’Este: «Portano l’altre il velo, Voi le chiome dorate.»
Dov’è la sua tomba? Non me l’addita l’uomo di fuliggine come dianzi m’additava l’asse dipinta? Anche qui, come davanti alla porta, dice piano: «In questo luogo ci si sente.»
S’è levata la tramontana; e rabbrividisce lagnandosi per i chiostri, mentre il mazzo delle chiavi tintinna nel pugno del seppellitore incappato senza cappa. E rasento edicole e urne mortuarie in custodia di angeli sdorati; passo piccoli giardini della morte, dove i fiori sono di vetro come gli occhi intrusi nelle caverne degli accecati. Tutto è sbiadito, tutto è assordito. Il marmo è come la colatura del moccolo mezzo strutto. L’erba è come la lucertola delle cantine bianchiccia chiazzata di lentiggine. A un tratto, odo uno squillo di luce, prima di scorgere donde si parta. Una sola fronda, che sopravvanza il muro cieco, splende come l’oro delle frondi sparse sul volto del re supino nel sepolcro di Micene. Ecco la lapide nera di Marfisa. Dell’epigrafe d’oro lo sguardo subitaneo non rapisce se non due parole sole: femina heroina. E l’epigrafe è lunga e mendace, dedicata Marfisae Estensi Cybo dal figlio primogenito Carlo principe di Massa.
Il misello mi scuote agitando le sue chiavi inesorabili. Mi conduce ancóra a calpestare pietra ed erba; mi guida a un’altra porta; entra, e s’accosta a una grata, e parla basso; e accanto gli sta la rota che non gira. E la tabella ricomincia a sbattere, perché le monache velate s’allontanino.
Sono il lebbroso condotto in clausura? «Ecco la mia requie in perpetuo. Qui abiterò. Questo era il mio vóto.» Non parlo, ma mi consacro.
le clarisse al limitare della morte
L’Umbro mi accompagna, e m’accomanda a quel frate Iacopo contadino detto il semplice; e si ricorda giovine aver letto, in alcuna prosa di romanzi cavallereschi, come le lagrime sieno acqua del cuore che da ogni lebbra monda la carne e l’anima. E già con l’acqua del cuore egli mi lava numerandomi il fornimento; ma vedo altre mani incrociarsi con le sue, altre bontà rilucere nella sua, altre grazie avvolgersi alla sua grazia. E Sibilla di Fiandra mi dà in consegna la tabella i sandali il gabbano, e la veste e il cappuccio di cammellotto. Elisabetta d’Ungheria mi dà in consegna il barletto l’imbuto il cìngolo il coltello, la scodella di faggio, e il lettuccio con tutto il suo arredo. Odila d’Alsazia mi dà l’asce, mi dà lo scrigno con la chiave, mi dà la tavola e la sedia e la tovaglia nuova. Giuditta di Polonia mi dà il vaso stagnato e il treppiede di ferro che lo regge, altre scodelle di acero e di loppio e di ciliegio mi dà, la pentola a due manichi, la mezzina di rame, il vassoio di ontano con le sponde rilevate. Caterina da Siena mi dà un gran rinfrescatoio di cristallo ove s’appanna il gelo dell’acqua e gronda; mi dà un libro e un fiore, e la lucerna.
Morta è la Caterina di questo monastero. Tutte le altre monache sono morte, fuorché quattro che son quasi curvate fino a terra per potersi colcar senza trambusto nel letto perpetuo. Io ripeto in me: «Ecco il mio riposo in perpetuo. Qui abiterò. Questo era il mio vóto.» E non so se io abbia il viso dell’angoscia o il viso della speranza, per lo sguardo delle clarisse coperte di velo nero e lontanissime da me come quattro figure del servizio sacro dipinte su la muraglia di un ipogeo tebano.
La più giovine ha settanta anni. Deve morire, deve andare in cielo portata dal mantello di santa Chiara, per alfine lasciare il monastero alla confisca regia.
Son così curve che sembran le sirocchie dei nani ricercati alla mensa del marchese d’Este. Son così curve che l’impiantito sfatto sembran toccarlo anche con le grinze delle mani moribonde. Sono tanto annose che ritrovano la balbuzie della più lontana infanzia, quella che sbava tra le gengive dove i denti non son nati ancora. Mi guatano attraverso il velo nero, con uno stupore quasi faceto, dimentiche dell’aspetto umano; e a quando a quando ritrovano il lor riso dimenticato, e lo provano come il bimbo inesperto prova il sufolo; e non sanno più ridere, come piangere non sanno più.
Dov’è la stanza di Lucrezia Borgia? È quella che ha la volta dipinta a grottesche? E la sua tomba è di qui.
Forse qui rimuore. In una grande camera deserta, tutta dipinta a fiori a fogliami a mostri, una piccola donna ammalata è in un letto meschino. Sembra di cera, la misella; sembra già rimodellata dal pollice dell’angelo custode. Ha di Lucrezia i capelli troppo chiari e troppo fini, i capelli canapini di Lucrezia: i capelli d’una pargoletta albina; che non s’accorgeranno di rimorire.
Ma le quattro clarisse disumanate già tiranneggiano l’uomo sconosciuto e intruso! Vogliono mostrarmi il forno della loro Caterina ferrarese.
È in un oratorio angusto, di mattoni anneriti. V’appare indiato il fuoco che non brucia e che si spegne. Il forno regge fra le sue mascelle nere un fascio votivo di fiori, come un basilisco mansuefatto. Può lambire la preghiera fresca, su l’inginocchiatoio che gli sta dinanzi.
Caterina Vegri attendeva a cuocere il pane della comunità, quando fu chiamata dalla campanella. Abbandonò il pane alla fiamma e l’accomandò al Signore, partendosi per l’ufizio. Divotamente al suo ufizio attese quattr’ore. Credette ella, tornando al forno, trovare il pane incenerito; e il medesimo credettero le compagne. Ma nella bocca ancor tiepida, e non più fosca ma rosea, lo videro d’un color dorato più dolce che l’oro delle aureole; e inebriate furono dall’odore, imparadisate furono dal sapore. O miracolo del celestiale frumento! E per intervalli spira nel monastero quell’aura, specie quando una clarissa è segnata dalla morte. L’aura è l’annunzio dell’elezione. La moritura sente l’aura di suor Caterina, e sorride dichinandosi al sepolcro come a un bel rosaio.
La mano esangue e sgualcita della ottuagenaria apre il Mortologio, sopra un leggìo sperduto nel refettorio vastissimo dove le quattro superstiti occupano nelle ore dei pasti una menserella al fondo; e là tre nutricano la morte, e una legge il libro ove il trapasso d’ogni suora si registra; e le defunte clarisse così rimemorate vengono a risedersi su le panche e a rimasticare nella cenere il pane non incenerito.
Chino sul libro, leggo qualche nome e qualche novero di longeve. Una si chiama Florida Gioconda, morta in età di cento dodici anni!
Muoio di sete, sazio d’anni anch’io; e non domando un sorso d’acqua, né del Giordano e né del Tescio. Piuttosto beverei «acqua del cuore» che accostare le labbra a quell’orciuolo tenuto per le due anse da due mani scheletrite, non da me protese né da alcuna delle quattro ospiti velate che non finiscon di balbutire come la lunga agonia boccheggia a lungo.
Dov’è dunque il rinfrescatoio di cristallo ove s’appanna il gelo dell’acqua e gronda? Certo la Senese avea recato seco acqua di Fonte Branda o acqua di Fonte Gaia, «sotto una pergoletta di gelsomini», come nella novella antica.
È novembre. Ma ritroverò sotto la pergola, ripassando per la Casa Romei, le belle donne serene che reggono i cartigli come quaderni d’intavolature davanti ai musichieri svenevoli.
«Ti vieto di stare con altra donna, che la tua. Ti vieto di bere in compagnia, se non di miselli. Custodisciti, e abbi pazienza. Dio è teco.» Mi garrisce tuttora l’uomo della tentennella e delle chiavi? Son tentato di chiedergli se nella Casa Romei non si ritrovi quella Madonna Laodamia Romei, moglie del giudice della Corte e consultore della Camera, decapitata come adultera, dopo il gran castigo inflitto a Parisina. Son tentato di chiedergli se rimangano adultere in Ferrara, dopo che Nicolò d’Este in un impeto bestiale di furore ha fatto giustiziar sul prato di giustizia quelle a lui note. Son tentato di chiedergli se almeno sia da rinvenire, in una casa vicina a Santa Maria della Rosa, nella Casa Aventi, se non erro, la diletta del primo Alfonso, quella dal bel nome che già le ho rapito per certe mie nuove invenzioni, Laura Dianti, vestita d’una pelandra di panno d’oro cremisino fodrata d’armellini.
Esco, restituito avendo sandali e gabbano a Sibilla di Fiandra. Nell’estremo chiostro, alzato sopra due ordini di logge con archi a tutto sesto, certe colonne di sentore veneto mi evocano la caligante languidezza di Venezia. (Laggiù, il canale di Burano, scorrendo verso Belriguardo, non somiglia la Brenta?)
In estremo la tentennella ammonisce dietro a me: «Ti vieto di andare per viuzzi angusti, acciocché se incontri alcuna, ti possa ella scansare.»
Respiro. Scorgo il campanile di San Silvestro, vedovo di campane, là nella campagna. Più oltre, passato l’Arco della Giovecca, per alcuni gradini salgo a uno spiazzo di mezzo cerchio sopra le mura antiche della città; e di sotto luccica l’acquitrino che non m’è «lo specchio di Narcisso» ma un cupo specchio venato e chiazzato ove sfonda la malinconia dell’immensa pianura nel crepuscolo.
E vengono ancóra verso la città i carri rossi a quattro ruote carichi di canapa; e ciascun carro aggioga due paia di bovi bianchi; e anche le giogaie sembrano brancate di canapa venuta giù dalla scotola di legno.
Ed ecco, in cima alla canizie folta, rientra a Ferrara verso sera Madonna Paresina di Malatesti, col capo nella palma della man destra, al modo ch’ebbe il santo di Francia messere Dionigi. E n’era uscita un lunedì ventun di maggio; e porta in mano il capo mozzo dagli occhi aperti ove Ugo s’eterna e il suo peccato; porta il suo capo col gesto medesimo di chi ostenta la teca dall’altare: porta nella sua teca le reliquie delle sue primavere all’autunno di Ferrara estense.
violantilla e la druda
Quella campana suona dalla vecchia torre di San Francesco? E un’altra morta – femmina ed eroina – s’alza dall’arca di granito roseo scoperchiata, scotendo dal coperchio i gorzaretti i giachi i bracciali le manopole le targhe i turcassi. Ha nome Violantilla Ricarda moglie d’Augusto Villa cavaliere, mirae castitatis femina.
Ma certo per me si chiama Violantilla quella giovine lasciva come una capretta non villosa, che si lascia metter la mano nella fenditura della gonnella, un poco più insù delle ginocchia, e si lascia strizzare e sbaciucchiare dall’amoroso drudo vestito di scarlatto mentre le compagne stanno d’intorno complici accorte «con molte generazioni di stormenti» e il gruppo delle Grazie estensi splende su l’altura. E quasi s’aspetta che dall’abbracciamento bene scosso e musicato sgorghi tutta quella preziosa vita, si versi tutta quella gemmante vita, si sparga tutta quella fiammante vita su per le mura di Schifanoia. Quasi s’aspetta che da quell’accesa porpora si generi tutta l’eloquenza e tutta la voluttà del rosso che adorna e incita e accorda splendidezze arditezze squisitezze signoreggiando perfino il candore dei cigni dei liocorni e dei palafreni come la castità di Violantilla expers quae thalami vitam sine crimine vivit!
Il crepuscolo autunnale di Ferrara si mitiga, s’intiepida: ha insieme qualcosa di plumbeo e di roseo come la pietra della porta scolpita, alla casa de’ Prosperi presso quella de’ Diamanti, dove i passeri si scambian per cardelli, dove in fondo alla via lunga i pioppi continuano la prospettiva de’ palagi. Giovanni Maroni a cinque voci intona: «Fior novello gentil che spunta appena Da la mia mesta avena.» A Ferrara i nomi delle donne estinte cantano. Canta Filippa dalla Tavola cittadina di Ferrara e innamorata di Nicolò da Este che presso la Porta di Sant’Agnese la pose ad abitar la casa costruita per lei da mastro Giovanni di Siena. Canta la Vanna di Roberti «per la quale fu facto el Paradiso e Belfiore e Schivanoglio». Canta Alisia d’Antiochia, la terza moglie del sesto Azzo. Canta Cubitosa di Rainaldo «vestita d’un mantello fiamengo di panno d’oro celeste fodrato d’armellini». Canta perfin la Beatrice vedova di Nino giudice di Gallura, quella che tanto gli piacque, quella cui tanto bene s’addicevano le bende bianche e i panni neri, quella per cui
quanto in femmina fuoco d’amor dura
se l’occhio o il tatto spesso non l’accende.
Filippa, Vanna, Alisia, Cubitosa, Beatrice cantano a cinque voci, senza l’organo, la compieta di Ferrara: «Che fai, alma?» Ed ecco un’altra gola s’aggiunge, come nei madrigali a sei voci del Lauro verde ferrarese, come in quel quaderno vizzo che reca la ghirlanda inclusa nel quadrato nero. «No, no, non ti doler.» Canta la Verde dalla Scala? o Costanza Malatesta? o Ginevra? o Mambilia? o Meliadusa? «No, no, non ti doler.»
Sono inquieto e scontento, avido e stanco. Annotta. Rincaso. Per la finestra m’appare il castello fosco, enorme, con le sue torri quadrate, con alcuna delle sue finestre illuminata, co’ suoi fossi colmi d’acqua pigra ove galleggiano l’erbe viscide e putride del prato fondo che fu falciato dal carceriere e dal carnefice. Distinguo la feritoia, chiusa da sette ferri, nella prigione di Parisina; e sento com’ella sentisse per lo spiraglio la presenza verde dell’acqua nel fossato sottostante.
le fantine
Chi sa quale fantasma batte al mio uscio! Mi volto. Entra il burattinaio. Mi ritrovo davanti a un castel di burattini. Vedo allineati sul mio letto di ventura e su la mia tavola di ventura i burattini da muovere, i miei burattini nuovi e illeciti, disegnati da me, congegnati da me stesso.
Quest’omicello discende dalla più insigne schiatta ferrarese di burattinai. Da me sollecitato e sedotto, questo maestro piccolo e grande si degna d’insegnare la sua arte a me che per lui non ho arte né parte; ma gli sono oramai divenuto discepolo in cui ripone egli le più lucrative speranze.
Ho trascorso un pomeriggio di lugubre voluttà coi nomi delle donne estinte. Incomincio la mia notte con le fantine della mia fantasia perversa. Par mi ritorni quel sentore di Venezia che m’ondeggiava nel chiostro della Casa Romei tra loggia e loggia per gli intercolunnii magati dalla malinconia senza laguna e senza luna. Ecco le «piàvole» supine sul mio letto senza coltre.
Non portano pelandra né mantel fiamengo. Son femminette dalle gambe nude, come per guadare il Lete immemore. Han vesticciuole color di fragola, maniche a sboffi di refe color d’avorio, cappelli come i papaveri di Proserpina. Talune han lo scialletto nero a lunga frangia di lacciuoli, le calze nere che della magrezza e del pallore fan quasi un afrodisiaco trasparente, i tacchi alti come trampoli da passar fanghi di delizia o come trivelle da cavar pozzi di guadagno; e certi visini modellati da una certa febbre che si chiama «smara» e che non lavora col pollice ma con l’alito.
Questa danzatrice è forse una tanagrina travestita; che s’è messa la gonnella a foggia di convòlvolo riverso e l’ha tempestata di quelle rose azzurre introvabili come le belle bocche veritiere, ma ha dimenticato di togliersi i coturni.
Questa duchessa posata su la campana del guardinfante, come una farfalla che dalla cintola insù sia per involarsi, ha i capelli canapini di Lucrezia Borgia e di quella misella coricata nella camera vuota della Casa Romei. Ne taglierò una buccola, e me la metterò sul cuore per ricordarmi di tutt’e tre. È peggio che bella, fatta di velo e di raso e di velluto indicibilmente, fatta con un grigio e con un giallo e con un blu indicibilmente, fatta con qualche tocco d’ironia e con qualche tocco di malinconia, con qualche tocco di passione e con qualche tocco di volubilità: peggio che bella, cioè più che bella. E forse è chiamata Piuchebella tra la Piazzetta e la Merceria, tra San Marco e San Moisè. Ma forse qui a Ferrara, se si spoglia, se si mette fuor delle mode e fuori delle cronache, qui a Ferrara, tra Schifanoia e il campanile di San Giorgio, tra la Casa Romei e San Francesco, si chiama Meliadusa.
Tra tutti i nomi delle donne morte questo mi canta nella fantasia, stasera, perché prima non ha cantato con le cinque voci del madrigale di Giambattista Crivelli né con le sei voci del madrigale di Giambattista Mazzaferrata. «No, no, non ti doler.»
Mi congedo dal burattinaio che pèncola perplesso ora su l’uno ora su l’altro piede. Serro l’uscio. Ricopro le fantine con qualche telo di drappo a oro comperato ieri nella bottega dell’antiquario che somiglia a Borso e che perciò pretende avermi venduto la gualdrappa del famoso cavallo estense «leardo pomellato di nome Il Belladonna».
Mi viene in mente che la Senese, al limitare della clausura, m’ha dato in consegna pel mio arredo, col libro e col fiore, la lucerna. Quella accendo.
E voglio celebrare questa giornata sacra e profana di devozione e di violazione, di saggezza e di demenza, di preghiera e di delirio, ne voglio perpetuar la memoria con una medaglia di buon conio che a Borso antiquario possa parer domani opus Pisani pictoris. M’ho il torsello nell’osso coronale e la pila nell’occipite.
Ecco. Nelle sillabe di Meliadusa il nome terribile e impietrante di Medusa è interrotto da un suono liquido e mellifluo: me [lia] dvsa.
Nel dritto pongo la testa serpentosa della Fòrcide, e nel rovescio un alveare d’Ibla.
«a gomitello» con malinconia
Se questa medaglia di Meliadusa mi fosse nelle mani e mi cadesse dalle mani su quel pezzo di lapide etrusca infisso nell’ammattonato, forse darebbe il suono insolito di queste pagine da me scritte, in un sogno più animoso della vita, con una penna offerta a me da Amaranta, forse troppo studiosamente ricavata dall’asticciuola della freccia di Bellerofonte tolta al fianco della Chimera d’Arezzo.
Ecco un buon motivo per un madrigale d’ordine composito, se oggi madrigaleggiare mi piacesse. Sorrido paragonandomi a quel Rosso che ha in comune con me anche alcuni casi della sua vita, e l’aver abitato a Firenze nel Borgo de’ Tintori, e l’avervi preso piacere d’un bertuccione come io di più d’una piacevole bertuccina. «Era anco tanto ricco d’invenzioni che non gli avanzava mai niente di campo nelle tavole.» Non così a me nelle carte?
Non conoscevo l’Arezzo di Marco Perennio né l’Arezzo di Guido Tarlati, quando conobbi la sua grande Chimera in un mattino della settimana santa escito di collegio e ospitato nel Borgo de’ Tintori dal mio «raccomandatario» già consorto dell’ultimo serenissimo Granduca. Al palagio della Crocetta nella Via della Colonna fui condotto da colei che «in quella parte del libro della mia memoria, dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere» è chiamata Malinconia.
Eravamo sul Ponte alle Grazie, sul vecchio Ponte di Rubaconte che in grazia di quel mio primo amoretto avevo nominato «di Rubacuori» edificando sopra la pigna dal lato di levante, nel luogo dell’oratorio di Iacopo degli Alberti, il sacello de’ miei vóti quasi confessati. Malinconia aveva così belle e fresche braccia che non smetteva la manica corta se non dopo l’estate di San Martino e la rimetteva al principio della primavera, proprio all’equinozio, tre giorni dopo la festa del mio nome angelicato, con una esattezza equinoziale che mi tagliava in due parti eguali l’anima, in agguaglianza di «pensier folli» e di «spemi bambe», come diceva una rima di Benedetto Varchi in un libràttolo pastorale da me trovato nella scancìa d’un libraino sul lungarno degli Acciaioli. Fin da allora avevo in uso e in vezzo la facezia cruschevole per dissimulare il mio segreto! E l’Academia della Crusca, tanto ritrosa dal concedere al «miglior fabbro del parlar materno» almen la toga verderògnola dello Immaturo, non sa quanto ella m’abbia soccorso e mi soccorra nei tremori e rossori e pallori della mia timidità.
La mia «speme bamba» aveva dunque inventato un modo ingegnoso di goder le belle braccia, in obbedienza a un mònito della Introduzione alle Virtù: «I tastamenti vadano dinanzi alla tua via.»
Avevo inventato il modo di andare e di stare «a gomitello» con Malinconia. E questa graziosa maniera, che anche ora per la sua grazia non è quasi mai respinta, questo delizioso nesso era un frutto della lingua di Fra Domenico Cavalca, ohimmei!
Stavamo dunque a gomitello contro il parapetto del Ponte alle Grazie. Ma pur m’era entrata una gran voglia di «sempre mai stare a bacìo», con una allusione furbesca a una canzonetta di Lorenzo de’ Medici. E pensavo che, il giorno innanzi, la Casa Buonarroti nella Via Ghibellina mi s’era felicemente presentata «a bacìo», quando il buon custode ci aveva lasciati soli dinanzi alla Battaglia dei Centauri per confidenza nella mia candidezza ginnasiale che pareva di continuo ripetere senza voce il catulliano emendato Ego gymnasii sum flos.
Dissi, candido: «Clemàtide, le campane non sono ancor slegate. Per la Via de’ Benci e poi di Pinti e poi della Colonna, conducimi al Museo etrusco. Tanto mi piacerebbe di vedere con te l’Idolino, per la prima volta, e il vaso di Clitia, e anche i buccheri, e anche qualche cammeo che ti somigli! Il mio professore calònaco m’ha dato appunto per le vacanze di Pasqua un cómpito difficile, dove c’entra l’Etruria auguriis clara. Aiutami tu.»
Sciogliemmo il nodo a gomitello, e c’incamminammo. Ma all’incrociatura della Via de’ Benci con quella de’ Tintori e de’ Neri, al Canto degli Alberti, nella loggia murata e profanata da una cicoràcea bottega di caffè, ci soffermammo per bere due gran bicchieri d’acqua; ché morivamo tutt’e due di sete.
Non falliscono mai gli indovinamenti del mio cuore. Il Museo era deserto.
Da prima, col cuore balzante e con la bocca ridivenuta già arida, non vidi nulla, abbacinato come nel deserto. Tenevo per mano la Clemàtide, e la traevo di stanza in stanza, da Chiusi a Vulci, da Talamone a Luni; e a Luni, mi ricordo, c’era la morte delle Niobidi e un giardino sepolcrale fiorito di giaggioli violetti. Più oltre, davanti ai vasi neri, davanti ai buccheri, mi fermai con un’ansietà senza causa, come se volessi scoprirci in fondo la mia «speme bamba»; ché il tempo mi pareva fuggire spaventosamente. E nella stanza contigua la vertigine del piccolo cuore sembrò mi s’arrestasse quando il bel collo nudo s’inclinò verso uno specchio di bronzo. E nell’altra, da prima, non vidi se non gli specchi e i coperchi degli specchi; non vidi la Minerva d’Arezzo né l’Arringatore del Trasimeno. Si rifece il deserto intorno; intorno si rifece il silenzio delle necròpoli. Nel mezzo, apparì un viluppo di forme discordi e feroci, una sorta di spasimo metallico lustrante in una pelle indicibilmente verdebruna: la Chimera!
Mi lacerò la mia memoria scolastica e mi riaprì non so che cicatrice nel costato. Pronto il «fior del ginnasio» pensò e forse compitò: Prima leo, postrema draco, media ipsa chimaera. L’irsuzie del bronzo era così cruda che fremevo d’aver già patito e di patire l’artiglio. E la mia compagna doveva temere ch’io fossi artigliato; perché mi si serrava addosso come per proteggermi, dal lato del cuore mi s’annodava con un nodo ben più caldo di quello che ci avea giunti sul Ponte alle Grazie. Sentii la mia volontà riscotersi come se fosse per superare una paura feminea. Mi accostai alla belva triplice con una specie di risolutezza ostentata, con una specie di braverìa puerile, come se fosse veramente armata di fiamme, flammas ore vomens. E le misi una mano nella bocca con tanta furia che le unghie e le nocche mi dolsero; così che, nel primo scontro con la Chimera, il mio stesso dolore provò quel dolore ignìvomo. E a una delle branche davanti le lasciai qualche filo de’ miei alamari d’ussaro convittore intricati nelle punte aguzze.
«Le brucia la bocca?» chiedeva la Clemàtide, un poco rauca, quasi a gota a gota, tra bronzi argille ossi vetri gemme ineffabilmente madida e rosea, tanto stranamente commossa che mi pareva averle appiccata la smania di strofinarsi al mostro. «Gabriele, hai sentito che le brucia ancóra la bocca?»
Non la riconoscevo più. Mi pareva fosse doventata nuda, tutta nuda e bruciante, a un tratto. Se la Chimera spirava la fiamma dalla fauce, ella spirava coeci Cupidinis ignes dalla narice tumida e acre. Ecco che la dolce figliuola del consorto granducale, la compiuta donzella educata al Poggio, mi doventava più incognita della figlia di Echidna lernèa! Quella carne sediziosa mi mordeva più di quel metallo irto. Fu quello, in quella stanza di museo deserta, il mio primo turbamento profondo di amante puerile, il primo tumulto lirico delle forze oscure sollevate dalla pubertà. Il maschio precoce mi si rivelò a un tratto come in un delirio sfrontato.
«Fammi sentire se la tua ti brucia.» Il battito dei denti, come in una febbre che mi trasportasse di là da me, non lasciava passare le parole intere. Ma, quando vidi i suoi occhi volgersi all’una e all’altra porta come per assicurarsi che non fosse per sopraggiungere il custode, l’afferrai senza ritegno con una violenza che pareva comunicarsi a me dal bronzo mordace, quasi snodarsi nei miei muscoli dalla contrattura del metallo. E seppi che si poteva mordere una bocca di donna come non so qual cosa ghiotta nell’ora di fame dopo l’ora di sgobbo o l’ora di palestra. Anche seppi, con una specie di raccapriccio inebriato, con una specie di perdizione salace, anche seppi che v’era un’altra bocca da manomettere, segreta e non impube. E credo che entrambi, con l’alamaro del convitto continente e col casimir della casta famiglia, lasciammo qualche lembo di pudore ferino e divino nelle granfie della Chimera d’Arezzo.
Così, nella vivente poesia, tutto è risonanza consonanza dissonanza. Il tono di quel metallo mìtico, da quel lontano mattino pasquale di puerizia (avevo quattordici anni), non ha riecheggiato in tutta la mia vita di bramosie e di metamorfosi? E anche oggi lo risento vibrare nel più alto grado della mia spiritualità e della mia carnalità, come sento prolungarsi il tintinno della medaglia di Meliadusa, che non è se non una specie di opus Pisani pictoris sopra me stesso. Il mio più alto e più raro privilegio è in questo potere di trarre nuove tempere di suono da tutte le cose ch’io tocco, da qualunque cosa ch’io tocchi; e ciascuna tempera nuova risveglia un nuovo mondo e si propaga nell’invisibile e si perpetua nell’eterno. Io non sono uno scrittore da scrittoio. Sono un artefice di vita assiduo, congiunto alla intera vita, accordato alla vita universa dal mio linguaggio, che è il mio parlar materno e che pure è inimitabile, di numerosa composizione e di favolosa invenzione, come un giorno dirà l’Inciscrannato o l’Incancherito nel recitare il mio elogio academico. E di questo rido, e so ridere, mentre penso al giovine Italiano che fra cent’anni o fra dugent’anni, libero d’ogni «luogo comune» e d’ogni imparaticcio, scoprirà il più bello de’ miei libri – quello che non ho ancóra scritto – e, sentendosi rinascere e trasfigurare dall’intimo, lo terrà per sempre come il più grande e il più appassionato degli eventi. Incipit ars nova.
Grande e appassionato evento rimane per me l’ora della Chimera, quando appunto la mia vita cominciava a essere la mia arte e la mia arte cominciava a essere la mia vita. In tutti i miei sensi la realtà già s’imprimeva con gagliarde impronte; ma da tutto ciò che il mio occhio potea vedere, da tutto ciò che la mia mano potea toccare, il mio spirito già traeva simboli ardenti. Il mio linguaggio era tuttora inespresso, senza questo mio numero arcano, senza queste mie cadenze inaspettate, senza queste mie pause colme, circolante nelle mie vene col mio sangue istesso, esalante dalla mia gola come il mio respiro, radiante da’ miei cigli come il mio sguardo, colorato indefinibilmente come le mie iridi d’angelo neutro; ma esso nel mio cervello era già simile a una sostanza densa, quasi carnale, simile a certe polpe ricche, a certi impasti succosi e saporosi, a certe ardite contrapposizioni di toni e di volumi, in quell’arte che il Vinci chiamava «una musica muta» intendendosi di musica senza avere in sé musica.
E qual sentimento avessi io della musica, fin da quel tempo, è significato dal troppo noto e mal compreso episodio della mia rivolta e denunzia contro il buon maestro Chiti che pretendeva di forzare e addirizzare sopra la tastiera del cembaletto pratese con la sua velluta mano di meccanico la undicenne mia mano libera e pieghevole, veloce e robusta, ben fatta e snodata pel mio proprio stile di cembolante e non pel suo gioco di gran virtuoso in trombon tenore o in trombon contralto. Già sapevo ascoltar l’acqua; e nelle notti di veglia fuor d’orario, al lume della lucerna furtiva, spesso interrompevo lo sgobbo per seguire il gocciolìo di tre cannelle da me bene accordate nel contiguo lavabo; e spesso m’alzavo e andavo in punta di piedi a più serrarne o disserrarne alcuna, quando l’accordo non mi piacesse o mi piacesse variarlo, già studioso d’armonia e scaltro in compartire gli intervalli musici.
La mia vita perduta e pur sempre da me posseduta, come appar manifesto ne’ quaderni della mia memoria, è contrappunteggiata al modo degli antichi che mettevano un punto contro l’altro nell’intavolare il componimento e poi, lasciando nel resto il contrappunto libero, procedevano per imitazione periodica, di grado in grado, alla seconda, alla terza, alla quarta e così via. E, ora che scrivo e rivivendo vivo, io so ben su qual grado, e per moto retrogrado, in questa mia imitazione il conseguente ripeta l’antecedente della Chimera. E il sorriso del fauno «irrisore e non penitente», come direbbe il mio Cavalca, mi rischiara la pagina anche quando la mano mi trema e il cuore mi sobbalza.
Nella stanza del Museo etrusco, col mito della belva spasimante da me interpretato, è anche il mito interpretato della mia vita senza freno, della mia vita di passioni e di piaceri considerata come una perigliosa disciplina perigliosamente intesa ad accrescere le potenze dello spirito. Il sùbito émpito di forze, belluine e divine a un tempo, sollevato in me da quella prima conoscenza, da quel primo assalto a un mistero carnale che già troppo aveva acceso la mia imaginazione fanciullesca, mi rivelò una legge profonda a cui la mia volontà e il mio istinto obbedirono e obbediscono per aggrandire il mondo ideale dall’uno e dall’altra creato ogni giorno. Sùbito mi sentii capace di sopportare con eguale prodezza la più gran somma di piacere e la più gran somma di conoscenza. Sùbito in me sentii, di là dal verso di Terenzio, smisuratamente di sopra al vieto verso di Terenzio, il coraggio di divenire uomo intero, di essere e di persistere contro tutto e contro tutti uomo compiuto abbattendo per me i due termini corrosi e spianando il bivio di Eracle e anche quello del Padre Segneri e riducendo i due freschi termini alla primiera origine comune e riappiccandoli pel capo, come in un’erma bifronte: volontà voluttà.
«Quelli disse, questo nostro fine esser voluptade: non dico voluntade, ma scrivola per p.» Il poeta duro delle canzoni pietrose, che in Ravenna al limite della vecchiezza e all’orlo della morte praticava ancor maschiamente in piuma e sotto coltre la terza rima, qui fa bisticcio; ma è solito rimangiarsi a volta a volta la n e la p e a rimasticarsele e digrumarsele anche tutt’e due in una volta, per esser quel ch’egli è, per mostrare il suo vero nerbo di plasticatore in cerchi in bolge in balzi in gironi in cieli.
Questo di me comprese, l’anno scorso, poco dopo il solstizio, il 25 giugno 1906, questo di me testimonia uno studioso mero ma pur rotondo, Francesco Novati; il quale mi mandò in dono un esquisito elzeviro di Amstelodamo De rerum natura in una legatura esquisitissima di cuoio rosso che ha la splendidezza d’una làmina d’oro trasparita per un granato buono o d’un balausto di pomo granato visto attraverso una lastricina d’ambra.
incomincia Lucrezio senza cetra.
E nelle due facce della legatura, sotto una insegna che porta d’oro due aquile uscenti poste in banda e due croci e tre e tre rose, è l’impresa che il mio dio non tanto concede quanto impone a quel che di me umano può divenire sovrumano: non est mortale quod opto.
Ora nel mio contrappuntizzare mi convien mettere sotto la nota della Chimera la nota dell’Etèra, sotto la tempera del bronzo conflato la tempera del rame monetato, ohimmei, sotto la branca mìtica la palanca bécera.
Quei «tastamenti» rapidi e selvaggi, incitati e secondati dalla norma pedagogica della Introduzione alle Virtù, mi aveano sì acceso che non ebbi più bisogno di ricorrere al comento per rappresentarmi il «venereo foco» del Filocopo e i «venerei veleni» della Fiammetta. E mi ricordo che in un pomeriggio del maggio, all’antivigilia dell’Ascensione, dall’apertura d’un libro non vietato ma forse illegittimamente approvato dal Revisore mi montava al viso una tal «fiammolina di verecondia» che sùbito se n’addiede e si pose ad aocchiarmi furbesco quell’alunno esterno da me soprannominato Sguazzalotro con un gioco misto di pratese medievale e di pescarese borbonico. Nel testo mi si sprofondavano all’improvviso un antro e un mistero illeciti. «Come Enea, andando in caccia, conobbe Dido venereamente in una spelunca.» Se bene le dita della mano destra mi riardessero tuttora e mi rendessero scottante perfino l’asticciuola della penna, ben sapevo di aver conosciuta la Clemàtide chimericamente ma non venereamente. Ohimmei, l’inquietudine m’era così vorace che mi parve aver nell’incavato petto la spelonca stessa di Dido. Sùbito segnai nella pagina il verbo e l’avverbio affocati di cruschevolissimo foco, e per segnale vi misi un biglietto segreto che diceva: Flammis uror consumor absumor pereo! E di sotto ai banchi, con la destrezza complice dei cancheri, feci giungere il libro all’alunno esterno.
Tra noi convittori lo Sguazzalotro, figliuolo d’un ben fornito speziale della Via Ricasoli, aveva fama di sbarazzino matricolato fuor de’ nostri numeri di matricola, anzi «depennato dalla matricola», secondo la consueta a noi minaccia del censore lanzo senza labarda. Parea ritratto alla brava in una terracotta carnicina dal Pollaiuolo, da quel medesimo pollice fiorentino che con tanta sprezzatura trattò la sprezzante sfrontataggine del giovine partigiano in arme cesellata di piastra, ch’è al Bargello. Non portava egli elmetto né usbergo né zazzera né insolenza fissa; ma di lui m’avveniva di pensare che, tra le bilancine e gli alberelli della spezierìa paterna, gli occhi nel guardar la fessura della cassetta pecuniosa gli lucessero come quelle due bocce di vetro corpulente, una gialla di rìcino e una rossa d’alchermes, che dalla mostra della bottega su la strada ci gettavano tra le gambe i riflessi dei lumi ogni sera quando ritornavamo dal passeggio al carcere.
«È deciso dunque, per l’Ascensa» mi soffiò nell’orecchio, giù pel corridoio, terminata la lezione del «calònaco», ritirando nel gorgozzule la saliva e lustreggiando dalla pelle degli zigomi unticcia, con nell’aspetto qualcosa di sconcio che mi levò lo scappellotto dalla mano priva della scuriada infernale. «Venedico se’ tu Caccianimico.»
il ruffianello
L’odore scolaresco della ruffianìa si propagava lungh’esse le tavole orarie pel corridoio frigido. Maliziosissimo era lo stratagemma, bene ordito senza dubbio. Io e un mio compagno della Puglia piana, da me soprannominato Frontino, avevamo licenza di andare alla città del fiore nella feria dell’Ascensione accompagnati dal bidello che doveva consegnarci ai «raccomandatarii» in attesa. Ora il bidello non era se non il Carma, da me mansuefatto e quasi stregato co’ fichi secchi di Vacri, co’ salamini di Guardiagrele, perfin co’ sesamelli ortonesi della mia zia badessa. Per lasciarsi «infinocchiare come le salsicce», non soltanto ne’ modi della Beca di Luigi Pulci ma anche della Nencia e della Tancia, egli era dispostissimo di chiudere tutt’e due gli occhi sul fautore della sua ghiottornìa federalista, magari a rischio di cader sotto il treno della licenza strasordinaria. Lo Sguazzalotro poi, con una successione bene ordinata di marachelle farmaceutiche, dovea condurmi non so in qual chiassuolo di mal nome a sacrificare la mia pubertà senza lanugine sopra l’ara di Venere pandemia!
Cominciavo ad aver sete, non in simbolo. Avevo di continuo sete, peggio che sul Ponte alle Grazie! Mi pareva d’aver sotto le palpebre la pelle calda della Clemàtide; e non cessavo di batterle per non vederla, non cessavo di fregarmele per non sentirla. La mia inquietudine e irrequietudine, certe mie arie più demonìache del consueto, certe mie pose sbracate, e i miei sussulti folli, le mie risa acerbe, le mie disobbedienze impertinenti davano già ai miei pedagoghi fastidio e sospetto.
«Ma che ha? ma che ha?» borbottava il censore osservandomi. «Ho capito. Cice, docciatelo.»
Impertinente e dotto io ribattevo: «Meglio Circe.»
All’infermiere e carceriere Cicecirce era così ricordata la prescrizione anafrodisiaca e rettoricale del Rettore Flaminio del Seppia piceno bizzarro e arcigno come lo stròlago Cecco, intentissimo di continuo a levarsi dal naso le mosche che sembravan saltargli di continuo dal ciuffo di pelo lasciato crescere sotto al labbro inferiore non in guisa di mosca ma di moscaio. E credo che anch’io gli fossi una specie di mosca aonia intorno al non febeo naso; poiché gli era stato risoffiato un mio bisticcio irriverente ma pure acuto e ardito nell’accomunare il buono eretico dell’Acerba al buon cattolico dei Promessi sposi, il tizzo dell’Usto ascolano e il ciuffo del Bravo manzoniano, in un di que’ giochi verbali che già prenunziavano la mia maestria somma. C’era un proverbio toscano di allitterazione arguta, che con un sol tócco dipingeva una faccia dura, alludendo al ciuffo de’ bravi o sbricchi o sgherri: «Il ciuffo è nel ceffo.» Io feci, con un trapasso, tanto sottile ed elegante che non potevano coglierlo i cancheri né pregiarlo poteva il paedagogus paedagogorum, io feci: «Il ciuffo è nel cecco.» Con una destrezza di ritrattista giocoliere, io così trasferii quel benedetto e maledetto ciuffo dalla fronte bassa del bravo alla impronta bazza dello stròlago; ché per me Cecco d’Ascoli doveva avere un mento smisurato come quello di Flaminio del Seppia, da disgradarne non soltanto l’esoso Alighieri ma il più imborbonito dei Filippi di Spagna.
i mappamondi e il mazzamauriello
Ora la storietta del docciare è un’altra; e ha fondamento in una calunniazione collegiale di numero dattilico vergiliano, cioè allusiva all’ecloga seconda. S’andava pe’ corridoi per le scale e per le corti un tantino mormoracchiando che io, avendo il calònaco a noi proposto e imposto d’imparare a memoria una delle dieci ecloghe per libera scelta, scelto avessi quella intonata dal Formosum pastor Corydon ardebat Alexim, non senza spavalderia, e che l’avessi recitata nell’aula con indecentissima enfasi. Huc ades, o formose puer.
Il Rettore dal ciuffo nel cecco mi chiamò, per ammonirmi, al suo ufficio ammonitorio e amministrativo. E se ne stava assiso, dietro le sue carte astronomiche, tra due mappamondi, per alcun tempo senza far motto, con una ruminazione che gli moveva la bazza quasi fosse una giogaia ossuta.
Stentavo a frenare una fresca ilarità che, contenuta nella gola, mi risprizzava dagli occhi, dove me la sentivo frescamente come un pianto congelato in brina, mentre mi burchielleggiava nel cervello come una vespa ostinata questo verso matto: «Nominativi fritti, e mappamondi.»
E più mi cresceva la voglia di ridere, imaginando l’ammonizioncella di Ser Flaminio impacciata nel ciuffo del labbro come il topico «pulcin nella stoppa».
Ma egli s’imparnassiva: rugumava l’ecloga del crudele Alessi!
Finalmente imparnassito, fermò il mento e lo cacciò a guisa di bietta nell’impaccio. Dall’impaccio così fesso e imbiettato sorse il sessagesimo nono verso dell’ecloga, ape d’oro convertita in fosco bofonchio.
Ser Flaminio bofonchiò, tra goffo e beffardo, fra tondo e aguzzo: Ah, Corydon, Corydon, quae te dementia cepit!
Mi dolse di non avere anch’io la bietta da imbiettare la mia lepidezza. Come il mentovato mèntore nella pausa rinnovellò il suo gesto consueto di incoronar con le dita il calamaio e di agitarlo alquanto per ismuovere il fondiglio e il pensiero, tutti i lepóri mi corsero su per la gola a vellicarmi; e mi giunsero a mordere la punta della lingua tutti i «testi» chiosati e non chiosati che m’empievano i tanti miei quaderni: dico le «locuzioni» da me volte in facezie.
«Alunno Gabriele dell’Annunzio, tanto sottile e scabro (ché non ci ha sottigliezza, la quale non abbia dello scabroso), ti guardi Iddio dall’essere seppiato!»
II cefalòpodo imparnassito, senza smettere il suo ticchio inchiostroso, osò trascendere al verso settuagesimo, per cui la mia diligenza era ingiustissimamente misconosciuta: Semiputata tibi frondosa vitis in ulmo est.
Ohimmei, più e più mi mordevano la punta della lingua, spiccandosi da’ miei quaderni come da vespai, i «modi di favellare» e le «locuzioni adornanti».
«Riprensioni et avvertimenti enfiar sogliono il ventre del pesce seppia femmina, volgarmente detta pesce calamaio quando è rettoricale.»
Il cefalòpodo continuava ad allungare non senza cautela i suoi tentoni verso me inafferrabile, ma rimaneva pur sempre impacciato nel latino e non s’ardiva schizzare inchiostro o veleno o colla di pesce.
«Ha il Seppia sopra la schena un osso bianco: il quale nella parte di fuori è assai duro, e di dentro tenero, fangoso, e leggiermente ruvido.»
Il Seppia pativa dal mio sguardo di genietto incompreso, come tutti i miei pedagoghi, una specie d’influsso medusèo. Sempre il mio professor calònaco s’impappinava, in ogni diverbio con me. Non altrimenti accadeva al pedagogo de’ pedagoghi. Nella mia imaginazione plastica vedevo la sua testa coronata di tentoni irti e impietriti, e la sua bietta infissa nella cartosa tavola rettoricale come un conio nella corteccia squammosa d’un ceppo.
«Togli il Seppia, aprilo e cavane il nero, e gittalo: poi taglia il Seppia minuto, e frigilo in oglio co’ le spezie.»
Imparnassito e impietrito il Seppia pareva non poter più ritrovare il suo sermone aulico; ma il latino dell’ecloga tutto miele di cìtiso e di timo passandogli tra nappa e bazza prendeva dalla Marca quel po’ di grosso e di fortigno che non s’ebbe da Mantova.
Novamente si gonfiò e sgonfiò: Quin tu aliquid saltem potius, quorum indiget usus Viminibus mollique paras detexere iunco?
Ma le dita intorno al calamaio, forse eccitate dal numero dell’esametro e per sùbito estro balzanti nell’atto di scandire, non solo riagitarono il fondiglio. Versarono l’inchiostro sul mollique, e s’imbrattarono! E il pedante dal ciuffo nel cecco bestemmiò Ercole in latino eretico, dandomi imagine dello stròlago che dal sommo della cattedrale d’Ascoli riscagliasse una pietra divelta dalle fondamenta del tempio pagano: Proh Hercules! Hercle!
Una polla cristallina scoppiò allora nell’antro monitorio. Era il mio riso non più contenuto; era lo scroscio della mia più limpida ilarità, tanto simile a un getto d’acqua, tanto simile allo schizzo d’uno zampillo vivo, che forse per un attimo il pedante credette di potervi metter le dita lorde per lavarsele.
Fui premuroso e grazioso. Offersi persin la mia pezzuola segnata del mio numero di matricola! Posi il lino, laeve linum, al margine della polla dove la mia lepidezza luceva come i sassolini de’ miei denti schietti.
Il Seppia ora sembrava del tutto innocuo, tra i due mappamondi, quasi fosse per fuggire dopo aver sputato il suo inchiostro rancido. E il verso matto mi burchielleggiava tuttavia nel cervello aeroso: «Nominativi fritti, e mappamondi.»
Un mazzamauriello grammatico sgrammaticato di terra d’Abruzzi mi cominciò a friggere e rifriggere nel cranio per ordine e per disordine tutti i casi latini.
«Genitivi rifritti, e mappamondi.»
Mi ripercoteva nella testa a beffa l’accento mio selvatico di quella prima volta che fui chiamato a declinare rosa rosae. E il caso del chiamare?
«Vocativi rifritti, e mappamondi.»
«Accusativi fritti, e mappamondi.»
Non potevo proprio raggiungere il mazzamauriello pe’ giri e pe’ rigiri della mia caparbiaggine e della mia ricciutezza. Chi sa da qual nascondiglio della mia carbonaia pescarese piena di tarantole, e di camaleonti neri per forza, erasi fuggito per venire ad aizzarmi e a sganasciarmi!
«Genitivi e dativi, e mappamondi.»
Troppo ei s’era ringrammatichito, come avrebbe detto un villan linguardo della montagna pistoiese. E riescivo finalmente a sapere chi m’avesse rubata dalla mia scansìa la grammatica detta «voragine di Curzio» ovvero «Curzio nella voragine».
«Ablativo assoluto, e mappamondi.»
Ecco che lo smilzo burliero paesano m’avea chiuso tra due virgole, come il Seppia s’abbiosciava tra due spere solide. Io virgolato! Ma ero nimico delle virgole come la Cicogna invisa colubris è nimica delle serpi; e l’avevo pur dichiarato al calònaco Bambini gran virgolatore adducendo che il Petrarca non mai puntò né virgolò il suo Canzoniere per lasciar la «minuta faccenda» ai grammatici sfaccendati. «Ascolta, ascolta, arrectis auribus accipe» m’avea risposto il prete di Prato scartabellando il suo repertorio con l’indice intinto nella sua saliva superflua mentre il naso beccava e ribeccava nello scartafaccio come il becco ottuso dell’oca nel becchime. «Segni del piccolo punto, il quale, perché non sembrasse il massimo, cioè punto fermo, con una traversa linea, quasi stecco tenuto da magistral mano, presero i Grammatici a additare; la qual linea fu perciò chiamata virgola, o vogliam dire piccola verga, dimostrante il minor punto.» Tra arsi e tesi della nasal lettura io non avevo potuto tenermi dallo squittire, essendomi impadronito sùbito dello stecco. «Ah, non piccola verga mi ci vuole per te, alunno Gabriele dell’Annunzio, ma grande e nodosa a vergarti, piuttosto quernus baculus o meglio trabalis clava, affinché tu rinsavisca se rinsavir può chi di marzo nacque sotto il segno dell’ariete petulante.»
Or anche gli altri cancheri non avean potuto tenersi dallo squittire ma nel nascondiglio delle due palme a imbuto, come fanno i bifolchi del mio contado quando han da sputare in conspetto del signore. Io m’ero quasi genuflesso, con le braccia conserte, nello stil cicognino gesuiticamente giaculando: Virga tua et baculus tuus, virga directionis, baculus praecepti. E poi, senza consultare il mio repertorio, ma ricercando tra le mie vene cerulee la vena verde del tratturo d’Abruzzi fluente di greggi pellegrine, avevo contradetto non senza uno spunto di volgare bernesco dopo il latin salmistico: «Padre a me più che agli altri reverendo, anzi reverendissimo, sperare oso indulgenza se dico che il mio ribrezzo delle virgole spesse ha in me una origine pastorale ed è perciò protetto dal vincastro flessibile di Vergilio. Formosi pecoris custos, formosior ipse. Non so in quale stima il clero toscano abbia il cacio bacato. In terra d’Abruzzi i beoni anco chierici sono perdutamente ghiotti d’un certo cacio vermicoloso, denso di certi vermicciuoli bianchissimi che paion di latte e che stanno così intrecciati e ammatassati l’uno con l’altro da rappresentarmi in viva imagine, a me studioso di storia romana, la pelle malata di Silla in Puteoli. È un caseolus vetus che quanto più invecchia più baca. I ghiotti anco ecclesiastici in terra d’Abruzzi non lo pregiano e gustano se non quando sul vassoio “cammina da sé” come il bimbo svezzato dalla poppa. Di fatti, in tempo di svinatura, stando con mio padre in villa rura paterna bobus non exercens, vidi con tanto orrore camminare il cacio sopra il piatto rustico che strillando me la diedi a gambe giù per una rèdola erbata di podere in podere e, giunto a un frutteto, non ebbi cuore di traversarlo per orrore fantastico di quel vermicolìo appreso anche ai frutti, appreso omai anche a me come a un Ingenuo sillano. Non m’inseguiva l’ambulante cacio? Fervet et ambulat caseolus marcidus. Tuttavia m’insegue, Padre, a me più che agli altri reverendo, tuttavia mi perséguita; e mi dà questo ribrezzo delle virgole. Le virgole sono i bachi del costrutto. O precettore, è questo il mio precetto; e savio precetto è, forse. Costrutto molto virgolato è costrutto molto bacato. Alle troppe virgole si riconosce che la locuzione è marcescente. Ma, mentre il cacio marcido cammina, lo stile fracido sta: putret et torpet. In onta alla virgola io sfido la verga. Eccomi pronto a esser vergato e poi seppiato. Dixi.»
Il mazzamauriello, leggiucchiando il discorsetto ristampato nella mia memoria degno di virtuosissimo rètore, fu commosso dalla menzione del cacio paesano; e mi tolse le due virgole.
Rideva, rideva in dialetto. E de’ suoi scrosci dialettali faceva contrappunto a’ miei, guatando il Seppia.
«Lascia che schizzi inchiostro e poi si mondi. Casi fritti e rifritti, e mappamondi.»
la concione contro la polpetta
Il pedagogo de’ pedagoghi era tuttora intento a nettarsi le dita con la gentil spugnettina che per solito gli risparmiava la saliva utile ad attaccar francobolli su i rapporti bimestrali, su i certificati di studii, su gli attestati di vaccinazione.
Con prontissima audacia m’impadronii dell’ammonizioncella informe, e la rimanipolai in polpetta. Era proprio il caso di riburchielleggiare: «E dell’ammonitor feci polpetta.» Già intoscanito fino alle midolle, sapevo che in Toscana una sgridata forte, un gran rabbuffo, si chiamava polpetta e polpettone. Ridevo senza paura pensando che il paedagogus paedagogorum avea voluto dare a me una polpetta, e che ora io gliela mettevo calda tra nappa e bazza.
Già più volte nel refettorio io avevo capitanato ammutinamenti clamorosi, con nacchere di scodelle e pifferi di caraffe, contro la triplice e anco la quadruplice portata settimanale delle polpette a mensa. Dall’alto del vecchio pergamo gesuitico io avevo più volte sentenziato con la mia voce catilinaria: «Pedìa di Ghiro, pedagogherìa di Papiro e di Raggiro, sul portale del convitto è scolpita l’impresa generalizia della Cicogna colubris invisa. E noi la vediamo ogni giorno, tra vespro e compieta, tra esercizio e dieta, rientrando in fila sotto l’androne della nostra condanna. E nella vostra ignoranza voi pensate che la pia volucris sia nimica delle serpi, al dire di Ser Brunetto, e soltanto nel distruggerle perdutissima! Non nimica delle serpi ma ghiotta. Non le uccide ella se non per ingollarle, e per inzepparne i cicognini, per enfiarne il cicognin “che leva l’ala in voglia di volare e non s’attenta”. Or non siamo noi tutti cicognini? e non siamo nutriti d’avanzi serpentili in forma di polpette bionde? e la polpetta cicognina non è dunque vivanda viperata? In tempi più miti agli umani, polpetta dicevasi comunemente per “quella pallottola di roba mangereccia, postovi fungo di levante o altra sostanza velenosa, per ammazzare i cani”. Ma in questo tempo di scellerata tirannide cattedrante, la polpetta cicognina non è se non una laida manipolazione di carnicci venefici e d’erbe più venefiche ancóra, per distruggerci tutti, cancheri e tangheri, ingegnoni e sgobboni, per far cucinària strage di noi tutti, nel fiore della dottrina e della vita. Vogliam noi dunque morire di tanto ignobile morte? volete voi tutti di ventre perire, fino all’ultimo e all’infimo inscritto nel libro funebre della matricola? Siete voi rassegnati al veneficio che si perpetra a suon di tamburo? Meglio la fame, e fin d’ora. Uditemi. Sto qui chiosando Pedìa di Ghiro imbelle o Pedìa di Ciro prode? Uditemi, non Ghiri ma Ciri e Senofonti. Meglio è torcere il collo a questa Cicogna esiziale, e sbranarla e divorarla con le nostre quasi trecento ganasce. Detestanda esca et inexcusabile crimen. No, non io perirò senza vendetta. Orsù, perituri e imperituri, seguitemi. Vi conduco a vittoria dapàle, e di corona dapàle cingerò i superstiti. Eia age, rumpe moras, mascula soboles, prole della Cicogna contro la Cicogna. Orsù!»
le sette imputazioni
Con lepida arditezza avevo inpreso a trattare la causa, quando con le dita nettate il Seppia trasse da una sua cartella di cartapecora il testo della mia arringa nella copiatura che io medesimo avevo fatta manu militari con la macchinetta del computista Bracalon Mazzònio per distribuirla. «Di quelle condannagioni molte copie se ne sparsono tra gli attoscati.»
Me la mostrò dicendo, tra un subitaneo volo di mosche che dalla bietta gli saltarono al naso: «Callidule puerule, mi pare che la causa qui sia trattata a fondo.»
Senza turbarmi, con elegante sfrontatezza dissi: «Come concione io credo che, voltata in buon latino, meriti d’essere inserita in una narrazione di Crispo Sallustio, o almeno aggiunta alle Orationes excerptae de historiis. Come cómpito scolastico io credo che meriti almeno un dieci con lode. C’è gran fuoco e buon nerbo.»
Soffogato dalla mia petulanza egli mi fece grazia di noverarmi i danni inflitti alle cucine dal susseguito assalto: scodelle tegami pentole in frantumi, paiuoli ammaccati, caldaie sfondate, schidioni spuntati, graticole contorte; e specialmente e rabbiosamente ridotti in scheggiame, come le selci dagli spaccapietre delle strade maestre, i grandi mortai di sasso dove gli sguatteri solevano pestare e ripestare gli avanzugli del manzo lesso e i mozziconi delle serpi rivomitati dai cicognini enfii.
Pur non ero io stato punito con dieci giorni di pane e acqua nella carcere dura sopra il tetto? E mio padre, alla fine del bimestre, non s’era visto appioppare il tristo elenco delle rotture cucinàrie, molto maravigliandosi d’avere per figliuolo primogenito, in vece d’un convittore timorato, un forsennato devastatore? Spinelloccio nella novella avea detto: «Zeppa», con quel che segue. Io, tenendomi dal fare spalluccia, mozzo e fioco dissi: «O Seppia, no’ siamo par pari.» Tra Zeppa e Seppia c’è poco divario. Ma il secondo fece orecchie di mercatante; e improvviso dal callidule passò al formose.
Le imputazioni mosse contro a me fanciullo innocentissimo dalla pedagogherìa cicognina eran sette, come i peccati da capestro.
i. del sulmontino e del venosino
Possedevo, e diligentemente custodivo, e pur anche nascondevo, ohibò, i testi non espurgati della poesia latina, specie quelli oraziani e nasoniani. Con Ovidio anzi affettavo una certa parentela, e quasi consanguinità, per esser nato nella medesima terra irrigua; e mi vantavo, con abondanza peligna, a lui consanguinitate propinquus e nei modi lirici propinqua cognatione coniunctus, e più di lui precoce. E prediligevo i Tristia e i libri Ex Ponto; e, più che dalle sue arti d’amare e di frodare e di sedurre e di lisciarsi il viso, ero attratto dal suo crudo esilio tomitano e dall’angoscia del voluttuoso cuore irto di ricordanze sotto quel gran vento di Scizia che fecondava le cavalle anèle. E nella scuola ero aspro al vizio dei traslatori, quasi arrogandomi un privilegio di interprete legittimo («interprete di corruzione» ansimava il calònaco dalla sua bigoncia). E il privilegio medesimo osavo arrogarmi inverso del Venosino, come più tardi nello Studio romano, dove Occionius noster me lo riconosceva insigne. E non di rado, in onta al prete inquinato dal latino della messa, tenevo cattedra al lume della mia lucerna dotta interpretando in brevità e in lunghezza di sillabe le odi nettaree Ad Chloen, Ad Pyrram, Ad Lyden, Ad Phillidem, Ad Leuconoen. E i nomi delle donne lievi avevo io resi tanto familiari ai miei condiscepoli, che parevan lor saltellare di dito in dito quasi passere dei docci dimesticate. E, per la interpretazione appunto delle odi In anum libidinosam e In anum foedam, esatta e maligna, secondo la metrica e secondo la plastica, andai per alcuni giorni a conversare in ritmo con le passere sul tetto, prigioniero di Cice; e accorrevano esse alle mie miche e alle mie sillabe; e mi pareva di frenarle, e di giugnere il carro venereo, con le due strofe dell’odicina Ad Venerem sottili come due redini di porpora; e le udivo dalla mia inferriata scandire d’embrice in embrice O Venus regina Cnidi…
ii. le tre parche
Nel collegio della Cicogna anche la guardaroba era alta, come la carcere: prossima al tetto, più vicina al cielo e perciò alla libertà. Andare in guardaroba, scappare su in guardaroba era per i discoli una specie di manìa impaziente. Ogni pretesto era buono; e io avevo inventato quello della rivolta faziosa contro la scarsezza o la grossezza o la scurezza del corredo, ogni volta che il cameriere appendeva al capezzale il sacchetto della muta. Il grido di adunata e d’insurrezione era un po’ lungo, in foggia di un distico zoppo: «Il bucato di Monna Oliva, Mette la pulce morta e la leva viva.» La guardaroba era infatti custodita da una trinità di Parche non filatrici ma agucchiatrici, di nome Oliva Nastasia Eufragia, dalla mia fazione e canzone soprannominate la Nencia la Tancia e la Beca. La Nencia era la meno rugosa, e mettiamo che per me corrispondesse a Lachesis che torce il fuso. Ogni volta che irrompevo nello stanzone svolazzando, come un balestruccio per l’abbaino, la Nencia si ribrezzava tutta, poi sorrideva fino ai cerchietti delle orecchie, e infine si ammammolava su la sua seggiola e pareva che con gli occhi molli m’inumidisse per la voglia di sorbirmi intiero. «Rogare longo putidam te saeculo vires quid enervet meas…» Sempre più ammammolandosi la Nencia balbettava: «Com’è bravo il signor Gabriele! La mi parla latinorum, meglio del canonico Bambini, che nollo posso intendere.» E lo scandalo fu questo. Com’ella mi provava addosso certa roba di corredo, cercando di tradurre in volgare pratese, per così dire, il Mutatis mutandis, sotto le sue mani tremule in indomito inguine un emistichio di Orazio io credo s’incarnasse così che la Beca e la Tancia a furia di strida inorridirono tutta la biancheria sciorinata su’ banchi o ripiegata nelle casse; e anche il lino, come a un colpo di vento sopra a un prato, si levò, si rizzò, per ogni strillo si divincolò. La guardaroba, nel tumulto delle tre Parche, mi sembrò vivere di non so che magica vita aracnèa, mentre rasente gli abbaini le rondini rissavano. Atropos lasciò cadere le cesoie, e Clotho la conocchia. Quid tibi vis, mulier nigris dignissima barris? Ma neppure il getto dell’ilarità mi valeva a rinfrescare il nervo litteratissimo. Illitterati num minus nervi rigent? Nel fuggire, parevo un garzonetto escito dal cartone della Battaglia d’Anghiari, co’ panni di gamba in sul braccio. Per mala ventura, giù per le scale m’imbattei nel naso di Cice, che credo fosse imparentato con la Tancia dalla Pulce rediviva! Ammenne.
iii. la bambocciata della ciriegia
Di tutte le porte, dalla Porta pistoiese alla Porta di Santa Trìnita, la preferita dai convittori vani era quella del Mercatale, perché si passava davanti al Palagio pretoriano e davanti al Duomo per le vie della città più frequenti, specie di domenica. Della mia terra d’Abruzzi io avevo freschissimamente serbato nell’anima l’eco delle zampogne natalizie e il miracolo dei ciliegi in fiore e dei ciliegi in frutto, il gran miracolo bicolore, il bianco e il vermiglio, ch’era sempre stato la grande incantagione annuale della mia fanciullezza ignara di Cerasunte e di Lucullo, e della Cicogna e del pedagogo gianfrullo. Avevo serbato in me il barbaglio della festa bianca e della festa vermiglia come un imaginoso Latino reduce con Marco Polo dall’isola di Zipangu. E pensavo che il «Zentilomo de Venesia» avesse appunto scambiato le ciliege isolane per quelle «moltissime perle rosse, grandi e rotonde, bellissime a vedersi, che costano come le bianche».
A me un berretto colmo di marchiane m’era costato una palanca gobba. Là, nel podere murato, e poi più su, verso i poggi del Firenzuola tutti magnificati dalla «prima veste de’ discorsi degli animali», m’era riapparita la felicità quale io la vedevo nella mia infanzia, con le ciliege doppie agli orecchi in guisa di pendenti, sotto la corona dei corimbi candidi, in fiore e in frutto, in frutto e in fiore.
O tirannia irresistibile della mia ebrezza, che al pedagogo baccello non era se non «contagio del malo esempio»! E nessun de’ miei compagni, non il mellone, non il bietolone, non il giuggiolone, non il giracò, rimaneva illibato. Cosicché, di mala esperienza in mala esperienza, ero divenuto omai consapevole del mio potere; sapevo omai di poter trascinare, in qualunque luogo, in qualunque ora, tutta la mia compagnia alle più folli insubordinazioni e alle più speciose allucinazioni. E fin da allora mi cresceva simultaneamente la fede nella forza dell’esempio, come più tardi innanzi a una staccionata o a una maceria della campagna romana, come più tardi innanzi ai clamori sciocchi e alle minacce ignave della impopolarità, come più tardi innanzi a un incendio civico o a un’alluvione villesca. Prima di ripassare il ponte del Bisenzio in vista delle mura, la porta per me non più si chiamava Mercatale ma avea ripreso il nome di Tiezi come al tempo degli otto Priori.
Sotto lo sguardo sospettoso del precettorello sordastro e filosofastro, tutti i cancheri eran già subornati, tutti anzi alla toscana erano imbecherati. E il censore lanzo senza labarda avea torto nel suo bisticcio: «Badate, figliuoli. Non date ascolto all’arcangelo malo; ché ei v’imbéchera e v’imbécera.» In verità, avea torto marcio nel secondo caso; ché io ero assiduo maestro di grazia e di eleganza ai cancheri, non soltanto nella maniera di portare il berretto e d’affibbiare il cinturino. E del resto, s’io fossi stato in lui, più propriamente e vivamente avrei detto: «Non date l’orecchio al pastore d’Abruzzi; ché ei v’inzampogna e v’inzùfola.»
«Siete indecenti, ecco!» aveva strillato la guègua di Altopascio vedendoci tutti con la capigliatura al vento, con in mano i berretti colmi di ciliege duràcine e marchiane, con appiccato agli orecchi le coppiole di balasci e di coralli. «Prima del ponte, sien vuotati i berretti e tolti gli orecchini; ché, altrimenti, dalle risa crolla il pergamo.»
Quel tangherotto mal battezzato nella Pescia s’era ardito di nominare il mio divino pulpito del Cìngolo, dove sempre il mio sogno credea veder su l’ora del tramonto affacciarsi Lucrezia Buti spiccatasi dal convito di Erode!
Straordinario fu l’effetto. Tutte le fantasie più lucide e più lepide traboccarono dal mio cranio come le duràcine dal mio berretto stracolmo; e si misero a balzare e a danzare come i putti di Donatello; e anche que’ genietti, come le mie fantasie, ebbero i lor pendenti di balasci.
«Compagni, avete udito? Per riconsacrare il pergamo vilipeso, e noi faremo una bambocciata stragrande.»
La tirannia operava come se le ciliege fossero magate. Da ottimo scolaro, posi me e i cancheri sotto il patrocinio di Agnolo Firenzuola abate di Vaiano; e presi la maschera di Celso Selvaggio. «Datemi ascolto. Interrompete, per ora, i discorsi degli animali. Bisogna oggi, dinanzi alla città dei cicognini stupefatta, riconsacrare il pergamo, rimemorare il laudatore delle bellezze delle donne e della perfetta bellezza d’una donna, onorare publicamente tutte le belle donne pratesi che incontriamo.»
Invano il bacheco d’Altopascio con le palme concave ampliava di asinesca abbondanza i padiglioni della sua sordaggine; e chiedeva tentennando: «Che dice? che dice? che dice il subbilloso?»
«Commemoro l’abate di Vaiano, l’uccello d’acqua e il gambero; e dimostro perché la bocca delle belle donne pratesi nello aprirla (massime quando si apre senza riso o senza parola) non averia a mostrar più che cinque denti, insino in sei, di quei di sopra.»
«Ma di sotto?» fece una voce di fuori, salace.
Era lo Sguazzalotro in co del ponte, apparito all’improvviso. Certo era là, in agguato di chi sa qual preda, con la faccia audace d’un di que’ fuorusciti pratesi che il ribelle Bernardo Nardi seguirono alla rocca e alla forca. Ecco che la sorte mi mandava in punto l’uomo che mi ci voleva al mio disegno, il battitore da spingere avanti a riconoscere le strade e a radunar donzelle manevoli.
Breve e netto esposi il mio disegno: «Uccelli famelici di Grisciavola, queste belle ciliege ci son cadute dal cielo. Ce le manda il Firenzuola, che è pur sempre monaco vallombrosano se bene sciolto da’ vóti: ne avea pieno il cappuccio della cocolla. Ce le manda perché noi le offriamo, in suo nome e in guisa di monili, alle sue belle donne, per un vóto da lui fatto nel maggio del 1541. Abbiamo qui, in quantità, pendenti e collane e anche girelli per polsi e gomiti. Passiamo il ponte, entriamo in città; e andiamo a far la nostra bambocciata sotto le sonore bambocciate di Donato e sotto il bronzo vedovo di Michelozzo. Non importa che, invece d’esser bambocci ignudi, siamo qui come c’insacca e c’imbacucca Monna Oliva dalla Pulce sempreviva. Non importa. Tu, Sguazzalotro, va innanzi fino al Duomo; e fammi da battitore. Ma prima aizza l’allocco balocco d’Altopascio che se ne vada a chiedere il soccorso di Cice e d’altri sbricchi mentre noi ci ammutiniamo senza intender ragione, da sordi contro sordo. Strillagli nell’orecchio sinistro che ci pianti, se non vuol correre pericolo di doventare un petronciano screziato o pagonazzo sotto le battiture de’ nostri cinturini. Io mi sfibbio. Sfibbiatevi.»
A ottenere un respiro di libertà bamboccia l’ammutinamento a me capo appariva necessario. Tutti omai, in co del ponte, avevamo le facce de’ fuorusciti di Bernardo Nardi nel sopraffare il Podestà. Ma a un tratto mi venne nella durezza del cuore efferato una incrinatura quasi dolce. Mi chinai all’orecchio dello Sguazzalotro, com’egli s’era chino all’orecchio del sordacchione sordido. Mi prese egli la mano e mi soffiò: «Sì, è fuori. L’ho incontrata davanti al Bacchino. Oggi è più morbidotta che mai.»
Perversamente mi spiacque e piacque l’epiteto ficale, come s’ei dicesse brogiotto a un giglio.
M’avea premuta la mia mano, ma la sua sudaticcia me l’aveva insinuata nell’incrinatura del cuore per allargarla. Il sapore del sangue ardente mi si mescolò al gusto afro della vìsciola. Avrei venduto l’anima indocile a Bernardo Nardi e mi sarei promesso all’impiccagione come nel mattin d’aprile del 1470, se in quella sera di maggio del 1877 avessi potuto bere a gorgate e a scosse dalla bocca firenzuolesca di Gorella come dal trabocco del Bacchino. Ma quattro secoli e sett’anni mi tradivano.
Non si chiamava di battesimo Gorella la più gentile delle belle donne pratesi. Però io le davo quel nome a stabilire la sua discendenza diretta da Monsignor Goro Gheri creato di Giuliano de’ Medici e governator di Piacenza.
Vostra piacenza tien più di piacere
d’altra piacente; però mi piacete.
Il figliuolo d’un notaro di Lucca, Andrea Moccindenti, fra tanti gambi di pera ei sol garofano, che avea ereditato chi sa per quali rami o quali rime notariali una certa grazia del tempo di Castruccio, m’era stato rivelatore di questi due versi rinvenuti nel margine d’una vecchissima scrittura autentica e da quel tempo fino a oggi rimasti per me – di là del dolce stil nuovo – l’ingenuo eterno Cànone dell’amore e del messaggio d’amore e della prova d’amore.
Li avevo trascritti e, per man dello Sguazzalotro, li avevo mandati a Gorella con un mazzolino di violette scempie colte carponi nell’erba folle che cresceva intorno alla palestra.
Ora mi divenivano il suono stesso delle mie vene pulsanti, come se dentro mi sonasse da sé un liuto o una vivuola senza tócco di mano o d’archetto.
Sotto i due freschi versi di Bonagiunta avevo scritto una quartina che non sapevo più, veramente, se fosse cavata dalla mia cartella di scolaro o dalla cartagloria d’un giullare di Dio povero e umbro.
Sono incatenato
in una prigione
Il delirio di maggio mi possedeva con tanto subitanea fierezza che per qualche attimo mi credetti perduto. Incominciavo a conoscere alcuna di quelle vertigini dominate che anche oggi fanno di me, a quando a quando, «la quinta ruota del carro solare, la ruota titània senz’asse», come suol dire la terziaria di Romena. Tutte le creature mi chiedevano imperiosamente un atto, che era comandato e non determinato: i miei compagni guardandomi, le pile del ponte guardandomi, le belle mura alzate dal Comune là dov’era «uno bello prato», e la Porta di Tiezi che aveva dietro di sé l’ombra di quell’altra porta invisa. Indicibile era il cielo del tramonto, verdante come se il marmo del Monferrato vi s’intenerisse e impallidisse fino alla soavità del berillo; e tutte le tintorie pratesi in secoli di saggio e di affinamento non eran mai giunte a tingere pannilani e pannilini in «rosa di gruogo» come le gonne di quelle nuvole in bal tondo. Ah, essere il vento lascivo di quelle nuvole! Mi sporgevo a destra, a sinistra, di sopra a’ pignoni di pietra, come se fossi per gettarmi nel Bisenzio. Mi dovevo gettar giù? Poc’acqua per sì forte nuotator marino: una venuzza d’acqua in un greto di ciottoli bianchi e di rena biondiccia, come in un fiume della mitologia canicolare. Allora mi volsi alla Porta di Tiezi con un’ansia che mi faceva il petto più largo di quell’apertura mastra, come se vedessi a un tratto sopraggiungere pel vano Gorella Gheri.
Mi piaceva perché era una pratolina di quelle che il piede della Primavera quattrocentesca non calca ma sorvola. Mi piaceva perché era il vero fiore di Toscana, quasi una ballatetta di Toscana «leggera e piana» disegnata da un giottesco e musicata da Guido Cavalcanti disposto volubilmente a porla terza fra Mandella di Tolosa e Pinella di Bologna. Mi piaceva perché aveva le gambe di lunga eleganza come la Salome di Fra Filippo Lippi, e un viso chiaro come una lampada effigiata, e nel biancore del suo «morbo virgineo» trasparente una bocca tanto carnosa e tanto sanguigna che non si sapeva di dove prendesse tanto sangue in mezzo a quella faccia smorta; e forse era cinabro messo davanti allo specchio solitario dalla mano stanca della Malinconia. Mi piaceva perché era malinconiosa; e mi piaceva imaginare che fosse per avermi troppo aspettato e per tuttavia aspettarmi; e mi piaceva imaginare che con Guido Cavalcanti io le dicessi
avete in voi li fiori e la verdura
e che con la Compiuta di Fiorenza ella mi rispondesse
però non mi rallegra fior né foglia.
O mistero non consumato della pubertà anelante e furiante, che per la prima volta mi diede in confuso l’imagine della lotta empia e sacra non mai intermessa tra l’arcangelo ch’io sono e il mostro ch’io sono! Sapevo come talvolta mi fosse possibile non sentire il mio corpo, non sentire le mie ossa crepitare intorno alla mia fiamma. E là, su quel vecchio ponte abbandonato dalle fazioni, soffrivo e gioivo nel mio corpo come se le vene i muscoli i tendini le viscere le ossa combattessero tra loro e si dilaniassero tra loro e insorgessero insieme e si tendessero quasi minacciosamente a prendere e tenere la mia anima rapita dalla musica senza suono. Perché il premere de’ miei denti nella polpa del frutto si trasponeva così misteriosamente alla cima del mio cuore? Perché il riso intonato dallo spirito di quella rivolta così lepidamente condotta mi pareva quasi direi sgranellare in me figure ignote che eran simili a memorie dell’avvenire? Perché il mio senso della materia ebro mi faceva più vivi e più vicini e più amati de’ miei compagni i fervidi putti di Donatello discesi dal pergamo a menar il ballo tondo nell’ebrezza de’ miei pensieri?
La mia musica trasportava brani e brandelli di poesia, con un impeto e con una plenitudine che mi sopraffacevano, come se il Bisenzio soverchiasse le pile del ponte in un’alluvione repentina. Mi ricordo: i genietti aveano ripreso una volta tonda del magnifico Lorenzo vecchio e me l’aveano acconciata alla mia glorietta di maggio:
Noi siam tutti i tuoi pensieri
noi siam tutti i tuoi pensieri.
E, come una bambocciata passava oltre, l’altra veniva pazzamente gridando un grido che non era il medìceo: «Gheriglio, Gheriglio!» Me l’avean ripreso dalla gola, me l’avean divelto dal petto. «Gheriglio!» Non era il grido dell’amorosa gualdana sopra Gorella Gheri del Canto alle Tre Gore?
Perfino i tre putti di Michelozzo, men rubesti e risentiti se ben di verde bronzo, aveano abbandonato il capitello della Cintola, due avean lasciato cadere il festone, il terzo se l’era sgattaiolata giù pe’ fregi che lo chiudevano; e s’incatenavano all’altre catene, e rinforzavano il grido. «Gheriglio!» E perfino il pulpito interno, quel gran calice gigliante dove non si sapeva come potesse entrare il calabrone della predica, quella chiara inaccessa tazza dove pareva tacersi accolta la rugiada paradisiaca della musica, perfin l’altro pulpito s’era spoglio; e se ne venivano alla bambocciata i chierichetti del Rossellino abbandonando le Esequie di santo Stefano; e se ne venivano anche i garzoncelli di Mino da Fiesole che avean servito di coppa alla mensa d’Erode; e di Mino accorrevano anche que’ due discesi dalla tribuna co’ loro pifferi; e, per seguire i due pifferatori paffuti, dalla mandorla dell’Assunzione si spiccavano tutti i musici di Giovanni Pisano con salterii liuti vivuole, desiosi di fare insieme una bella stampita all’aria aperta; e dietro il malo esempio anche i due genietti funebri di Simon de’ Bardi nell’arca di Filippo Inghirami lasciavano la cartella dell’elogio; e anche infine dalla balaustrata del presbiterio s’involavano i pargoli serafici distaccando dal marmo le cornucopie col bracciotto libero e spiegando le aliette a guisa di pampani. «Gheriglio! Gheriglio!»
il gheriglio
Era l’amoroso innesto del ciliegio e del noce? La mia poesia fanciulla non si saziava di assaporare Gorella sotto la specie del frutto: delectatio puerilis, o Cicerone! Era già una maniera eccitata e raffinata di giungere per gradi a toccare la nudità coperta. «La noce (o la donna non tradotta ancóra alle bramosie e alle fantasie della mia pubertà erudita e selvaggia?) la noce» mi insegnava il filosofo morale dell’Attavanta «non dà alcun gusto all’uomo, se prima non la smalla e stiaccia, dove arrivato poi al gheriglio che è buono, viene a gustare il suo sapore.» Il gheriglio che è dolce, e si mangia! Ora sorrido d’ironica delizia ripensando che Antonfrancesco Doni e il Serdonati m’avean condotto alla mia tavola di studio e di supplizio il pallore splendente di Gorella Gheri sotto la specie del gheriglio mondo. E, fin da allora curioso di concordanze e di presagi e di segni e di avvisi rischiarati dalla mia natale superstizione d’Abruzzo, avevo tremato di rapimento nel conoscere a mensa da un compagno pisano che il gheriglio a Pisa si chiama goro, e da un compagno di Lamporecchio che in Valdarno il gheriglio si chiama anima.
Certo, la vita per me è una invenzione che di continuo più e più si varia e si spazia. La vita per me è il maravigliato ritrovamento cotidiano d’alcun che, incorruttibile e inimitabile, in mezzo al fluire e al fluttuare delle cose periture e difformi. Ma anche oggi, nella mia maturità possente e onnisciente, non so giungere né per conoscenza né per ardore né per ardire a quella celerissima vicenda di incarnazioni, di animazioni, di congiunzioni, di contaminazioni, di allucinazioni, che pareva quasi nel medesimo attimo trasumanarmi disumanarmi imbestiarmi indiarmi annientarmi rimodellarmi.
Sopra quella fiumana petrosa cavalcata da que’ tre archi, dinanzi a quelle muraglie ferrigne e a quella porta di pietre conce arieggianti nel colore l’ossame affumato, il tumulto di spiriti e di figure entro il mio piccolo corpo superava infinitamente nel numero e nel cerchio il sacco che per ventun giorno avean dato alla città gli Spagnuoli co’ fuorusciti pratesi pistoiesi fiorentini in un sol furore. Se a ognun de’ miei pensieri corrispondeva un genietto vivo in canto e in ballo, le stampite e le ballatette dovean moltiplicarsi e infoltarsi senza misura. Da tutte le cantorie di Toscana, da tutte le lunette robbiesche, da tutti i frontali d’altare, da tutti i lavabi delle sagrestie si spiccavano i genietti con l’ali e senz’ali; e accorrevano.
Noi siam tutti i tuoi pensieri
Quattro n’eran venuti anche dalla sagrestia di San Nicolò da Tolentino; e l’infante in piedi era balzato anch’esso di tra le braccia di Maria traendo seco i due angeli; e così eran sette. E, all’esempio malo, era balzato dalle ginocchia della Madre anche l’infante di Andrea della Robbia nell’Oratorio del Buon Consiglio; e poi anche quello di Benedetto da Maiano nel tabernacolo dell’Ulivo; e poi anche quello di Giovanni Pisano nella cappella della sacra Cintola.
Sembrava che i fuochi dell’occaso rifiammeggiassero eccitati dai mantici tolti a tutti gli organi della diòcesi. Lo sapevo! Sapevo come Francesco cieco de’ Landini – quel nato di quel Iacopo da Casentino dipintore, che fu de’ migliori giotteschi, e fratello dell’avolo di Cristoforo Landino comentatore della Divina Comedia – dovesse o prima o poi entrare nella mia musica e sinfoniar meco. Lo sapevo da quando mi misi a piangere di gloria perché mi fu detto che nel capitolo di San Domenico, volendo rinnovare l’impiantito, il fabbriciere avea scalzato il marmo mortuario di Bernardo Torni medico e nel rivoltarlo aveva scoperto il grande bassorilievo trecentesco con l’effigie di Francesco musico, quel medesimo che per incredibile vicenda di fortune cacciato dalla chiesa medìcea di San Lorenzo era venuto a nascondersi riverso in San Domenico di Prato. Hic lapidem, animam super astra reliquit. Com’era bello che mi fossi messo a piangere d’improvviso e che, anche allora, passando con la compagnia lungo le tombe del fianco, fossi fuggito per entrar nel chiostro e nel capitolo a venerare quel divinissimo cieco che «compose per l’industria della mente sua instrumenti musici da lui mai non veduti»!
Mi ricordo, mi ricordo; e gloriosamente ricordarmi di questo mi piace. E mi piace per una specie di frode apollinea che al ricordo è legata. In quei giorni, dovendo tradurre per cómpito Vergilio, m’avvicinavo a lui con scarso amore. Avevo sotto gli occhi disamorati l’emistichio Auri coecus amore. E, poco innanzi, ero andato a ricercare il non vergiliano latino di Filippo Villani De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus per inebriarmi dell’ebrezza di Francesco cieco. E avevo letto: «Passato gli anni dell’infanzia privato del vedere, cominciando a intendere la miseria della cecità, per poter con qualche sollazzo allegrar l’orrore della perpetua notte, cominciò fanciullescamente a cantare; di poi cresciuto, e già intendendo la dolcezza della melodia, prima con viva voce, di poi con strumenti di corde et organo cominciò a cantare, secondo l’arte; nella quale mirabilmente acquistando, prontissimamente trattava gli instrumenti musici, i quali mai non aveva veduti, come se corporalmente gli vedesse.» E non so perché tanto m’inebriasse il prodigio di quegli istrumenti non mai veduti e pur veduti. E più oltre avevo letto ancóra: «Seguì che, per comune consentimento di tutti e’ musici concedenti la palma di quell’arte, che a Venezia publicamente dall’illustrissimo re di Cipri, come solevano e’ Cesari fare a’ poeti, fu coronato d’alloro.»
O non conoscibile alchìmia della mente e del destino! Avevo da tradurre Auri coecus amore; e, come rapito a un tratto nell’estasi di Francesco degli Organi, avevo tradotto Cieco dell’amor del lauro. E, veramente come nella dolcezza della melodia, come nel fascino interminabile d’una rivelazione melodica, avevo ripetuto in me: Cieco dell’amor del lauro. Come passando da famiglie di strumenti non mai veduti a famiglie di strumenti non mai veduti, avevo modulato ancóra: Cieco dell’amor del lauro.
Nel riveder la mia traduzione per cómpito, il calònaco non avea mancato di deridermi con la consueta sua lepidezza tenuta al macero in un acquaio di sagrestia: «Gabriele dell’Annunzio, che porta un tanto apostrofo nel suo chiaro nome, sdegna di cedere l’apostrofo ad altrui!» E il buon prete sghignapàppole avea corretto Cieco dell’amor dell’auro. E con la sua tabacchiera di corno, dopo aver posata la penna emendatrice, battuto avea su la sua bigoncia un così gran colpo trionfante che n’era isvolato via molto più di tabacco ch’ei non usasse dopo il fiuto soffiar dal dosso della mano. Ma con la polvere n’era uscita anche una macuba morta, che viva io avevo presa lungo una gora fuor di Porta al Serraglio e ch’egli mi aveva tolta a scuola per farne ben mustiato il suo tabacco mentre io mi beavo a eccitarla perché cacciasse l’ala trasparente dalla guaina d’oro verde e poi rigasse l’aula trista col suo volo sonoro traendo seco alla finestra quel che in me era alato. Brevis et damnosa voluntas. «Gioire spera.»
Ora i fuochi dell’occaso rifiammeggiavano eccitati dai mantici tolti a tutti gli organi della diòcesi. Ora i fuochi occidui erano a Francesco strumenti celesti non mai veduti; e ne faceva egli la sua musica e la mia musica non mai udite. Ed appariva egli, come nel tabernacolo gotico, dall’ampia cappa avvolto, dal cappuccio e dal mazzocchio in testa, tenendo con la sinistra il suono da tasto formato di canne decrescenti e disposte in tre ordini. E, com’egli toccava la tastiera o nelle pause faceva atto di levar la destra mano, tutte le nubi rosee di maggio si disponevano anch’elle in tre ordini davanti a lui. E tutti gli organi e tutti i cori sinfoniavano su’ due disegni melodici indefinitamente variati. Procedeva dall’orizzonte, ritornava all’orizzonte, inalzandosi, abbassandosi, crescendo, diminuendo, la fuga in arsi e tesi: Cieco dell’amor del lauro. Ed era fuga d’inganno, ché la risposta pareva svincolarsi dalla proposta e svolgersi diversa in libertà: Gioire spera.
Veniva da lontano, vaniva nel lontano, dal fondo della mia natività al fondo della mia morte: Cieco dell’amor del lauro.
Veniva da lontano, vaniva nel lontano, dalla vicenda torbida del mio marzo alla sommità raggiante del mio solstizio: Gioire spera.
Ah, non iscoprivo all’improvviso la mia faccia, come nello specchio di Certomondo! Il Bisenzio magro non m’era Archian rubesto come a Buonconte, per travolgermi a un qualche fiero destino. Ma sentivo la mia faccia come una fiamma accesa contro vento: l’osso forato del teschio in una vampa d’ansia. E ora non avevo se non l’ansia d’impadronirmi de’ più bei balasci, pe’ monili della mia offerta, con l’animo di quel re del Badascian di Marco Polo, che non lasciava cavar balasci ad altri sotto pena di morte e di confisca. Ne’ berretti e negli orecchi de’ miei sudditi grulli mi diedi a confiscare il meglio, con un occhio acuto di orafo e di tiranno. «Questa a me, questa a me, questa a me.» Sceglievo le più dure delle duràcine e le più grosse delle marchiane e le più scure delle vìsciole. E volevo trovare la ciriegia sublime che mi figurasse la bocca di Gorella, per un mio disegno fanciullesco e perverso. E a un mio condiscepolo d’Armenia, che diceva chiamarsi geras in lingua armena la ciriegia, gridavo folle: «Ripeti, ripeti.» E credo ch’io avessi nel sangue non misurate tutte le laudi dei poeti di Persia allo splendore de’ balasci di Sighinan. E smaniavo di chiamare la bella Gheri del Canto alle Tre Gore col nome persiano del frutto roggio: «Balci! O Balci!»
E sùbito davo la battuta a tutte quelle bambocciate sinfonianti di Mino e del Rossellino, de’ Pisani e de’ Robbia, di Michelozzo e di Donatello. La noce era vinta dalla ciriegia. Non più: «Gheriglio!» Di catena in catena, di stampita in ballatetta, di giga in furlanetta, tutta l’infanzia sfuggita alla ferocia di Erode in Duomo ora faceva grido: «O Balci! O Balci!» E io meditavo di stroncar l’asta d’una delle tre consonanti per reverenza alle due prime dell’alfabeto.
che parte alcuna in bella donna baci,
che baciatrice sia,
se non la bocca.
Ecco che ora il pastore d’Abruzzi inzampognava e inzufolava gli Incerasati con l’avena del Pastor fido, abbandonando l’abate di Vaiano! E rimescolava i versetti del Cantico de’ Cantici co’ rauchi aneliti di Fra Jacopone!
E in coro le bambocciate seguivano, e non si peritavano di far licenziosa melodia con san Girolamo e col Tasso messi insieme da Armida nella Gerusalemme di Macometto. «Ruinare ne’ baci, ruinare ne’ baci comanda san Girolamo, o strillozzi. Ma libare, ma libare i baci comanda il gran Torquato, o ghirlingò.»
I miei quaderni di sgobbone squadernati svolavano ai soffii della follia pubescente. La mia diligenza di sgobbone parea perdersi nelle foglie lievi come la sentenzia di Sibilla. Alla mia tavola di studio, dove avevo nascosto l’òmero del pio pellicano, nel lungo sgobbo m’ero condotto a credere di somigliare la verginella Genovieffa tra due ceri, stutando l’angelo del Diavolo il cero di sinistra e l’angelo di Dio rallumando quel di destra alternamente. Or v’era tra spegnitore e accenditore non so che pazzo imbroglio.
Avevo finalmente trovata nel berretto d’un canchero di Montelupo la ciriegia più polputa e più rossa. Chiudevo le palpebre sopra la mia demenza di maggio, e gheriglio e ciriegia mi creavano Balci.
Un foglio del mio quaderno squadernato mi passò a volo rasente con una increspatura di cachinno. «E di questa siffatta morte, detta da’ sapientissimi cabalisti Morte di bacio, morì Abraam, Isac, Moisè, et alcun altro.» Alcun altro! Alcun altro!
Prato di Fra Filippo e di Filippino, Prato di Ser Lapo e di Convenevole, Prato di Agnolo e di Bernardo parea che tutto si costellasse come quel prato costellato ove Maria gittò la sua Cintola a Tommè per indurlo a non voler più essere incredulo ma fedele. E il dito della incredulità di Tommè mi rammentava la Clemàtide presso la Chimera del Museo etrusco!
se non vede quel che v’è.
Lo Sguazzalotro attraversava il Mercatale ansando verso la porta. «Ma che vo’ fate, cavoli? Venite via, affeddedina! È tempo. E’ si speda il bacheco, e’ si sgamba col su’ ìccase verso la porca Cicogna. Certo, fra poco, e’ viene il soccorso di Cice, che almen fosse quel di Pisa, deddina. Avanti avanti.»
Ciascuno si assicurò la sua munizione di ciriege e si serrò in ischiera di tre canti verso il Canto a Mercatale. «Banda degli Incerasati, tre modi di guerra io so: l’oste la gualdana e la cavalcata. Oggi vi conduco a gioco di gualdana. Seguitemi. Alea iacta est, ac cerasum iactum est.»
Il Cardona al sacco doveva essere men fiero di me. Traversammo il Mercatale in un baleno purpureo. Divorammo l’ombra della strada che sapeva di cuoio in concia. Avevamo l’aria d’essere scappati dall’ospedale de’ pazzerelli; e io, ecco, il «pazzo a bandiera» in capo a tutti. Ve n’eran degli sbiancati e ve n’eran degli arrubinati; ve n’erano di buona lena e ve n’erano di fiato grosso. Credo ch’io sentissi la pietra il mattone l’intonaco le mura delle case gli usci le botteghe il lastrico sotto la specie dell’incantamento d’amore. Quando sboccammo nella Piazza del Duomo, là sul colmo, rasentando il fianco meridionale e le sue porte sentii la vecchia pietra albarese dorata da tanti tramonti ringiovanirsi in non so che calda doratura della mia anima. E sentii il marmo verde della Porticciuola e il bronzo verde di Michelozzo come due sapori in una sola delizia. E veramente, pur dopo la grande stampita di tanti putti, pur dopo aver lasciato tante volte gli occhi sotto la tettoia tonda, il pergamo della Cintola mi maravigliò come un novo miracolo d’arditezza e di gentilezza maschia, come un prodigio del cielo fatto da non so quali api artefici in un miele ispessito.
Noi siam tutti i tuoi pensieri
Il susurro della gente, gli scrosci di risa, i motti crudi, gli strilli di stupore o di pudore, le voci sparse de’ miei compagni di gualdana mi giungevano come di lungi in confuso. Al mio orecchio al mio cuore alla mia vita non giunse vivo se non l’annunzio mormorato dallo Sguazzalotro: «Eccola.»
Fu nella luce del pergamo, fu nel favore di Donatello, fu nel fremito delle campane giù dalla torre a strie verdi e bianche, nel rombo ricco del bronzo intonato col capitello di getto. E come oggi posso rivivere quel che fu tanto misteriosamente vissuto? E come posso rappresentare in parole a me stesso quella sete di vivere mistica e ferina che simigliava la sete di morire?
Gorella Gheri veniva accompagnata da un’altra donna: vestita di primavera, mi ricordo, in una veste chiara picchiettata di fulvo, così che nella mia prima vertigine i punti mi parvero scintille d’oro sprizzate da’ miei occhi baluginanti.
«Balci! Balci! Balci!» La sua bocca era là. E il suo pallore s’accendeva della sua bocca. S’era fatta di bragia. E di dove le saliva tutto quel sangue? «Balci!» Smarritamente le davo il nome di sogno, il nome di canzone, il nome di lungi che dissimulava la cosa del desiderio vorace. E con una leggerezza indicibile, come se il mio corpo fosse divenuto aeroso, come se a un tratto avesse assunto la qualità di quell’òmero del pellicano, io le misi agli orecchi i balasci, intorno al collo i balasci, intorno ai polsi e intorno ai gomiti e intorno ai mallèoli i balasci del Firenzuola. E la mia inebriata levità negli atti sentiva le ciocche de’ capelli, sentiva le vene cerulee del collo, sentiva i rilievi dei capézzoli, sentiva di sopra a’ ginocchi i cintolini delle calze, e l’eleganza lunga de’ fùsoli, e la cesellata squisitezza de’ mallèoli, le noci de’ mallèoli. «Gheriglio! Gheriglio!»
L’altra donna rideva a scrosci; e mi pareva udire ripercotersi intorno le risa. E Gorella smarritamente alenava: «Che fa? che fa? È pazzo?» Smarritamente alenavo: «Son pazzo.» Ella diceva: «Ma che vuole? ma che vuole?» Io tenevo la mia pazzia ancóra in freno; ancor frenavo l’atto di Tristano; vincevo la tentazione di prenderla «per lo mento». E alfine le porsi la ciriegia più bella e più rossa, quella della mia ricerca imperiosa e voluttuosa in co del ponte di Bisenzio. M’ardii alfine accostarle alle labbra il frutto gemello della sua voluttà imporporata nel suo pallore. E la supplicai: «La morda! Ne morda un poco! Ne morda un pochettino! Balci! Balci!»
Che accadeva? Vivevo? Morivo? M’era nel capo quel sibilìo atroce? m’era dentro il capo quello sghignazzamento bestiale?
Aveva dunque ragione il calderon d’Altopascio nel presagire il crollo del pergamo esilarato.
Ma egli era là! Non prendevo abbaglio. Anche Cice era là! Era arrivato in piazza il soccorso di Cice e di Pisa. Mi ritrovavo fra i due sbricchi, come se fossi il ladro de’ belli arredi, come se avessi rubato il Cìngolo che io sacrilego avevo già tentato di rubare nell’anno di grazia 1311. Per tutta la piazza, ove infierivano sguinzagliati altri cagnotti bidelli, era un grande brusìo, un grande ciangottìo, un gran ronzìo, non di passere su la tettoia tonda, non di pecchie nel pergamo di miele adeso. Tutta la città del Cìngolo salvo e salvatore comentava l’omaggio fanciullesco e firenzuolesco alle «belle donne pratesi»; che doveva rimaner memorabile nella Cronica del Bacchino, sotto il nome di «Bambocciata della Ciriegia».
Ridivenni lontano e solo, non istudiandomi se non di dominare il mio tumulto e di riadattarmi sul sensibile viso la maschera del freddo beffatore cruscante. Se bene affiancato dai due goffi sbricchi, alla soglia della carcere mi soffermai così brusco che i due temettero io m’impuntassi. Mi volsi lepido a salutare l’abate di Vaiano che s’era compiaciuto d’accompagnarmi, come nel suo Asino d’oro, «a quella venerabil porta».
Di là dalla soglia, di là dall’androne, fui condotto e introdotto senza indugio nella rettorìa, al cospetto del Seppia per essere seppiato.
Avevo tuttora in mano la ciriegia peccaminosa col segno dei denti di Gorella Gheri. Ero tranquillo, non senza alterigia; pur sempre inafferrabile se bene afferrato.
Il paedagogus paedagogorum mi squadrò, di dentro al nuvolo delle mosche del suo moscaio smosso tra bazza e nappa. Mi vide in mano la gran ciriegia: e, quasi taurinamente offeso da quel vermiglio sanguigno dove le sue mosche nasali non potean posarsi, rugumò alcun tempo la sua indignazione, prima di riescire a far motto.
Guardandolo fiso co’ miei grandi occhi chiari, modulando esattamente la mia voce nel più rispettoso tono scolastico, io dissi: «È un balascio di due once, signor Rettore; che fu bottone del brachiero di Macometto.»
iv. la penna dell’agnolo gabriello
Al Corso de’ Tintori, poco lontano dalla casa del consorto granducale che usava ospitarmi in giorni di vacanza, e proprio nella casa che verso Arno ha il tabernacoletto col cartiglio Sine macula, ove Nicolò Tommaseo aveva dimorato quattordici anni e s’era spento nel calendimaggio del 1874, proprio là abitava un altro consorto addetto alla segreteria del Comune di Palazzo Vecchio e deditissimo agli studii filologici per una elezione quasi corporale alla pedanteria linguaiuola e per una occulta aspirazione di ottenere e tenere un ufizio magari di prima stacciatura nell’Academia della Crusca. Spesso era egli in visita, con la sua diletta e venerata moglie, dalla Clemàtide; e là c’eravamo incontrati in una vigilia del santo Natale; e là, da buon toscanello novizio, m’ero sùbito messo a parlare in Crusca, et egli sùbito m’avea ricevuto nella sua grazia. E, come i coniuges boni s’erano accomiatati e tutti i convenevoli eran finiti, io m’ero messo a contraffare messer Prosone gesticolando e favellando con tanto faceto acume che la Clemàtide nell’eccesso dell’ilarità quasi spasimosa era caduta sul tappeto lunga distesa e nel divincolarsi m’avea mostrato le sue belle gambe un pochettino più in su dei legàccioli e m’avea così mozzato la favella e il gesto ma s’era lasciata un pochettino abburattare.
Un certo genere di lepidezza cruschevole, un certo genere di sottilissima ironia ammanierata, un certo genere di comico ricercato nel sottintendere a una locuzione arcaica un senso novissimo io cominciai a ritrovarli a studiarli e a compiacermene da quella vigilia; e questa maniera elegantissimamente fiorentina di beffare il prossimo e me stesso io fin da quella vigilia chiamai prosare.
Ma mi diedi a prosare messer Prosone con tanto cauta scaltrezza che, non mai accorgendosi egli d’essere uccellato, sempre più serviziato m’accolse nella sua grazia. E credo ch’io debbo a quel buon cruscaio recluso in Palazzo Vecchio il buon cominciamento della mia maestria. «Figliuolo, bisogna scrivere ogni sempre con la Crusca alla mano» fu la sentenza che coronò il suo commiato e me, nella vigilia memoranda. E io gli chiesi candido: «Non sarìa meglio con la Farina? L’Academia non ha ella nome dal continuo cernere che ella fa col suo frullone la farina dalla crusca? E come mai dunque ha ella nome dalla Crusca e non dalla Farina? Il più bel fior ne coglie. Io vorrò scrivere sempre col fiore in mano.» Egli mi guardò per sùbita tenerezza quasi ammammolato, poi guardò la diletta moglie ch’era «di pelo rosso e accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti», come la donna perugina di Pietro da Vinciolo nella novella di Dioneo. E a me collegialetto molto ammalizzito sembrò egli avesse nell’occhio citrino alcun che di quella vecchia «che pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi» quando la rossa le susurrava che ella sapesse quello che avesse a fare se veduto le venisse un piacevole garzoncello. Dal congiuntivo sguardo io mi credetti messo a zinnare nelle braccia della moglie. «Col fiore in mano!» ripeteva rapito. «Col fiore in mano! Ma già non se’ tu l’agnolo Gabriello?»
Io giubilavo. Quasi con le ravvivate pupille di Galileo Galilei, vedevo in me «il pedantino tutto giubilare». La Pedanteria mi diveniva già la sirocchia grossoccia della mia grazia smilza; e già incominciavo a darmi gran sollazzo nel pizzicarle il fitto staccio deretano e nel tirarla per un lembo del suo gonnellone bruttato di molto inchiostro. «Come squaderni quelle due lanterne!» mi disse messer Prosone, con un’ombra d’inquietudine verso i miei grandi occhi spalancati che non l’abbandonavano.
Pedantescamente l’osservavo l’esaminavo lo studiavo, per contraffarlo. E dico che mi piaceva quel brutto coso, acuendo in me il senso del carattere umano stampato nel corpo e nello spirito dell’uomo così che non si può più perdere e non si può più ispartire né affievolire né obliterare giammai. Il Fagiuoli avrebbe detto che il coso dal fondo alla cima per tutti i lati mostrava il suo rilievo; e io ero proprio nato per doventare un gran maestro di rilievo, un gran fonditore di medaglie da disgradarne il Pisanello in dritto e in rovescio; e io già, nella mia angusta vita di monacello senza cordiglio, m’ingegnavo di condurre la mia propria medaglia a quell’altezza del rilievo ch’io volevo che avesse, ch’io voglio che abbia: a quel «sommo rilievo» che Leonardo, solo in parte come il Saladino e come me, volle dare a sé medesimo e alle cose ch’egli faceva.
Messer Prosone era, in verità, il tipo vivo del pedante rappresentato con quattro buoni tócchi nel Comento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima Ficata del padre Siceo. «Li atti d’un pedante sono: parlando prosar le parole; disputando, alzar le dita; andando, dimenarsi, compiacersi di quel che dice, e, quando gli viene allegata un’autorità di Cantalizio, colleppolarsi d’allegrezza.»
Or, mentre lo guatavo per ristamparlo nella mia propria sostanza plastica e per imitarlo con la mia destrezza mimetica e per disegnarlo con la mia arte icastica, il caso volle che la sua figura maravigliosamente si compiesse nel battesimo.
Era egli stato battezzato con l’acqua che intride la farina per farne pan buffetto? o con l’acqua che intride la crusca per darla a mangiare ai polli?
Com’egli per riappiccare il discorso aveva acchiappato l’olivetta d’un de’ miei alamari, certo col gesto ch’ei doveva avere nel prendere il cassatoio da raschiar lo sgorbio su la carta, la moglie di pelo rosso, certo impaziente d’andare a bere il vermutte in una dotta pasticceria della Via de’ Calzaiuoli, gli fece: «Vieni via, Messerino.»
Si chiamava Messerino! Ecco che di sùbito veniva in perfezione, anzi in altura di perfezion cruschesca! Potevo omai spezzare i miei due punzoni d’acciaio, pel dritto e pel rovescio. Extremam manum operi addo.
Egli aveva da appiccare un’ultima arguzia boccaccevole a quel mio alamaro che nella seguente Pasqua doveva poi da sé appiccarsi all’ugna aguzza della Chimera d’Arezzo.
Mi fece, a bassa voce, in confidenza: «A me me lo puoi confessare, figliuolo. La portasti via tu dalla cassettina di Frate Cipolla la penna dell’agnolo Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazarette.»
«Oh sìe, se Dio m’aiuti, messer Messerino» risposi spegnendo il fiato e abbassando il ciglio. «O sìe. E anco il dito dello Spirito Santo; e il ciuffetto del Serafino che apparve a san Francesco; e una dell’unghie de’ Cherubini; e alquanti raggi della stella che apparve a’ tre Magi; e un’ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavolo; e in un’altra ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone; e infine alquanti de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito.»
Beatissimo appariva messer Messerin Prosone d’essere così ben prosato da un «fiore del ginnasio» che veramente pareva fiorito nella giornata sesta del Decamerone. «Oh non l’avre’ ma’ creduto! Oh non l’avre’ ma’ creduto!» Non si stancava di soffiare e risoffiare la sua maraviglia, mentre la Rossa lo tirava per la manica: «Vieni via, Messerino.» E, da donna di tanto cruscaio, ella aveva il viso cruscoso, come in Toscana si dice delle lentiggini; e certo si bagnava ogni mattina il viso con la rugiada raccolta su le foglie del cavolo, buona a tutte bollicole e cotali altre macchie della faccia. E, non so perché, avido di nuove perfezioni, m’attendevo ch’egli la rabbonisse dicendole: «Vengo, vengo, mia dolce Cavolfiore.»
Messere Messerino e Monna Cavolfiore: perfezione di non fornicario congiugnimento; ché, nel tirarlo per la manica non larga, ella sembrava rosseggiare d’un certo dispetto non dissimile a quel della Perugina contro Pietro da Vinciolo, come se l’uno andasse «in zoccoli per l’asciutto» e l’altra s’ingegnasse di «portare altrui in nave per lo piovoso».
Ma, dopo quel primo incontro academico di buratto e di burattello, in breve facemmo una gran dimestichezza e amistà. E, se l’uno m’era sempre mai pedante, l’altra m’era talvolta menante, ché m’aiutava da copista esperta a raccogliere ne’ miei quaderni le grandi frasi de’ grandi scrittori. «Un mazzo di qualche belle osservazioni di lingua non farebbe male» soleva ammonir piacentemente messer Messerino ponendo fra la Rossa e me alcuno de’ suoi testi prediletti.
Ora, nella scelta, specie di quelli che io dimandavo in prestito, s’andava formando una specie di consorteria fra me e la menante cruscosa. Se tutt’e due, con pazientissimo zelo di amanuensi, ci mettevamo a trascrivere pagine intere del Trattato del governo degli uccelli, per esempio, o del Trattato delle segrete cose delle donne, sopravveniva a tentennare la testa messer Prosone e, col tono del cardinale Sforza Pallavicino, sentenziava: «Come nelle monete, così nelle frasi, egual valore in minor mole dimostra maggior nobiltà di materia. E il tempo mi darà ragione, figliuolo.» Ma su due piedi aveva di là da ragione il pedante, senza punto di dubbio.
Per non poter dunque tutto ricopiare con l’aiuto della menante, potei con la consorteria della menante ricevere in prestito alcuni testi leggeri precisi robusti da portar meco a convivere furtivamente sopra l’òmero del pellicano nella cassetta del tavolino. E sorridendo pensavo d’aver nascosta là, tra libro e osso, in un gran viluppo di zendado fasciata, la penna dell’agnolo Gabriello rapita a Frate Cipolla di santo Antonio.
Or tutta la pedagogherìa cicognina aveva in gran dispetto e sospetto e vituperio la mia nova maniera di prosare. E continuo il Seppia meditava di seppiare i miei malvagi quaderni inchiostrandoli interamente con un getto del suo licore fuligginoso.
«Di che risma» si rizzò un giorno il Ciuffo-nel-cecco a inveire, squassandoli sul banco censorio «di che mai risma son fatti questi quaderni?»
«Non di carta bambagina né di pecorina» risposi con la mia mansueta insolenza cruscante «né di fratina né di velina; ma di leonina, signor Rettore. Da Bartolomeo di Sandro cartolaio ebbi già la ventura di comperar per sette lire quattordici quaderni di fogli reali bolognesi, che dovean servire per il cartone di Michelagnolo.»
v. l’ansia dei ricordi e dei presagi
Anche la mia amistà col pedante del tabernacoletto sine macula m’era divenuta un esercizio d’invenzioni; e la mia amistanza con la Rossa della rugiada cavolaia m’avea maravigliosamente aiutato a comprendere certe particolarità del carattere toscano e certi costumi del ceto mezzano, da non potersi imparare – come scriverebbe il Varchi – «se non da coloro che son nati e allevati da piccoli in Firenze». L’uno e l’altra per fiorentineria abboccata e smaccata superavano le più fiorentinesche delle cose fiorentine: avanzavano, per esempio, il più usato di que’ retrobugigàttoli d’orafo appesi ai pignoni di Ponte Vecchio, o un bassorilievo di bronzo in un piedestallo della Loggia de’ Lanzi lustro per lo strofinio de’ giacchetti di fittaiuoli e castaldi a’ convegni del martedì e del venerdì. Mi sentivo così dall’uno e dall’altra fiorentinizzare assai più che il Davanzati non abbia fiorentinizzato Tacito.
E umanamente e divinamente comprendevo una sentenza dell’Ottimo trascritta nel mio quaderno; che dell’amistà faceva «uno consentimento di cose divine e umane». Quando mai, per l’innanzi, m’era accaduto di fondere in me la parola e la pietra, il linguaggio fluido e il sasso rigido, creandone quasi un minerale nuovo? Quel buon Messerino, liberato della sua manica bigia di scriba comunale, non aveva alcuna consapevolezza dei prodigi da lui compiuti nella mente di quel pastorello d’Abruzzi che portava dentro sé la sua favoletta gloriosa, come Giotto a guardia delle pecore di Bondone. Fra la torre quadrata della Zecca vecchia e il Ponte alle Grazie, talvolta perfin la Rossa m’appariva «sì spiritale» – com’ella avea pur detto della moglie d’Ercolano nella novella di Dioneo – che m’entrava nel cervello a vivere insieme con lo stravagante dipintore «di pelo rosso conforme al nome».
O Ponte alle Grazie, ancor più aggraziato dai colloquii a gomitello, quanto mi piacevi! Non risciacquavo in Arno io né piatti né bucato, ché anzi fin da quel tempo m’erano a noia tutti i risciacquatori di Lombardia goffotti e prosuntuosetti. Ma ben mi ricordavo d’esser nato in una terra ove i trovatori di vene d’acqua sono senza numero; e derivavo dal mio dio fluviale l’arte di ritrovar la vena pura anche nella corrente corrotta dalle cloache. E, stando sopra una pigna vedova dell’eremo pènsile, fattomi anch’io Romito del Ponte come quelle antiche suore, potevo senza contrasto ripensare quel quadro che il Rosso fece a Giovanni Cavalcanti «quando Iacob piglia il bere da quelle donne alla fonte»; ché l’Arno a me era materna fonte e non colatoio da ranno, se bene mi fosser ahi rimote le prata e le faggete della Falterona. E tanto la fiumana e la pietra e il linguaggio, quasi in metro corale, mi rapivano che su la prima pigna della riva destra, là dove gli Alberti avevano un tempo edificata la cappella alla Madonna delle Grazie, imaginavo di murar con volumi lapidarii una cappella alla Gloria della Lingua, dove il servizio divino passasse dall’uno all’altro Guido, dal superatore al seguente superatore; e mi pareva di emulare il sorriso del Davide di Andrea del Verrocchio pensando: E forse è nato chi… Ed ero tanto fervido d’insurrezioni e di competizioni che per sempre affogavo la mia pace lietamente là dove sul greto l’avean giurata i Guelfi e i Ghibellini al conspetto d’un papa d’un imperatore e d’un re creduli. E, fin da quel novel tempo, al Rosso – che avea dipinto quel quadro di Iacob alla fonte per un Cavalcanti del sangue di Guido – allogai per me il quadro di Giacobbe che resta solo e fino all’alba delle albe lotta con l’angelo; perché mi piaceva di ricordarmi, sopra alle sue stravaganze, ch’egli era «bonissimo musico» e anche «ricco d’animo e di grandezza», e che poté spegnere la sua sete di gloria «in ogni grado d’ambizione che possa ’l petto di qualsivoglia artefice occupare».
il cavallino
Mi diceva messer Prosone conducendomi a spasso pel Borgo: «Tu non sa’ dunque perché nel Corso de’ Tintori io ti chiami il cavallino, o Gabriello. Questa via prende il nome dal palio che in antico facean correre i tintori, il giorno di Santo Onofrio, da’ cavalli di lor botteghe, ch’e’ davano a inforcare a certi ragazzi, per ciò soprannominati i cavallini. Era questo il primo grado che que’ ragazzi s’aveano nelle botteghe de’ tintori di lana; e di poi passavan lavoranti; e in fine salivano maestri. Or tu se’ cavallino, o Gabriello, anche per un certo vezzo di lingua che ben ti posso citare dagli Incantesimi di Giovammaria Cecchi. Attento! Un dice, nella commedia: Io fui sempre di natura dedito Molto all’amore. Poniamo che colui abbia anco un bel nome d’agnolo. Pronto un merlo di becco giallo gli canta: Cavallin direbbesi Qua un sì fatto. M’ha’ tu ’nteso?»
Tra Rosso e Rossa, quanto ho io arrossito nel Borgo de’ Tintori!
«Cavallin direbbesi qua un sì fatto» ripeteva il cruscante, fiero della sua citazione, guardandomi di sottecche, fregandosi le mani: «Arrossisci, eh? Nel viso s’arrossì l’angel beato. Andiamo, via: di chi è questo endecasillabo? Ma uscimmo della brace e rientrammo nel fuoco, e’ direbbe Donato Velluti se avesse a fare un po’ di cronica de’ Tintori. Io mi son bene addato d’un fancello… Questo è della Beca di Dicomano. Ma tu m’esci della brace e mi rientri nel fuoco! Se tu se’ cavallino, non son io somarello, né fancello, affé. Cavallin direbbesi Qua un sì fatto.» Persistendo egli nel piacevoleggiare e nel pugnere, una malinconia scontrosa mi fece irto come un riccio delle mie siepi aternine e mi avvolticchiò a gomitolo stretto come quel delle trecce rosse di Monna Cavolfiore quand’ella sul capo faceva la crocchia. Avevo in me l’ansia e l’onta d’amore, e il malcontento e il rimorso d’amore, e quella vuota cupidigia e quella disperata speranza, e quella smania d’infedeltà e di crudeltà nel desiderio costante, e in confuso tutte quelle inquietudini e querele e voglie e doglie, onde già s’andava generando e complicando ed esasperando di fòmiti morbosi il mio mostro interno: variarum monstrum ferarum. Ma sopra tutto mi crucciava quella facea imagine che quasi boccaccevolmente il pedante si facea di me fanciullo torbido e tormentosissimo, sospettandomi già viziato e perduto in lascivire tra Cavolfiore e Clemàtide, non considerando di me se non il piccolo gesto impudente e il piccolo sotterfugio da tavola complice.
Né, vedendomi così aculeato e avvolticchiato, cessava dal prosare. «Come dice, come dice il tuo Firenzuola, cavallino? Tu l’hai a du’ passi dal convitto. Gli è abate di Vaiano, com’essere abate d’Uva nera. Te ne rammenti? Ha un certo lascivetto, e un certo ghiotto…» E tossiva ammiccando, e rifaceva il verso del tacchino mandando su e giù il gran pomo d’Adamo nella corvatta nascondevole.
Eravam giunti alla torre della Zecca vecchia; e sùbito scorsi al davanzale della finestretta alta due vasi di basilico, che parvero discender di lassù per riempirmi del buon odor casalingo il cuor dispettoso. E come l’imagine dell’uva nera di Vaiano m’avea suscitata quella della piccola baccante villereccia che s’era fatta contro me la maschera col grappolo, così i due vasi di basilico m’evocarono le mie dilette della Pescara, Teodolinda Pomàrici di Castrovalve e la Ciccarina, la patrizia e la plebea, la figliuola del capitano borbonico ritinto e la figliuola del mastro muratore calcinoso detta da me per vezzo d’amore Calcinella. O mazzo di basilico minuto! Chi cantava così? La pescaia d’Arno argentata alla foce della Pescara che s’argentava incontro alla maretta? o la trinità di Toscana alla trinità d’Abruzzo? Veramente io ero nato all’amore sotto il triplice vocabolo delle Grazie, e veramente il Ponte alle Grazie m’era omai una specie di valico simbolico per la vita intera. «Fammi ponte! Fammi ponte!» Chi gridava così? «Fammi ponte! Ti salgo su le mani, poi su le spalle; e poi salto sul muro.» Era una voce che si partiva da una frotta di monelli; e ne vidi uno che teneva le mani intrecciate sul corpo perché l’altro vi montasse. E sùbito ebbi voglia di montar io; ma troppo era alta la finestretta de’ due vasi.
In terra di Toscana e in terra d’Abruzzi, ahi sovente, se l’uva doventa agresto, il basilico doventa pruno.
A un tratto, come toccato dalla grazia introversa, temperando l’arguzia del cruscante riso, il moltìloquo mi posò lieve la mano su la spalla e pensò di placarmi col Centiloquio: «Né vo’ che pensi ch’io me ne collèppoli. Oggi tu se’ fantastico e permaloso. La visiera del berretto da convittore ti fa sul viso l’ombra che fa l’elmetto su’ pensieri del duca d’Urbino, alla Sagrestia nuova. Ti lascio co’ tuoi pensieri. I’ son zecchiere di zecca vecchia. E tu zéccali in oro novo. E po’ raggiungimi, fancello.»
Perché, d’impeto, con una mossa pazzesca, gettai il berretto alla frotta de’ monelli che se lo contesero con grande schiamazzo strappandoselo di mano in mano? Il viale de’ platani m’era dinanzi; l’ombra palmata de’ platani mi noverava i pensieri come scandendoli su le cinque dita verdi. Vedevo di là d’Arno, quasi rispecchiati in un rivo che fosse fatto di tutta la mia fluidità pensierosa, la collina clemente, il campanile di cotto, i balaustri del piazzale, gli olivi chiari, i cipressi foschi. Mi sentivo affluire verso la pescaia obliqua, verso la lunga chiusa di sasso, e calare di cateratta in cateratta. Scorreva l’acqua sopra la pietra come un velo d’argento che di continuo vi si trapungesse; e odorava di fresco, quasi recasse l’odore della Falterona solitaria. Affluivo e fluivo in una incantagione melodiosa ch’era del fiume e della mia malinconia. E a poco a poco de’ luoghi mi dimenticavo come del mio nome, guardando la ripa erbosa e arborata che m’appariva intenta nel fluire come la canna e la lenza del pescatore, come la barca e il vaglio del renaiuolo. E mi dimenticavo delle mie due trinità, davanti a un giardino murato in una via deserta folto di acacie e di lecci ove un concerto d’uccelli nascosti m’invitava da parte di una iniziatrice ignota che non volea mostrarsi se non a chi scalasse il muro irto di que’ triboli di ferro che un tempo si seminavano contro la cavalleria nemica. E stavo là a guatare, ad aspettare; e mi veniva a un tratto nel campo dello sguardo il campanile aguzzo di Santa Croce, quasi fosse un verrettone allora allora scagliato da una balestra grossa contro il cielo impallidito.
E il broccato tessuto senza pause tutto d’un pezzo al telaio lapideo della chiusa, il broccato d’argento riccio sopra riccio, non c’era più. Dove mi ritrovavo? nella Piazzetta de’ Cavalleggeri? Chino al parapetto, guatai l’acqua d’Arno, color di fango verdiccio, color d’annegato, quasi stagnante; la fisai con non so che disperazione, come una spoglia di annegato su la tavola di un deposito funerario. E giù c’erano le more di ghiaia, i tumuli di rena, i crivelli rozzi de’ renaiuoli. E là, di fronte, tra due case, uno sfondo di collina tutta nera e astata di cipressi. E, sopra il capo, il rintocco delle campane di Santa Croce che sonavano fioche di sotto a’ coperchi delle tombe.
E poi, in un vagare trasognato, a capo scoperto, mi pareva che mi distruggessi e mi accrescessi nel tempo medesimo. Mi pareva di andare in cerca, fidente e sconfidato nel tempo medesimo, mi pareva di andare in cerca d’uno che mi rassomigliasse pur essendo di me più bello, attraverso apparenze semplici come le favole che nella mia più remota infanzia m’irroravano gli orecchi appena dischiusi quali convòlvoli tra notte e alba incerti. E nel trasognamento, a ogni apparenza, a ogni suono, mi sembrava che qualche lembo della mia vita sempre novo si levasse di sùbito per voler sùbito prendere una sempre nova forma.
E ora, ecco, era sopra una bottega di tintori l’impresa dell’Agnello col vessillo. E ora, ecco, era una grande ombra nella Via Mozza come abbuiata da una sera che non fosse del nostro mondo. E ora, ecco, dal colmo del ponte era l’apparizione mistica di quella collina dell’Incontro che ha in cima il parco murato, era come l’annunzio profetico di quell’Incontro che poi per tanti anni dal mio eremo di Settignano doveva apparirmi compreso nel quadro del mio perdimento e del mio supplizio.
Lo scalpitìo de’ cavalli, lo sbuffare basso nelle poste, il tritare lento e sordo nelle sacchette da biada; e l’odore dei foraggi fuor d’una porta socchiusa di stallatico. «Mio padre è tornato da Chieti, con la diligenza, carico di giocattoli che non mi piaceranno e di libri con troppe figure che m’impediranno d’indovinare quel che non so e d’inventare quel che non c’è?»
Le cànove dei vini toscani, de’ vini nostrali, del Chianti, di Pomino, d’Artimino, di Carmignano, di Montepulciano, infiascati; e il colore della veste di sala nuova o vecchia ne’ fiaschi ordinati come i volumi nelle biblioteche; e il vinaio al finestrino della casa padronale, intento a abboccarli o a sboccarli o a sgocciolarli; e la via quasi fatta erbosa dall’improvviso odore del vino «che ha la mammola»; e l’improvviso saettìo delle rondini rasente il fiasco attaccato sopra la porta della méscita. «Mio padre ha spillato la botte che odora di mammola e quella che odora di fragola? e quest’anno è contento del Montepulciano e del Carmignano ch’egli primo ha naturati ne’ suoi vigneti de’ Colli per intoscanir la sua terra innanzi d’intoscanire il suo primogenito? Ma che è questo grande spavento di rondini? Mamma! Mamma! Rafaele Camplone il fattore con una canna lunga va dirompendo i nidi che hanno incretato tutti i voltoni come una enorme bugnereccia. I nidi cascano in frantumi, gli ovicini di perla si schiacciano, le piumette svolano; le rondini disperate svolazzano, gridano, stridono, si dibattono, si sbattono contro le volte e contro le muraglie, contro le tina e contro le botti, come per uccidersi. Grido con loro, strido con loro. Piango, singhiozzo, impreco, ingiurio. La canna del barbaro mi rompe il petto come rompe i nidi, mi fora la gola, mi trapassa il cuore. Alzo le braccia, mi levo su la punta de’ piedi, per spiccarmi da terra, per metter ali, per soffrire con le ali. Quelle delle rondini mi rasentano, mi ventano, quasi mi accecano. Mamma! Mamma! Stramazzo, digrigno i denti convulso, mi rattraggo, mi contorco, tra i nidi devastati, tra i covàccioli dilaniati, tra i rondinini morti, tra le nidiate morte, nel polviglio della creta secca, nel batuffo della piuma minuta, in tutta quella cosa crudele. Mamma! La mia madre accorre, si china sopra di me, anch’ella grida, anch’ella singhiozza; mi solleva, mi prende nelle sue braccia, mi serra, tenta di comprimere quel singulto che mi spezza il petto e la gola e la mascella e l’anima disperata. Voglio morire! Voglio morire! Non posso più esser consolato. Anche mia madre non può consolarmi. Tutta la vita m’è orrore, tutto l’uomo m’è orrore e onta. Il mio singulto il mio sussulto è tutta la gioia dell’aria, è tutta l’innocenza dell’ala, spasimanti in me, agonizzanti in me. Sono stretto al seno di mia madre, che mi riprenda, che mi nasconda, che non mi faccia più udire, che non mi faccia più vedere, che mi tolga alla condanna di vivere. Per ore ed ore la disperazione mi scrolla, mi squassa, mi sbatte. Viene la sera, scende la notte; e non mi consolo, e non mi acqueto, non mi disserro, non apro le pugna. Sono sul guanciale, vegliato da mia madre, bagnato di lacrime che non s’asciugano mai, con le pugna piene di polvere e di piuma, infermo d’esser nato, vergognoso d’essere figliuol d’uomo.»
Perché tanto acerbo mi ritornava quel cruccio infantile, e quasi un’eco indistinta di quel singulto, mentre me ne andavo errando, mentre mi fingevo d’esser bandito, d’esser senza ricovero, d’essere a piedi scalzi com’ero a capo nudo? Dal Borgo de’ Tintori passavo al Borgo di Santa Croce angusto e scuro tra le alte case; e mi ritrovavo di fronte al Chiostro di Arnolfo, poi mi ritrovavo tra cespugli di rose che si sfogliavano su l’erba arsiccia. Dinanzi alle mura del tempio cotte dal sole mi sentivo commesso e serrato ne’ piombi come le figure delle vecchie vetrate che di fuori parean lastre di ardesia consunte. E dinanzi alle piante di agrumi, che giravano intorno con le lapidi mortuarie a paro a paro, sentivo il mio scheletro fruttificare in un de’ fusti ramosi, ripensando un proverbio fiorentino e prolungandolo: La quercia non fa limoni ma la morte li fa.
E perché tanto m’era amica la pietra serena, fin da quel tempo novello, tanti tanti anni innanzi ch’io ne facessi gli stipiti e gli architravi delle mie porte, cilestra nell’aria come se s’impregnasse di aria? Era la pietra serena della prima sorte, come dice la martellina del tagliapietra di Fiesole, e oggi è la pietra serena d’altra sorte, come dice il martello del tagliapietra di Settignano.
I cherubini del fregio, forse di Desiderio, forse di Donatello, non mi facean dimenticare i genietti del mio pergamo. Il verde l’azzurro il giallo il bianco di Luca mi rapivano in un cielo lavato dalla burrasca del mio marzo, come se la terra invetriata assumesse i colori netti e splendidi dell’arcobaleno. E i due delfini de’ Pazzi balenavano seguendo con l’arco della schiena il mio nuoto nel mio mare color della speranza. E de’ dodici apostoli di Luca quello dal manto verde si faceva solitario in una edicola del mio litorale o in un tabernacolo a poppa del mio trabàccolo adriatico: Marco barbato che scrive nel libro tenuto aperto dal Leone sul suo leggìo terribile di branche e di vanni.
Il rombo delle campane mi trasportava altrove nella musica e nel soffio; mi pigliava di su l’erba morente e di su le rose disfatte, mi sollevava, mi trasportava altrove. Avevo sete, morivo di sete. Là nel canto c’era il Caffè delle Colonnine, con la sua tettoia sopra le due colonne; e non potei fermarmi, non mi volli fermare. Vidi accesa la lanterna dinanzi a Nostra Donna, sotto la Volta de’ Tintori. Non avevo mai sentito tanto silenzio nelle facce delle case. Erano forme di silenzio e d’attesa. I miei piedi avanzando non facevano il più lieve scalpiccìo: veramente erano scalzi come il mio capo era scoperto. Camminavo in non so che via segreta del mio destino. Sine macula.
Avrei voluto incontrare l’ombra di Nicolò Tommaseo, e accompagnarmi con quel vecchio cieco scarno che sempre m’era piaciuto pe’ suoi crucci ond’era aspro perfino il suo lèssico. Ma temevo d’esser soprappreso dal cruscante. Mi feci basso rilievo contro l’angolo, verso Arno. Esitavo, in una bramosia confusa di libertà e d’avventura, non sapendo vincere né la ripugnanza ai limitari né la smania delle fughe. A quando a quando il trasognamento si colorava d’allucinazione. Il tonfo d’un remo nel fiume m’incrudiva la sete; e vedevo giù per l’ombra della volta venire il bertuccione del Rosso con le mani piene d’uve involate a quella pergola «d’uve grossissime sancolombane» nell’orto de’ frati. Ma il Dalmata di Sebenico mi portava le uve di Dalmazia, nell’ombra purpurea della mia vela avita. Socchiudevo gli occhi. Dell’Arno prendevo tra i miei cigli tanto d’acqua che la mia malinconia bastasse ad amaricare come una infinita lacrima. E mi travagliavo, col brigantino del mio avo paterno, mi travagliavo alla foce della mia Pescara, di contro a quella barra d’arena ove mi pareva aver propagginata la mia libertà marina, di contro a quel banco di sabbia che tra’ miei marinai si chiama scanno. Mi travagliavo con la mia vela di randa, a ritrovare il filone d’acqua profonda, a spiare dove l’acqua fosse più bruna, per entrare nel mio fiume a ormeggiarmi; ché più non sapevo il passo, non più sapevo di quanto avesser cresciuto o diminuito lo scanno le piene e le tempeste, né se il callone avesse mutato sito e fondezza. Mi travagliavo nella porpora ardentissima della randa affocata dai fuochi del tramonto; e, nato e rinato nello splendore d’una vela di porpora, novamente ambivo di chiamarmi Il Porfirogènito. E avevo anche nella stiva un carico porporino: un carico di marasche. Approdavo col carico aspro e amariccio; e scorgevo tra i cortaldi d’ormeggio, sotto il bastione, il mucchio bruno e dolcigno delle carrube. Una brancata di marasche e tre carrube, e la melodia delle zampogne all’alba, e nulla più, o mia anima!
Era già sera. La luce del lampione mi fu addosso come un urto ingiusto. Il passo del lampionaio mi sbigottì. Qualcuno forse veniva ad arrestarmi per ricondurmi nella prigione lugubre? S’avvicinava certo l’ora del ritorno miserabile, e i miei ospiti certo mi cercavano per darmi nelle mani dell’aguzzino. Mi misi a correre giù pel lungarno delle Grazie; voltai per la Via de’ Benci; mi rifugiai sotto la tettoia delle Colonnine, tremando a ogni sguardo indagatore. Entrai nella bottega del caffè. Chiesi acqua e maraschino, acqua diaccia e maraschino di Zara che è limpido come acqua di fonte della Verna.
«Non ne abbiamo.» Il tavoleggiante mi portò un gran bicchiere appannato e grondante di gelo, e un bicchierino tristo d’un rosolio giallognolo della Certosa. L’acqua tracannai d’un fiato, e mi sentii dentro stridire come se l’avessi versata su carboni accesi. La stanchezza e la tristezza parevano fumigare in me come vapore di spegnimento. Tanto mi s’appesantivano le palpebre che i miei sforzi di riaprirle eran sempre più tardi e più vani. Nell’ultimo battito scorsi una mosca che era caduta in quel tetro liquore di farmacia monastica e che vi s’annegava senza scampo. E poi non vidi più nulla, non conobbi più nulla. Non seppi se mi prendesse il sonno, o la morte; non seppi se m’allungassi su la panca, o se mi sprofondassi sotterra. L’ultimo baleno di sentimento in me fu il guizzo d’un petto bianco di rondine disperata; e l’ultimo lagno fioco fu: «Mamma! Mamma!»
vi. senofonte contro senofonte
Quante pene pativo per pigliare chiarezza di me, per conoscere me vero, e per provare le mie tempre! Ma d’esser tanto disconosciuto non m’adontavo né m’attristavo, sì bene m’allegravo talvolta sì selvaggiamente che m’accadde di trapassare i limiti delle vendette allegre e dei disordini premeditati. Né mai – e me ne glorio come d’un titolo di precocissima nobiltà che mi dura e mi durerà fino alla morte – né mai potei sorprendere me stesso in una qualche inclinazione a giustificarmi o a difendermi con l’autorità altrui, con la testimonianza altrui, con l’altrui consenso. Né mai m’avvenne di coglier me medesimo in fallo di scoprire dinanzi all’accusatore la mia essenza intima e il segreto delle mie cagioni; né mai m’avvenne di cogliermi in un qualche moto d’arrendevolezza o di compiacimento nel lasciarmi deciferare; ché anzi, come una fiera spedita e scaltra, m’ingegnavo a escir pronto da ogni pesta seguitata o a confonderla con le più rapide rivolte e con i controtagli più netti. Professavo fin da allora, nella vita in comune, l’arte acuta e crudele d’ingannare senza scrupolo gli altri per non ingannar me; ed era l’inizio d’un’arte che poi doveva divenirmi ascetica ed eroica, conciliando entro me – attraverso il disdegno e il silenzio, attraverso l’orgoglio e lo sprezzo – la Libertà e la Grazia nell’officio divino dell’anima.
Così la superbia fu l’aroma conservatore delle mie virtù native, contro tutte le sentenze dei Padri raccolte ne’ miei quaderni. La superbia fu la mia salute vera e grande, fu la mia costante liberatrice da ogni contagio vile o maligno, in onta a san Bernardo che ne’ miei quaderni la faceva «nascimento e capo di tutti li peccati, ruina di tutte le virtudi». Ma anche una volta l’Ottimo mi penetrava addentro, se ben paresse accondiscendere alla rampogna del calònaco nel chiamare ora «disordinato» e ora «perverso» il mio amore della mia propria eccellenza. E un altro buon comentatore mi diceva che la mia superbia era non voler mai sottomettermi, non voler soggiacere al comune reggimento, non voler attenuare alcuno de’ miei rilievi più risentiti, non voler riconoscere allo scolasticume meccanico alcuna autorità, e non volere infine vedere – come dice la gente meccanica – «né pari né compagnone» ma voler sempre signoreggiare.
Come avrei potuto, ad esempio, degnarmi di riagitare il mio spirito e di risollevare il fondime prezioso deposto nel mio sonno di stanchezza e di tristezza dormito in quella bottega da caffè dinanzi a quella povera mosca annegata in quel rosolio tetro? Mi lasciai accusare grossamente di diserzione ridendo, ridendo mi lasciai castigare; e da tutta quella agitazione e inquisizione ridevole, contro quelle mie ore profonde, la mia anima si sentì più remota di Sirio e delle Pleiadi.
Ma non diedi tregua. Escito dalla carcere tettaiuola, sùbito mi venne fatto d’inventare una nuova facezia sediziosa, profittando d’un malcontento di cancheri contro Senofonte ateniese. Come amo l’arte per l’arte, nel convitto della Cicogna amavo la ribellione per la ribellione al modo dei semiddii empii e degli angeli mali. Qualsiasi turbolenza m’era pretesto e inizio, talvolta pur contro la mia stessa sincerità. Sinceramente mi piaceva la prosa attica di Senofonte; e sapevo interpretarla e voltarla con speditezza di «tarantino» alla leggera o di velite marrucino arrolato in una decarchìa della Falange. Mi pareva di poter attribuire a certe pagine inimitabilmente costrutte il modulo dell’òmero di pellicano; e, studiando appunto i costrutti della Ciropedia, avevo imaginato di forare quell’osso potente e lievissimo per farne un flauto alle labbra della musa regolatrice della prosa perfetta. E pretendevo, dal mio banco di scuola contro la bigoncia, che accostarsi al capo dei Diecimila, ignudo maestro di alacrità prode, non potesse un pedagogo incluso nella zoarchìa non come zoarca ma come elefante bardato apposta per ispaventar con la mole col barrito col fetore la musa venusta e per far con la proboscide con le zampe con le zanne iniqua strage di favi attici.
invocazione all’ape attica
«O favomèle, o purità d’animo e sanità d’ossa, o mio incorrotto e purgato e stringato e limato e saldo e gentile Senofonte, o tu più attico della stessa Atene, nel tuo esempio io m’intoscanisco non senza cautela come tu grecizzi il figlio di Cambise. Ma non avere in disgusto e in dispregio questa gente zotica a cui non io manco d’additar per cànone di bellezza ogni mattina la danza esculta in un marmo che mi penso essere miel biondo congelato nel tuo Ilisso e poi rattiepidito dallo scarpello fiorentino. E non t’addare di questo prete tanto ventroso quanto tu sei smilzo, o stratego dalla càsside senza cresta, non t’accorgere di questa ventrìloqua bestia della epitarchìa scolastica, che troppo sovente s’ardisce di fugare le api cecròpie della tua prosa con la cauda elefantina di colore nigro. E, per alcun tempo, non ti volere accorgere pur di me, o tu perito negli stratagemmi; ché un’astuzia di guerra appunto mi induce a guidare con mali mezzi in mal fine contro te questa impresa di beoti, o parca Ape imèttia dal corsaletto di capitano.»
Elevata all’alunno di Socrate questa preghiera breve come un’arringa dell’Anabasi, mi diedi a capitanare la malavoglia e la noia dei cancheri, senza rimorso e senza onta.
E questa fu la preghiera, in forma di ornata intimazione, da me rivolta al più vasto e turrito elefante della ordinanza de’ quattro che componevano la epitarchìa scolastica.
«Reverendissimo padre e maestro colendissimo, ho dai miei condiscepoli forse più di me timidi il carico di annunziare apertamente che Senofonte d’Atene è per la seconda volta bandito, come dopo la battaglia di Coronea. I testi greci dell’Anabasi e della Ciropedia, dell’Apologia di Socrate e del Maestro de’ cavalieri, del Cinegetico e dell’Economico furono arsi in rogo di bando ieri a vespro sul settimo gradino del tempietto nel prato di ricreazione, tra le due fontane che sono zampilli e stocchi. Fecero gran vampa e chiarissima, come fa l’alloro; e per alcun tempo, fino a notte, le fontane serbarono un sapor laurino, cosicché apparve quasi consacrato dalla divinità della sera il nome composito che io soglio dare al miele attico: meloro. Ma anche il meloro di Senofonte fa afa, come a lungo ogni cosa ottima. Ed è risaputo in Toscana che a taluno, e forse anco al nostro maestro colendissimo, puzzano i fior di melarancia e fanno afa i beccafichi.»
Il calònaco aveva impugnato, non senza cipiglio di minaccia, la grande tabacchiera di corno che gli serviva talvolta a inculcare nelle dure cervici l’aoristo attivo e il medio e il passivo. Ma, prima di balzare al castigo, volle con un sì gran pizzico fomentar l’ira che gli ferveva nelle narici villose, iratae mentis furorem fovere, che starnutò spropositatamente.
Tutti i cancheri si levarono in piedi, da’ banchi, e proferirono la salutazione starnutatoria in coro. «Lo spirito senofontèo» ripresi io pronto «non sembra ancor da quest’aula dipartito, se tutti allo strepito inatteso dello starnuto riverenziale ci siam levati come i Diecimila in terra di Persia quando lo stratiote per segno di salvezza starnutò mentre Senofonte parlando maneggiava le chiavi della persuasione. Tal presagio improvviso il salvatore Zeus ci manda in mentre che noi ci argomentiamo di cercar nostra salute, o compagni. Così disse il capitano facondo. Così dico io. Il presagio conferma la bontà del proposito e la opportunità del bando e la castità del rogo. I Diecimila alzarono le mani e intonarono il peana. Noi dichiariamo, con un solo alito e con un solo animo, che il divino Senno risiede nella tabacchiera capace e nelle nari strepitose del nostro insegnatore di virtù. E Senofonte ritorni in bando nel villaggio del Peloponneso, col favore dei Lacedemoni; e rialzi l’altare e il simulacro di cipresso ad Artèmide efèsia. A noi venga un più giovine Senofonte, efèsio come l’iddia. Maestro colendissimo, miei condiscepoli diletti, ecco a noi giunto per divino tramite il libro di Senofonte efèsio: Gli amori di Abrocome e di Anzia. Questo, da oggi, noi leggeremo; questo noi studieremo; questo in tutte le grazie attiche della toscana favella noi traslateremo. E non dubito, pur contro l’incertezza dei segni, non dubito che nel reverendissimo naso subentri il tacito consenso là dove strepitò il giovial presagio; poiché tanto maestro m’insegna come il testo a penna dell’Efèsio custodito sia dai monaci dotti fra altri codici greci nella Badia di Firenze, e pur m’insegna come alcune righe ne traducesse il Poliziano lodandone l’eleganza. Sic utique Xenophon scribit, non quidem Atheniensis ille, sed alter eo non insuavior Ephesius. Dei cinque libri amatorii noi prenderemo stamani a traslatare e a comentare il primo, ove si narra come Abrocome giovine bellissimo e Anzia giovane bellissima, incontrandosi i loro occhi nella processione di Artèmide, si accendano fieramente di vicendevole amore. Non c’imponeva il nostro reverendissimo Padre la difficile prova di tradurre l’Ateniese ad apertura di libro tre volte quasi a imitare le tre aperture della messa pregando Iddio che nelle tre aperture dello missale dimostri la via che ad esso piace che noi deggiamo eleggere? Ebbene, ecco, apro tre volte; ed ex tempore traduco: Tutta la faccia di lui baciava, e tutta la zazzera di lui premeva sopra le sue palpebre, e le ghirlande inumidiva; e le sue proprie labbra con le labbra di lui cuciva insieme nel bacio; e tutto che pensavano, dall’anima dell’uno all’anima dell’altra, per bacio si tramandava…»
Non tanto m’impuntai per la difficoltà del testo, assai men perspicuo di quello attico, quanto perché la ciriegia di Gorella Gheri mi si rimise a traverso nella gola. Il momento era tanto periglioso che in cuor mio m’auguravo l’Ateniese mi rimandasse in soccorso un novo starnuto dello stratiote. Il calònaco era finalmente riuscito a sollevare fuor della bigoncia la stabaccante mole dell’adipe, tanto rosso nella faccia e nella collottola e ne’ bargigli che mi facea temere un accidente a secco o a campana o a ferraiolo. Brandiva la scatola di corno; ed era contro me tutto minaccia, così che mi pareva gli si fosse attaccata alla radice del naso la caruncola carnosa e focosa di un elefantiaco tacchino; ma barcollava, ma traballava, ma mugolava.
Intrepido, avendo ringoiato il balascio di Balci, insinuai le dita nella seconda apertura; e ficcai il viso a fondo nella pagina, quasi per un impeto d’infedeltà, subitamente innamorato di Anzia come Eussino su la galèa; ché ella non avea se non quattordici anni a me negli anni eguale, e gli occhi vaiati, come Alessandro: uno ceruleo di pulzella ingenua, uno nero di femmina saputa. E io medesimo con un occhio penetravo il testo erotico mentre con l’altro vigilavo l’iracondo senza fulmini: «Ora nella vicenda del navigare, per i cotidiani incontri, per la sensibile consuetudine, Corimbo s’innamora d’Abrocome, e di gagliardo amore…»
Ahi, ahi, si ricascava nell’ecloga seconda! Coridone prendeva la veste di Corimbo e Abrocome quella di Alessi. O crudelis Alexi!
Con la coda dell’occhio vedevo il calònaco trasfigurato in una sola enorme caruncola di tacchinone sacro, non più pavonazza e pendente, sì bene fiammeggiante ed eretta. Ma forse, per incredibile metamorfosi bellicosa, era la proboscide invermigliata del primo elefante in punto di scagliarsi fuori della ordinata epitarchìa; e l’urto era forse temibile.
Il barrito scosse i banchi, le lavagne, le carte astronomiche e geografiche, il ritratto del professore Giuseppe Arcangeli, e perfino il crocifisso. In vece d’esser trafitto dalla lunga zanna d’avorio, fui tocco alla spalla dalla scatola di corno; ché lanciata me l’avea la proboscide conversa in cerbottana. «Epitarca! Epitarca!» Balzai dal banco; attrassi a me con un gesto irresistibile tutti i beoti, tutti i nuovi partigiani dell’Efèsio; spalancai la porta dell’aula; in un baleno vuotai di me e de’ miei l’aula. «Epitarca! Il primo elefante rompe l’ordinanza. Chiamate i sarissòfori! Cacciategli nel fegato una sarissa di quattordici cubiti!»
Scandalo inaudito: la voce della ribellione echeggiava nel corridoio della Cicogna come aveva echeggiato sul Ponte di Tiezi. Bernardo Nardi avea riappiccato il suo teschio al suo busto, e io avevo tagliato il mio capestro col mio pistolese. Il tamburo di pelle d’asino non ancor batteva la fine delle lezioni. Il portinaio Tonino, che dell’utile granturco non vantava se non una barba gialletta di pannocchia appesa al mento, per lo stupore e per il terrore s’accartocciò tutto e si fece tutto spiga come il formentone tardivo. Poi si piegò; e si mise lungo disteso contro la soglia, rassegnato a farsi sgranellare.
Lo risparmiammo. Ci gettammo a manca. Forzammo la porta della ricreazione; irrompemmo nel gioco del pallamaglio e del tamburello; corremmo verso il tempietto fra le due fontane. Ritrovammo sul settimo gradino le ceneri del falò senofontèo; ce n’empimmo le pugna; le disperdemmo ai vènti perché raggiungessero lassù, di là dal Mercatale, di là da Sant’Anna, nella vecchia villa di Bernardo Segni traslatore, l’Etica la Poetica la Retorica la Politica di Aristotile. «L’Efèsio! L’Efèsio! Abrocome e Anzia! I corsali di Rodi! La zazzera di Corimbo! La figliuola d’Assirto! Cinone! Egialeo! Manto! Perilao!» I nomi degli amanti furibondi e delle amanti gemebonde volavano battuti e ribattuti come le palle di cuoio dai bracciali. Tutte le femmine e tutti i maschi s’innamoravano del bellissimo Abrocome; tutti i maschi e tutte le femmine s’innamoravano della bellissima Anzia. E tutti e tutte, nel romanzo dell’Efèsio, tenzonavano di continuo gareggiando tra loro chi apparisse e chi fosse più inuzzolito e più ingattita. A ogni momento il figliuolo di Temisto gemeva, ebro di castità: «Or qual vita mi rimane, a me fatto in vece d’uomo meretrice; e privo d’Anzia mia?» A ogni momento la figliuola di Evippa gemeva, ebra di verecondia: «Ahi, ahi, ama uno me; e ha già sperato di persuadermi, e di venire nel letto mio, dopo Abrocome, e di coricarsi meco e di far la sua voglia!» E l’uno e l’altra rigavano di lacrime le isole e le penisole, sfuggendo illesi alle carnalose insidie e ai libidinosi assalti o per caso o per industria o per prodigio. E a ogni tratto, sul culmine turpe de’ perigli, singhiozzavano: «Moriamo, moriamo. Rechiamo la castimonia integra alla morte. E il sociale amplesso bene scosso nel talamo della morte ritroviamo.» Ma non morivano; e sempre erano entrambi le nuove salamandre di nuovi incendii. E sacrificavano a tutti gli iddii, sposo e sposa in perpetuo. E finalmente erano dall’iddia efèsia ricongiunti. Giurava Anzia: «Per terre e per mari, scampando da arrembi di corsali, da sevizie di ladroni, da lusinghe di lenoni, eccomi a te intatta, o signore dell’anima mia. Niuno mai m’indusse a fallare, niuno a puttaneggiar mi costrinse: non Meri in Sorìa, non in Cilicia Perilao, non in Egitto Psammide, non Anchialo in Etiopia, non in Taranto il ruffian padrone, non altri in alcun altro luogo mai. Pura a te mi restituisco. Ti restituisci tu a me puro?» Giurava Abrocome: «Né mai a me vergine alcuna è parsa bella; né mai alcun’altra donna veduta, pur solo con sola, mi piacque; né mai blandizia né mai lascivia né mai perfidia né mai forzamento mi vinse. Purissimo il tuo Abrocome ricevi nella socia fede, o Anzia, quale il lasciasti a Tiro nella carcere.»
Una corona di cupide orecchie e di alte avene tenui cingeva lo spositore delle Efesìache di quell’altro Senofonte, sul prato non ancor falciato. Il vento meridiano incurvava la gran messe verde senza ariste e scapigliava i cancheri senza pensieri. La novità e il digiuno sembravano a poco a poco inebetirli; e l’ebetudine arrotondava le loro bocche aperte, così che parean rappresentare la rotondità degli zeri omai certi nel prossimo rapporto bimestrale. Uno diceva, stupefatto d’aver corso il rischio di tanta ribellione per esaltare un tanto spropositato esempio di virtù: «Ma è vero? ma è proprio vero? Non te l’inventi?» Un altro diceva, scrollando le spalle, voltandosi, e mettendosi a masticare una cima d’avena: «Ma codesti sono imbrogli che non si fanno e non si vedono neppure al teatro delle marionette nel mio paese scemo.» E un mio scimmiottatore non del tutto scimunito, un Manfredino di Barletta, più scontento e più acerbo degli altri, con la maschera pallida e rabida della fame: «Per la vergine del Canto alle Tre Gore, non ti riconosco più, marchesano di Pescara. Valeva la pena di far tanto chiasso per un Senofonte piuttosto fesso che efèsio? Tutti s’innamorano, tutte s’innamorano; e non succede mai niente, fino alla distribuzione de’ premii. Ma alla prossima distribuzione degli zeri, ne avrai uno anche tu, tondo come l’omega del canonico. Te l’annunzio, Gabriele.»
l’ora dell’espiazione
In fondo, pareva anche a me, su quel prato fragrante e variante che folleggiava al vento con una puerizia infinitamente più amabile della nostra, anche a me pareva d’essere in fallo come un piccolo Eròstrato vano senza celebrità, dinanzi a quel tempietto mal dipinto dove non rimaneva dell’arsione pur un granello di cenere e non avanzava di tanti libri arsi pur un frammento bruniccio donde quasi favilla fosse per rinascere l’ape attica a infiggermi nella fronte il pungolo mirabile. La dea, trigemina come Minerva e come la Chimera, m’aveva abbandonato. Ero deluso e tranquillo, come se – invece di esporre le Efesìache – avessi masticato alcuna di quelle «lettere efesine» che in Efeso la superstizione facea profferire ai demonìaci per sollievo di lor travaglio. Il mio dèmone non mi agitava più. Era venuta anche a me una gran fame da lupatto della Maiella, e nel tempo medesimo il disgusto del refettorio untuoso. Avevo un bisogno ferino di sbattere il dente e di restar con me vero.
Il rullo del tamburo risonò laggiù nell’andito delle scuole. Il sagrestanello di Campi stava dicendo in quel punto, non senza giudizio e non senza ardire: «Io credo che, se Iacobo da Varagine avesse conosciuta la storia di Abrocome e di Anzia, li avrebbe santificati entrambi nella sua Leggenda d’oro. Matrimonio immacolato conservo ad Abrocome attesta Anzia contro tutte le potenze avverse. Matrimonio immacolato conservo ad Anzia attesta Abrocome contro tutte le tentazioni e le oppressioni. Non così parlano i martiri? Non son ambodue martiri senza palma? È dunque giusto che Gabriele dell’Annunzio dia all’una e all’altro due gigli de’ cinque rimasti in serbo nella sua predella del Buon Consiglio. Invenerunt enim gratiam apud Deum coniuges boni.»
Imminente era, sopra me, l’ora dell’espiazione; imminente la necessità d’offrirmi in espiazione. Laggiù, in fondo al campo sgombro del pallamaglio, s’era riaperta la gran porta che noi avevam forzata; e, precedendo la nera dilochìa ginnasiale e liceale condotta dal giganteo lochita Triglia di Filèttole e dal mirmidònico lochita Gallo dell’Elba, s’avanzava l’epitarchìa formidabile, l’ordinanza grecànica de’ quattro elefanti pedagoghi. E, dietro la dilochìa e l’epitarchìa, s’accalcavano i falangiarii curiosi ed estuosi, che aveano evacuato le non dotte aule al rullo del tamburo asinesco.
«Clerico intonso e irsuto,» gridai tenendo fermo per le braccia il Campigiano e per le corna il suo argomento «il dio de’ martiri ha favellato per la tua bocca digiuna. Non ti partire dal mio fianco. Tu mi rendi testimonianza.» E lo tenni, mentre i ribelli balenavano e alcuno era già in fuga verso le pentole della broda innocente e de’ ceci maritati.
«Broda e ceci, broda e non ceci!» Come il vento portava dalle cucine certe zaffatacce che mi davano allo stomaco, mi gettai prono ad annusare l’erba; e l’alta erba aulente mi coperse tutto, mi celò con non so che dolcezza materna, ricevette la mia impronta senza farsi male; e sùbito, con la mia superstiziosa narice d’Abruzzi, sentii la menta tra la maggiorana e l’aneto; e il mio fedele cuore d’Abruzzi mi pulsò come alla vista del basilico sul davanzaletto della Zecca vecchia; e per un alito del vento di mezzodì riudii la parlata d’Abruzzi nella parlatura di mia madre:
Chi tróve la mentucce e n’n l’addóre
N’n vede la Madònne quanne se móre.
Premevo tutta la gota nel cespo di menta, religioso come sopra la navicella dell’incenso, come sopra il coperchio del turibolo.
E udii, con l’orecchia aderente al suolo, approssimarsi la pesta dell’epitarchìa. L’epitarca di lontano avea creduto ch’io volessi sfuggirgli puerilmente acquattandomi, ch’io volessi sottrarmi al castigo tenendomi quatto quatto e cheto nel fieno. «Si nasconde! Tenta di nascondersi! Malizia di strùzzolo.» Sùbito, lasciata nel cespo tutta la mia dolcezza (e la mia dolcezza anche allora non era se non una forma della mia energia), balzai in piedi come un arciere da una imboscata, con tal risentimento di muscoli e d’animo che l’epitarca s’arrestò quasi a schermirsi dallo strale.
«Me me adsum qui feci. Ma tu non mi seppii.»
Oh audacia impudente! Oh incredibile improntitudine! Audacia, stolida audacia, se non anche insensata temerità!
Mi par di rammentarmi che Maria Galeazzo Sforza – quello che volle farsi dipingere a buon fresco una vasta sala in una sola notte, e a bonissimo fresco io glie la lavorai tutta in una notte sola – mi par di rammentarmi che lo Sforza dal bel parlare e da’ bei falconi mi chiedesse un giorno di dipingergli la figura dell’Audacia a riscontro con quella della Prodigalità. Per la figura della Prodigalità mi fu agevole farle versare da una smisurata cornucopia i due milioni di fiorini d’oro fiammanti che il duca si vantava d’aver dato in custodia al suo tesoriere di chiave mastia. Per la figura dell’Audacia mi convenne prendere uno specchio e farmelo tenere allato da Giovannandrea Lampugnano.
Non avrei mai potuto allora imaginarmi che quella mia personificazione un giorno sarebbe balzata dal fieno fragrante d’un prato annesso a un convitto fondato da un gran Gesuita sotto il vocabolo della Cicogna, e che avrebbe provocato tra bazza e nappa dell’epitarca scolastico un tentativo di prosopopea.
Ora l’ordinanza de’ quattro elefanti da castigo era formata del calònaco, dell’arcicappellano, del censore lanzo e dell’economo emorroo. Avvenne che l’arcicappellano, vedendo l’epitarca Seppia impazientirsi nel suo moscaio, gli levasse di bocca il tema dell’audacia e si ponesse a svolgerlo tra i soffii intermessi del vento che al fluttuare delle avene donavano un indicibile marezzo d’oro d’argento di glauco sotto il mezzodì. «Audacia, audacia, se non anche insensata temerità; rigoglio d’orgoglio; tenebra d’idolatria; vani nominis ardor; tumidae mentis fastus; elatae frontis tumor.» E il ventrìloquo segneriano procedeva così per «tre tanti e tre cotanti», con un misto di sollazzo e di noia ne’ lochi e nei falangiarii, quando inspirato dal mio dèmone meridiano diedi io la stura, levandomi sopra gli elefanti aguzzo come un obelisco in una piazza papale.
«Reverendissimo Arcicappellano della Cicogna, questo cherico alunno non anco tonsurato ma pur benefiziato di cappella, che in servire la messa avanza noi tutti e virtuosamente va inchiomandosi nell’attesa della prima tonsura, questo Campigiano che pur fuoruscito di studii sembra esser rimasto all’ombra del Crocifisso de’ Flagellanti e non aver mai bevuto se non alla fiasca di santo Rocco taumaturgo di tutte le morìe tra Bisenzio e Ombrone, questo illibato santocchio pur dianzi affermava sotto il meriggio di Dio che, se Iacobo da Varagine avesse conosciuta la storia di Abrocome e di Anzia, li avrebbe santificati entrambi nella sua Leggenda d’oro. Se non canonizzati, beatificati sieno innanzi al sacro tribunale dei Riti e per decreto di Concistoro e per bolla del Sommo Pontefice, acciocché i fedeli li venerino ambo esemplari e l’uno e l’altra invochino intercessori nel cospetto di quell’Amore che non è a bastanza amato, nel seno di quell’Amore che – come sospira e come piange il Mistico – non è amato, non è bene amato.
Non all’esame d’un sì dotto concistoro che aduna il fior del Ginnasio e il fior del Liceo – duplex florum decus – son io per addurre documenti e testimonianze. Non m’occorre già né mi conviene qui noverare gli esempi, innumerabili e incomparabili, che ben possono porsi per norma a’ viventi, in quanto i novissimi due canonizzati si conformano a una norma suprema e vanno immuni dalla stolta calunnia d’idolatria. Matrimonio immacolato conservo ad Abrocome attesta la bellissima Anzia contro tutti i supplizii e i doli. Matrimonio immacolato conservo ad Anzia attesta il bellissimo Abrocome contro tutte le tentazioni e le oppressioni. Non così parlano i martiri? Non son essi ambodue martiri senza palma?
Questo sommo concistoro forse opina che tale ansiata dimanda si esali dal mio spirito in travaglio. Ella è pur dianzi escita dal turbato fervore di questo precocissimo Flagellante di Campi, da questo incorrotto cherico impaziente di tonsura, che al fonte di Campi s’ebbe il lavacro del battesimo da san Lorenzo e da san Martino. Salve virginei flos intemerate pudoris! Inchinare il nome suo mi sia qui concesso, ne’ modi del poeta infelice che comuni ha meco la patria irrigua e l’iniqua onta. Salve!
Martiri senza palma sono ambodue. Ma io dico che le più radiose martiri di palma e di corona, io dico che i più intrepidi testimoni cinti d’aureola, ecco, dinanzi agli Efèsii si raumiliano.
Eufemia era protetta dagli angeli che rendevano inerte ogni braccio impudico verso lei proteso; e le porte delle sue custodie per l’angelico divieto non più si volgeano su’ cardini; e fin le mole del supplizio, poste a premerla come oliva, non la premevano, sì bene in polvere si disfacevano.
Caterina d’Alessandria, la figliuola del re Costo, nata nella porpora, dotta quanto indomita, vincitrice di sofi, sophorum victrix, protetta anch’ella fu dagli angeli contro i suoi proci, e dagli angeli sepolta nel monte Sinai nivea.
All’angelo promessa e non a Valeriano, Cecilia del sangue insigne di libertà, sata sublimi Gracchorum sanguine virgo, fu dall’angelo sollevata di là dal sangue alla gloria lattea del fiordaliso.
Ad Agnese nel lupanare ignuda crebbe d’improvviso la chioma così che ne restò coperta come da un céspite impenetrabile.
A Lucia di Siracusa aggirata dai prosseneti crebbe il carnal peso di là dall’umano così che lo sforzo di mille uomini non potea trarla al fòrnice.
E l’àspide, che a Cleopatràs lussuriosa era stata letìfera, non uccise Cristina; ma appesa e attorta alla rosea pigna blandiva il vertice con la divisa delizia della lingua imitando l’insistenza del viticcio.
E Agata di Catania dalle rosse piaghe fumanti del suo petto, onde il console efferato avea divelte le mammelle floride, versò due rivi lustrali a mondare tutte le turpitudini intorno, essendo le sue poma divenute spiracoli di fredda linfa, frigidae spiracula lymphae, essendo ella fatta duplice fonte di elezione e di grazia.
E tutte così furon vittoriose per soccorso d’angeli costante. Non eran sole né inermi. Celeste milizia aveano in terra a difenderle. Daria di Narbona nel lupanare fu guardata dal magnanimo leone sfuggito alla fossa dell’anfiteatro; che dilaniava i bordellieri in su l’uscio, e la castità le vestiva della sua fulva giuba. Chiusa nella torre di macigno con dodici ancelle e con cento idoli d’oro, Critomèdia estatica si vide illuminata da dodici chèrubi in atto di gettatori che il metallo empio fusero nella fornace della lor bellezza e ne fecero una tavola d’altare consacrandola al dio vivo con un cantico senza cetra.
E, dove l’angelo di salute non sopraggiungeva precipite, le vergini e le vedove non repugnarono alla frode e all’astuzia. Margherita si recise i capelli, prese vesta virile, mutò nel nome lanuto di Pelagio il suo nome di perla e di fiore, si ordinò copertamente monaco. E dareste or voi la palma alla sposa di Abrocome se, come Teodora la santa avesse ella peccato d’ingenua credenza primo vespere, ogni sera dall’apparir della stella e ogni notte fino all’albeggiare, scorrevole a credere che Iddio non veda quel che femmina fa dopo compieta? E dareste voi l’aureola allo sposo di Anzia se, come al beato Crisante, gli avvenisse di veder sùbito addormentate quante donne procaci gli fosser poste nella camera occulta per tentarlo? Né si sa in vero come si comportasse Crisante con le dormienti discinte. De hoc omittamus.
Ma la venustissima Anzia, nel lungo suo pellegrinaggio sventurato, contro Meri e contro Perilao e contro Psammide e contro Anchialo e contro innumerevoli fornicatori e procacciatori d’ogni sorta pervicaci non ebbe soccorso e custodia se non dalla sua costanza. Ma il formoso Abrocome con la sua invitta costanza ebbe a difendere la sua castità non solo contro innumerevoli femmine d’ogni stirpe e d’ogni sapere; sì – proh pudor! – ebbe a turarsela pur contro perdutissimi amatori che quelle superavano di disonesto desìo come Corimbo superò fin Cinone ucciditrice d’Arasso. Più immansueto del vergiliano Alessi, accompagnava egli con lugubre pianto la disperata esecrazione: Giuro che me non sottoporrò a Corimbo, né mai sarò bardassa di alcuno; ma vorrò intatto varcare la fiumana immemore.
Gentile e non pagano, gentile e non idolatra fu dunque il figliuolo di Licomede, per non aver conosciuto il dio rivelato, gentile al pari dell’attico Socrate, se crediamo alle accuse di Melito. Prima del Redentore, la credenza nella unità d’un dio vivo era gentilesimo. E tuttavia Abrocome ed Anzia non riverirono e non servirono il dio unico e vivo, il dio unico e vero, che è il sommo Amore? Non prestarono ossequio e servitù alla Deità Amore, secondo le parole medesime di Caterina da Siena? Non si può dire d’entrambi che, pur privi di alcun soccorso alato, furono due Serafini incogniti, appartenendo dalla nascita a quell’ordine che arde e ardere vuole sopra gli altri in divino amore? Non si può d’entrambi dire che di continuo si struggessero e risolvessero in amore divino? E, se d’essi favellando io ardo, non forse io m’ho tra le labbra quel carbone ardente che già il Serafino pose nella bocca d’Isaia, preso con le molle d’in su l’altare?
Ecco che anche me, contro il rispetto ingiusto e contro l’ingiusto castigo, anche me soccorre un degli angeli che non mai ammonirono né protessero gli sposi infausti. Detto è nel salmo: Gli angeli del Signore sono accampati intorno a quelli che lo temono; e li liberano. Nel salmo è promesso e confermato: Male alcuno non ti avverrà, perciocché egli comanderà a’ suoi angeli intorno a te, che ti guarderanno in tutte le vie. Essi ti leveranno in palma di mano, ché talora il tuo piè non intoppi in alcuna pietra.
Giovarsi non poterono i due martiri efèsii neppure delle lettere efesine contro i dèmoni. Non ebber guernimento, non vestirono armatura, non piastra, non maglia, non l’usbergo d’acciaio, non l’usbergo della legge, i due pugnatori intrepidi. Vi apparisco io forsennato, o lumi del concistoro, se rivendico per i martiri efèsii una palma più verde che quella decretata a Eufemia, a Caterina, a Cecilia, ad Agnese, a Crisante, a Egnazio, a Bonifazio?
Or di quale misfatto scolastico sono io accusato da quel pedagogo iracondo che, a vendetta della virtù, mi scagliò lo strumento medesimo del suo vizio nasale? Non appariva egli certo, né al Crocifisso inchiodato sopra la bigoncia né all’effigie venerata di Giuseppe Arcangeli, vendicatore di virtù; ché n’ero ben io rivendicatore come dinanzi a voi rivendico la mia fama offesa.
Uditemi. Si manifestava un segno nella scuola consacrata dal Segno. Sotto il vecchio e vieto pregiudizio dell’ape attica e del miele imèttio, i discepoli n’erano ogni giorno imbeccati e inzeppati a sazietà. E spesso il miele era adulterato, e spesso anche – per la delicatezza di tenerelle anime formate su lo stampo della Filotea – era intossicato. A discepoli divotissimi, che tuttavia serbavano nella lingua il sapore immateriale della recentissima eucaristia, un sacerdote di Cristo, l’amministratore medesimo delle sante partìcole, proponeva un trattato idolàtrico di educazione giovenile, infetto di storica menzogna e di falsità partigiana: la Ciropedia, una specie di romanzo ambiguo ove l’Ateniese invaghito di Sparta pretende di ammaestrare alla spartana un Perso mal faretrato e fallace!
Ebbene, giudici del concistoro, io rivendico a onore la colpa d’avere opposto romanzo a romanzo: il romanzo dei due martiri fedeli che giammai si lasciarono corrompere opposto al romanzo del principe callido che soleva comperare la fede e la virtù degli uomini coi doni opimi e con le mercedi ingenti. A Efeso, nel tempio di Artèmide affocato da un sublime incendio di amore innanzi che dalla vanagloria di Eròstrato, i due martiri pregarono e sacrificarono e sospesero la tavola votiva ov’era inciso il lungo martirio ben degno di spirital corona. A Cunassa, schiumante di odio fraterno e dementato dalla passione del fratricidio, Ciro ferì di giavellotto il suo fratello Artaserse e di giavellotto fu morto dal soldato cario; e non lasciò dietro di sé ai saccomanni se non la tenda de’ suoi piaceri, ove tremavano e supplicavano due femmine greche di libera e inclita progenie, l’una di Focea, di Mileto l’altra, ch’erano state rapite non senza strage alle lor genti e in Sardi sottoposte alle voglie del bene educato e ingrecato Asiatico.
Uditemi, giudici prudentissimi. Ho detto che si manifestava un segno nella scuola consacrata dal Segno: il malcontento: il malcontento dell’animo, non dello studio. Ed era un malcontento virtuoso che, per troppo cieca imposizione e per troppo grave oppressione, si convertiva in supplizio; cosicché m’accadeva di ripensare a quell’amara epistola del Buonarroti ov’egli sembra ansare sotto la grandissima fatica mal riconosciuta e mal rimeritata. Io non posso negare niente a papa Pagolo: io dipignerò malcontento, e farò cose malcontente. Così nulla potevamo noi negare al calònaco Pagolo; ma studiavamo malcontenti e facevamo traduzioni malcontente. E, se v’è in Fiorenza una Via de’ Malcontenti più lunga che larga, v’è in questo convitto della Cicogna un corridoio de’ malcontenti, che ogni mattina bisogna percorrere col muso lungo quanto il luccio del Firenzuola.
Allora, miei giudici consultissimi, anch’io m’ebbi il mio segno. E non temo d’affermare che fu segno d’elezione e di vocazione; ché la mia elezione e la mia vocazione sono indubitabili e insuperabili, con vostra pace. Nel libro di Giobbe è detto che il Signore scorge alcuna temerità ne’ suoi angeli. Se io ho ricevuto dal battesimo un nome d’angelo, non posso divenire e non voglio divenire se non il più temerario degli angeli agli occhi del Signore. E pur sempre innanzi al viso della mia audacia lo specchio m’è sorretto da Giovannandrea Lampugnano, come al tempo di Maria Galeazzo Sforza, con vostra pace.
Chi sei tu, Signore, che comandi che io annunzii? Mi sia lecito su questo prato della mia difensione trarre l’allusione al mio nome dal Prato spirituale di Feo Belcari, di quel trecentesco fiore tardivo fiorito nel quattrocento quasi gelsomino di marzo; che pur colorì nella maniera di Taddeo Gaddi la Rappresentazione quando Nostra Donna Maria Vergine fu annunziata dall’Angelo Gabriello, e che pur sul muro vecchio del monastero d’una sua figliuola monaca fece schiudere quel giglio ghiacciuolo violetto divinamente espresso in quella parola di rugiada Perché così piangi? Io piango perché l’Amore non è amato.
Annunziare un annunzio, miei dottissimi giudici, è modo di Plauto e modo del Vangelo. Annuntiavi et locutus sum. Ma forse voi giudicate ch’io mi sia difeso a maniera d’àspide, come reca il Libro delle Dicerìe. E, se la crudeltà del castigo dovessi io misurare dallo sguardo crudo del calònaco Pagolo a cui non posso nulla negare pur malcontento, rinnovandogli degno paragone con un gran papa io dovrei trarre il mio timore dalla lettera che Piero delle Vigne scrisse a Gregorio IX in nome di Federigo: Questo Padre de’ Padri, lo quale si chiama servo de’ servi di Dio, fuori chiudendo ogni iustizia, divenuto è aspida.
Ma non traggo timore né agrore. Eccomi àspide che rivoltarsi non sa. Calcatemi.»
l’indulgenza dell’erba e del giustiziere
E mi gettai novamente a terra, di stianto; quasi mi sommersi nell’erba; mi scrollai di dosso e abbandonai nell’alta erba aulente la mia spoglia serpigna di predicatorello da beffe; ritrovai me vero, con tutte le mie vite diverse brulicanti e ferventi nel serrame delle mie costole, con tutti i miei estri alianti nel mio teschio sette volte forato da’ miei sensi avidi di conoscere e bramosi di peccare settecento volte sette. Di sùbito mi sentii come invasato dall’ebrietà terrestre del ruscello che fa il suo letto errante e v’aderisce con la sua flessibilità trepida e garrula. Sentivo la terra come la sente il ruscello che modella e modula la sua freschezza a ogni margine, a ogni greppo, a ogni ciottolo, a ogni ramo traverso, a ogni nervatura di fronda, a ogni fil d’erba. Nel gran fieno maggese l’avena il trifoglio la lupinella il finocchio novellino la salvia minuta il timo bianco la menta romana m’insaporavano come s’io stessi brucando con una fame di capro. A pena mi tenevo di rotolarmi, di saltabeccare, di cozzare. Ma l’aroma della menta mi umanava come quell’erba magica della Maiella che ha la virtù di cangiare il gregge in processione di confratèrnita. Credevo di vedere l’indulgenza àlacre di mia madre moltiplicarsi su le cime delle avene che il vento inclinava verso me. Credevo di udire la mia zia bizzoca, la sorella di mio padre, la penitente domestica in cenere e in cilicio, la mia zia Maria dirmi: Fili, remittuntur tibi peccata tua. Mi veniva fatto di rattrarre le gambe come per rimisurarmi al letticino ch’ebbi dopo la culla; ma mi pareva di sentire la testuggine familiare, la vecchia custode lenta della quiete casereccia, il silenzioso lare coperto di scaglia, tentarmi col suo capo di colubro e mordicchiarmi la suola.
Dov’ero? Mi sollevai un poco su le gomita e sbirciai. Il concistoro s’allontanava e si scioglieva, senza voltarsi indietro, con un così gran tentennamento di testoni che tutti a un tempo sembravano agitati da una sorta di parlasìa deploratoria. Ma Cice era rimasto là, a due passi, in piedi, esecutore di giustizia. Però mi guatava con una burbera tenerezza. «Mastro giustiziere,» gli dissi, sùbito ripreso dal dèmone del dileggio prosante «t’è comandato di mozzarmi il capo? Non ti muovere a compassione. Eccomi. Va in cucina, e togli la pestaruola da polpette ovvero mannaia dapàle a due manichi. Non fuggo. Aspettando mi cerco il buon punto nella nuca io stesso, per manco di cerusico.»
«Ora e’ canzona anche me» fece il compassionevole manigoldo. «Ma perché la parla sempre in canzone, con un certo modo che noi non si conosce? E’ son rimasti tutti canzonati. Ma il più rimminchionito gli era il Cappellano. Rimpinconiti eran tutti in somma delle somme. Le dico io, sor agnolo Gabriello, che la dovrebbe predicare l’Avvento e la Quaresima dal pulpito della Cintola. Sa che la spopolerebbe? Il pulpito del Duomo è di molta soggezione per i predicatori nostrali, non per l’agnolo. La dovrebbe avere una gran fame dopo la predica. La venga via. Mi dispiace; ma l’ha proprio presa a pigione la prigione; e l’ha perso il sermone!»
«Eh, Cice, lo sai, predica e popone vuol la sua stagione. Andiamo, giacché anco per questa volta ho salvo il capo.»
Ma Cice pareva rimpinconito egli stesso. Io ero felice di portarmi nella prigione i miei panni spigati di tutti gli erbaggi spigati. Le reste dell’avena, nella credenza d’Abruzzi, m’erano d’augurio; e mi proponevo di noverarle per fare il pronostico sul numero.
«Andiamo, via,» diceva il carceriere con la pietà dell’infermiere «le porterò qualcosa in gattabuia, povero agnolo.»
«Un piatto di ceci? Non senti che zaffate dal refettorio? Nessuno mai m’insegnerà rodere i ceci, neppure Cice. Credo che tu le sappia a memoria le mie iscrizioni sgorbiate col carbone sul muro della burella. Cice e ceci, ceci e Cice, E l’Arcangeli in cornice. Conducimi alla camerata perché io prenda i miei libri. E, se l’acqua è fresca, il pane sia come l’acqua. Mi basta.»
Per le scalinate e pe’ corridoi non incontrammo anima. I convittori eran tutti a manducare ceci maritati e lenticchie senza primogenitura: «le cieche lenti ed i ritondi ceci» come avrebbe sùbito citato dall’Ameto messer Messerino. Nella camerata de’ mezzani il cameriere correva dietro il topo bianco fuggito dalla cassetta del precettore, che avea tentato di ammaestrarlo per darci un esempio della sua arte pedagogica intesa come avviamento alla perfezione dei bipedi e dei quadrupedi di stirpe caucàsea. Come il carceriere m’attendeva su la soglia, cercai nella mia cassetta i testi di Senofonte ateniese soli immuni dal falò dei beoti; e toccai non senza fervore, da presso, l’òmero del pellicano che m’era divenuto una specie di santa reliquia emblematica. Presi anche meco la cotognata della mia zia pinzochera, e certi pastelletti della mia zia Onofria badessa di Ortona lievi come le ostie ma chiamati vipere. Non avevo in me rammarico né dispetto né timore, ma avidità di solitudine.
L’inferriata della carcere dava in sul tetto. Mi salutarono le passere tra embrice ed embrice, e le rondini a volo balenando; e anche certe lucertoline cinericce che si confondeano co’ licheni secchi. L’acqua era fresca; il pane non era quel pan di ceci che, come dice il Busca, stuzzica il cuoio e poi fa stomacare. Con la cotognata francescana e con le vipere badiali mi parve di fare una di quelle merende caserecce che tanto piacevano alla mia infanzia lassù nella torretta dei colombi.
Poi, quasi con la medesima golosità solinga e segreta e lontana, ripresi in mano l’Anabasi; l’apersi alla ventura; lessi, ad apertura di libro, come seduto non sul mio banco di scuola ma in una esedra degli Orti Oricellari.
Era il libro settimo là dove lo stratego dei Diecimila conduce Asidates prigioniero a Pergamo con la donna con i figli con i beni, là dove i vittoriosi partiscono il bottino e – per segno di gratitudine e per dimostrazione unanime d’onore – a Senofonte d’Atene, come in Troia ad Agamennone, è dato il privilegio di sciegliere primo e di prendere: cavalli, muli, buoi, carri, armi, vasellami, vestimenta. Gli occhi mi caddero per ventura su queste parole fauste: Non ebbe qui a dolersi del dio Ἐνταῦθα τòν θεὸν οὐĸ ἠτιάσατο… Non ebbi a dolermi; non mi dolsi.
Una fetterella di pane e magari una cotogna afra; e me con me fanciullo, me con me sapiente, me con me; e la melodia delle zampogne all’alba; e nulla più, o mia anima.
vii. la messa di conversione
Escito di prigione a mezzodì d’un sabato, dall’Arcicappellano m’ebbi un sermoncino dell’umiltà secondo Origene. Escito dal refettorio dove nel piatto sbocconcellato avevo rivisto alfine i ritondi ceci, m’ebbi un altro predicozzo dal calònaco intorno alla necessità di umiliare la mia superbia e di cessare dal credermi «poco meno che un Faraone». Pronto m’accorsi che l’uno e l’altro prete dell’epitarchìa avean disegnato di umiliarmi in faccia al convitto intero; ché il calònaco concluse: «Domani domenica tocca a me dir messa nella cappella; e tu, figliuolo, servirai: mi risponderai secondo il rito, mi volterai il messale, mi presterai le ampolline, mi rifornirai il calice col vino eucaristico. E, durante il sacro rito, ti raumilierai ne’ tuoi pensieri impazienti e dechinerai le corna della tua superbia inginocchiato e offerirai la tua superbia al Signore convincendoti che quando la superbia piglia l’uomo, ogni peccato commette, e quando si parte da lui, ogni peccato abbandona. Or vatti e statti con Dio, figliuolo.»
Per tutto il collegio della Cicogna si sparse la grande novella: «Gabriele dell’Annunzio domattina serve alla messa!» I cancheri apparivano assai più eccitati che nella vigilia di andare al Teatro de’ Misòduli; e mi s’affollavano intorno, e m’interrogavano, e m’aizzavano, e mi serravano in tanta stupidità fastidiosa che non mi dieder campo di giocare al pallamaglio né di saltare a piè pari. «Te lo metterai il camice? Te la metterai la mozzetta? Risponderai in canto fermo? C’è l’organo domattina, e il violino del maestro Nuti!»
Io m’avvolsi nel camice del mistero. «Terza veste è il camice, e io ne avrò sette.» Si sgranarono gli occhi, si spalancarono le bocche, s’incrociarono le esclamazioni; ché anche in quel tempo tutto di me ai compagni e ai precettori pareva credibile, specie l’incredibile. «Sette? proprio sette? Non ci canzoni? E perché il sagrestanello di Campi, quando serve, ne ha una sola? Ma tu se’ tu.» Grave io risposi: «Messa di conversione è la messa di domani, compagni. Io mi son convertito; e ho arso il mio idolo sordo e mutolo, subissato le mie iniquità, ritrovato il cammino di salute e il lume di grazia, abbandonato per sempre tutti i miei abiti di pensiero e d’affetto e d’opera sconci. Consegno gli abiti smessi e ricevo le sette vesti nuove. Così m’ha dichiarato il calònaco e così m’ha confermato il cappellano: Quando l’oblato familiare e servigiale debbe servire alla messa, sette veste si vestisce secretamente: primo il superpelliceo; secondo lo amitto; terzo il camice; quarto il cingolo; quinto il manipolo; sesto la stola; settimo la pianeta.»
Gridarono tutti i cancheri in coro: «Ma sei prete! Ma sei dunque promosso al presbiterato! Ma sei dunque prete dell’Oratorio!»
Sollevai le braccia e abbassai le palpebre, contrito e con gran divozione. «Non dico ancor messa. Non ho degnità. Solo son ordinato a Pìstola e Vangelo.»
Scorgevo con la coda dell’occhio il censore lanzo senza labarda, che s’era appressato al capannello adagio adagio, e tentennava il capo, rapito e stupito quasi andasse ripetendo con messer Messerino: «Ah questo non l’avre’ ma’ creduto!»
la diavoleria dell’agnolo
Avevo il mio disegno di prosante e grecante. La «comunella» del Carma m’avea dato il modo di penetrare nella biblioteca collegiale furtivamente come già nel museo del pellicano. Sapevo che nello scaffale accanto alla finestra erano le opere del Crisostomo patriarca di Costantinopoli, nella edizione del 1621 fatta per liberalità de’ Vescovi di Francia e di tutto il Clero ex bibliotheca Ludovici XIII christianissimi regis Francorum et Navarrae. Mi ricordavo d’aver tenuto in mano il tomo quarto per curiosità d’un riscontro col Volgarizzamento dell’Omelia di san Giovanni Crisostomo la quale ha per titolo «Che niuno non può essere offeso se non da sé medesimo», datomi in grazioso prestito da messer Messerino. E mi ricordavo che, sùbito dopo l’omelia, nel tomo quarto era la messa greca traslatata in latino da Erasmo di Rotterdamo, co’ due testi a fronte. E perfin mi ricordavo ch’era alla pagina 596 numerata per errore 576, e che con la matita avevo corretto il 7 in 9, non senza inquietudine superstiziosa quasi ondeggiando fra le nove Muse e i sette doni dello Spirito Santo e i sette colli e i sette savii e i sette dormienti e i sette cieli e i sette pianeti e le sette stelle e le sette meraviglie e le sette bellezze e i sette sacramenti e i sette peccati e i sette dolori e le sette chiese e i sette candelabri e le sette piaghe e i sette spiriti e i sette occhi e – o superbia di Capaneo sotto le falde di fuoco, dispettoso contro il castigo, o Capaneo che non t’ammorzi e qual tu fosti alla scalata e tal tu sei nell’inferno! – e i sette a Tebe e Tebe dalle sette porte.
Avevo portato meco una mollica di pane per cancellare il segno della mia matita e per restituire l’errore alla ventura; avevo portato meco un foglio di carta per trascrivere le esclamazioni del diacono.
Disdegnai il latino di Erasmo che già a scuola m’aveva imposto di sciogliere i dittonghi nel leggere il greco e di pronunziare la h come una e lunga. «Alla messa risponderò, con la pronunzia erasmiana, in greco.» E mi misi a imparare le risposte, con tanto zelo che cancheri e tangheri, non potendo indovinare perché tanto oscuramente borbottassi, credettero che già io mi fossi reso al diavolo e masticassi chi sa quali sortilegi, chi sa quali circoea carmina! Anzi il Flagellante di Campi pretendeva che io avessi un mal dissimulato sorriso diabolico. «Agnolo, agnolo, qualche altra diavoleria devi pure aver trovata.» Non n’avevo cura; abbassavo le palpebre, mi facevo il segno della croce, poi tenevo le braccia al sen conserte; perfettamente imitavo gli atti del «pieno di grazia», quasi sacro mimo da lauda dramatica studioso d’instituire una compagnia di laudesi nel seno della pia Cicogna.
Quando, la mattina della domenica, il rullo del tamburo chiamò i convittori alla cappella, tutti i cuori palpitarono. Io ero disceso in sagrestia per tempo; ché la bisogna si faceva sempre più grave, alcuni alunni preparandosi a ricevere la comunione dopo la messa. E, mentre i ricercari dell’organo si diffondevano per le scalinate e per gli anditi, una certa aura di scisma parea ventasse nei dintorni dell’Oratorio. Già si buccinava che contro il generale della Compagnia di Gesù fondatore del convitto io volessi risuscitare l’ordine istituito a Siena nel trecento dal beato Giovanni Colombini e abolito dal nono Clemente nel 1668: i Gesuati contro i Gesuiti. E già si buccinava che io avessi fomentato due fazioni religiose all’ombra della Cicogna, e che tra Gesuati e Gesuiti fossero accese le prime zuffe mischie risse sciarre.
Spiccatomi dalla grata del confessionale, dove un cappuccino addetto all’Ospedale del Ceppo aveva raccolto la mia confessione, ero tenuto d’occhio non senza sospetto dal calònaco parato per celebrare. Ma il mio zelo stava fiso, e impenetrabile. L’officiante non aveva chiave ad aprire il mio ciborio, né potere di forzarlo. Tenevo tra le labbra serrate le prime due parole del mio servizio impazienti d’involarsi, come le due ali d’una farfalla ancor viva.
Un mormorio mal soffocato correva pe’ banchi fitti; che perfino a me parve profano quando uscii per genuflettermi all’altare. Subitamente si fece silenzio. E nel silenzio commosso la mia voce risonò ferma come se leggessi a scuola, con esatta pronunzia erasmiana, la prima pagina dei Memorabili. «Eὐλόγησον, δέσποτα.» Sentii il fremito increspare la corpulenza parata. Sentii la collera sorda della bigoncia travasarsi nella mensa dell’altare.
Imperterrito continuai a rispondere nel greco del Crisostomo, dalla irene superna, dalla irene del mondo, dalla salute delle anime in terra, dalla prosperità delle sante case di Dio e dell’universale episcopato degli ortodossi ai piissimi tutelati da Dio imperatori, a tutto il palagio imperiale, a tutto l’imperiale esercito. Kύριε, ἐλέησον.
Se non caddi incendiato, se incenerito non rimasi mucchio al destro o al sinistro corno, se non mi disciolsi in fumo come nell’incensiere il belzuino, per certo io sono incombustibile. E, a ogni sguardo dell’officiante, mi pareva di partire una certa gloria cocente con il dispettoso del terzo girone. Come Giove, il Signore della messa stancava il suo fabbro di folgori. Kύριε, ἐλέησον.
Ma già dietro me venivano a inginocchiarsi i comunicanti comunicantes de altari. E un’angoscia improvvisa mi serrò i precordii, mi montò alla strozza; ché, pur tanto forte e tanto animoso, non potevo io non abbandonarmi a que’ moti sùbiti e caldi come il rossore involontario, come il singhiozzo convulso. E forse il mio vero nome mistico era quello graffito, nel cimitero di Callisto, sopra l’intonaco che riveste il pilastro delle porte, prima d’entrar nella cappella di Sisto e de’ papi. Sancte Suste, in mentem habe Repentinum. repentino era forse il mio nome di grazia e d’impeto.
Stetti inginocchiato sul gradino, a paro con gli altri. E ch’io fossi o sembrassi sacrilego non valeva, per lo spirito, in paragone di que’ cancheri che si presentavano a ricevere la santissima eucarestia con le stesse facce inquiete e servili ieri o domani sospese al labbro floscio degli esaminatori indifferenti. Così forte a me pulsava il cuore che credevo averne uno nella nuca, uno a sommo della fronte, uno a sommo del petto. Tremavo nelle midolle, tremavo nel più profondo di me, oscuramente, sotto l’imminenza del mistero annunziato dal rito. Sentivo, nella trepidazione d’ogni stilla del mio sangue, che il mistero eucaristico rinnovava l’offerta di un sacrifizio solitario, del più solitario fra tutti i grandi sacrifizii umani; e che quel pane lieve come un petalo d’anemone era dato all’anima, ed era per entrare nell’anima e per nutrirla senza servirsi della gola, senza il tramite della gola, senza alcun passaggio carnale. Sapere che quel rito, sapere che quel sacramento, che quel segno sensibile voleva significare «la più intima e compiuta comunicazione dello spirito con la divinità in questa terra», bastava a commuovermi nell’imo e nel sommo della mia sostanza, bastava a scolorarmi il viso, a velarmi la vista, quasi a tramortirmi. Anche una volta smarrivo i limiti della mia età e sembravo quasi inarcarmi indefinitamente tra il mio principio ignoto e la mia fine ignota, quasi partecipare della mia culla e della mia bara, quasi riappiccarmi al seno di mia madre e avventurarmi nel grembo dell’avvenire. Sentivo che una grande mutazione era proposta alla mia ansietà d’uomo, come per la grazia battesimale. M’era proposta quasi una ventilazione invisibile della mia foltezza terrena, quasi una seconda immersione della mia fragilità nell’onda dell’eterno. Ecco che il mio amore del gioco e del rischio e della disfida quasi forsennato cedeva d’improvviso a non so che ratto dell’anima. Fra tanti gridi e scherni e clamori e singulti e aneliti e sospiri una voce imperiosa, se bene velata, dominava il tumulto della mia pubertà. Ed ecco che, di sopra a quel mio ardimento sottile e crudele, riudivo a un tratto quella voce della mia anima inebriata di sé e del suo implacabile miracolo. Immortale quod opto.
E, mentre tenevo le palpebre chiuse su l’«eternale ardore» della mia sedizione e della mia vocazione, nella inconsapevolezza di tutto il resto, mi sentii prendere il mento da una grossa mano irosa e tirar giù la mascella perché mi s’aprisse la bocca e introdurre nella bocca, come leccheggio vile a un cùcciolo, la specie eucaristica che si falsò, il pane d’anima che si bruttò, il sacramento indivisibile che in frantume si perse.
Mi curvai sopra l’ostia profanata, curvai la faccia fino in terra, premetti con la bocca offesa il tappeto che scendeva dall’altare. Il rombo dell’organo imperversò su quella oltraggiosa angoscia sollevandola e abbassandola come il vento fa d’un telo lavato e attorto che si divincoli steso nell’aia. Di giù, di sotto la pietra, di sotterra, di più giù che le fondamenta dell’oratorio, di più giù che il mio dolore e la mia umiliazione, irruppe attraverso di me un pianto maraviglioso che mondò della mia saliva triste il segno visibile della divinità mal servita dall’opaco interprete. Immortale quod opto.
Ahimè, non nella Bambocciata della Ciriegia, non nel basso rilievo del sogno sotto la Volta de’ Tintori, non nella cuna materna del fieno maggese, io m’ero sentito tanto estraneo, tanto diverso, tanto rimoto, tanto inesplicabile e tanto incomprensibile.
Anche una volta lasciai che a poco a poco il fondime in me si adunasse e posasse. Poi ridrizzai le corna della mia superbia; intorno a cui si avvolgevano sovente i miei pensieri più nuovi, come le edere e i pampani intorno ai tirsi. Poi mi raggiustai la maschera graziosa del prosante, che messer Messerino m’avea fatta più risentita e più ricca.
Quando l’Arcicappellano volle dalla mia candidezza conoscere di dove mi fosse venuto l’estro di servire la messa rispondendo nel greco di Gian Crisostomo, così mi apersi candido: «Dicono che il cardinal Bembo, e v’è chi dice il medesimo del gesuita Maffei, e anco v’è chi il dice del gesuato Gabriele dell’Annunzio (de’ quali l’uno scrisse in latino la Storia veneziana, e l’altro la Storia dell’Indie, e il terzo vinse condiscepoli e maestri nel traslatare le Istorie del Machiavelli), dicono che essi tre, per non si guastare la purità della lingua latina, avevano supplicato il Papa di poter dire l’offizio divino in greco.»
Queste erano le imputazioni mosse contro a me fanciullo innocentissimo dalla pedagogherìa cicognina, sette come i peccati da capestro.
Ma in verità non erano se non sette allegorie della conoscenza di me, che io ho tratte dalla mia memoria per rappresentarle in quella forma di pittura circolare che in Toscana si chiama «tondo», quale un tempo gli artefici molto ricercarono per disporre le figure in uno spazio diverso dal quadro consueto e per costringersi a inventare un nuovo ritmo. E inventare il ritmo in un tondo è più difficile che in un quadro, come sapevano i Toscani e come io so anche nella mia arte scritta. La Bambocciata della Ciriegia, per esempio, nella invenzione dei ritmi e dei rapporti e degli scorci e nella moltitudine delle figure e nella varietà dei movimenti e nella sapienza delle pause e delle riprese è veramente un tondo condotto di mano maestra, meglio che una tavola stravagante di Piero di Cosimo.
Or come poteva dichiarare da allegorista le mie allegorie il paedagogus paedagogorum con la veduta corta d’una spanna e con la spanna aperta fra mìgnolo e pollice bruttati d’inchiostro melmoso? Come poteva egli ammettere che i miei disordini apparenti fossero allegorie d’imagini invisibili in atto di annunziare il creatore futuro? Come poteva egli concedere che io fossi una grande e singolare energia umana in punto di formarsi e di orientarsi, e che convenisse una certa modestia di rinunzia davanti ai miei enigmi, e che bisognasse lasciarmi solo Edipo interiore de’ miei tanti enigmi perigliosi?
Non riconoscendo in lui nulla di fraterno, nulla di paterno, nulla di superno, non mi degnavo di comunicare con lui se non per la mezzanità del mio mazzamauriello lepidissimo, e linguaio almen quanto messer Messerino.
«Lascia che schizzi inchiostro e poi si mondi.
Superlativi fritti, e mappamondi.»
E il mazzamauriello della mia carbonaia magica, signore delle tarantole cinerine e dei camaleonti neri per forza, lo vedeva con nelle due mani la mannaia a due manichi, la pestaruola da polpette, quella medesima che Cice il manigoldo s’era ricusato di adoperare in mio castigo; e schifava le sue circonlocuzioni untuose, in quel modo che mi stomacavano gli avanzugli del manzo lesso e i mozziconi delle serpi rivomitati dai cicognini enfii.
Il dibattito melenso alfine s’impuntò in indomito inguine, così che io e il mio mazzamauriello credemmo vedere entrare e assidersi a fianco del Seppia la Nencia la Tancia e la Beca tra scandolezzate e ammammolate come all’ora della prova nefanda nella guardaroba irta di biancheria inorridita, clamorosa di balestrucci delatori. E credemmo vedere entrare in qualità di perita giudicessa Madama l’Aia zinnària – quella che le mammelle delle Amàzoni castissima custodiva – scappata in fretta dal Vocabolario cateriniano.
Si aggiungeva un quinto cantare ai quattro cantari di Franco Sacchetti celebranti la Battaglia delle belle donne di Prato con le vecchie?
C’era il caso di veder entrare allora, da un momento all’altro, anche Gorella Gheri scortata da una mezza dozzina di zie materne e paterne; e magar’a Dio anche Alessi nelle vesti di Cloe.
Orazianamente superbo ab inguine il nervo del discorso passò al cece; ché il mazzamauriello, abbandonata l’invettiva contro la polpetta bionda, stava sul cece, come si dice in Becerìa; e della mia iscrizione carceraria si faceva arme buona, tanto più che su la parete della stanza ammonitoria non mancava il ritratto del venerando professore Giuseppe Arcangeli prole dilettissima della Cicogna. Cice e ceci, ceci e Cice, E l’Arcangeli in cornice.
Il rigoglio dell’orgoglio pubere, che fausto alla mia pubertà discendeva per li rami di chi m’avea così potentemente stampato, ecco che mi doventava non so che deformità inopportuna e importuna! Nervus riget. Ci voleva la pestaruola sul dado di macigno o sul toppo di rovere?
Tra Seppia e mazzamauriello, non potendo più sopportare gli aizzamenti della malignità e gli afflosciamenti della melensaggine, mi levai con recisa impertinenza e prosai: «L’afa dei ceci, che giunge fin qui dalla caldaia del quasi cotidiano maritaggio annunziandomi la colma scodella di questa sera, molto opportunamente si mescola con l’asma della Tancia denunziatrice. Cice e ceci, ceci e Cice. Ma Giovan Vittorio Soderini nel suo Trattato della cultura degli orti sentenzia: Una infusione di ceci, beuta che sia, fa risentire la venere ed aumenta lo sperma. Laonde, signor Rettore, omessa la non vergine polpetta, è necessario abolire il cece maritato.»
Allo spirar della cadenza, Cice comparve come quei sicarii spettrali che d’improvviso erompevano dalla perfidia de’ muri nelle camere dei tirannelli di Romagna. E, come già nella Piazza di San Pietro quando veniva eretto l’obelisco per forza di canapi, risonò nell’officio monitorio l’ammonimento papale: «Acqua! Acqua!»
Brevi parole sommesse corsero fra il carceriere infermiere e il pedagogo dei pedagoghi. Nervus riget Perfusio friget. Traslatato in consonanza latina pareva ritornare dal fondo de’ secoli un precetto solenne di Anassimene da Mileto o di Democede da Crotone o di Eurifone da Cnido o d’un qualche maestro ignoto della scuola di Coo precursore d’Ippocrate; e forse un precetto olimpiaco d’un di que’ medici da palestra che regolavano il regime nei ginnasii e morigeravano gli eccitabili efebi: forse d’Icco da Taranto, forse d’Erodico da Selimbria. Questo mi piacque imaginare piuttosto che persuadere l’orgoglio della mia pubertà a patire la sorte del pontificio canapo. «Acqua!»
Come uscimmo, il mazzamauriello sgranava le sue risa dure sotto il mio passo così che non sapevo bene s’io calcassi perle o ceci, ceci o perle.
E, pur in quella specie d’ilarità scontrosa, troppo mi parve triste e grigio quel frigidario da convitto gesuitico, che non mi raffigurava né le terme di Domiziano né le stufe medìcee né il bagno di Paolina Borghese.
Continuava tuttavia a sgranar le risa «ritonde» il genietto della mia casa natale: un che tra il lare fuggiasco e lo spiritello furace. E le risa rompevano lo strepito della cannella frigida, ch’essa medesima pareva attonita di servire a quella penitenza corporale dimandandosi: «Mortifico? vivifico?»
Mentiva il precetto della scuola di Selimbria; della scuola di Coo fallava la regola.
Scotendo il suo gran capo rossastro di boia incotto e strinato all’incendio della Bastiglia, o d’un battifolle nostrale, non senza un’ombra di deplorazione doverosa e non senza un bagliore d’invidiosa ammirazione, se n’andò.
S’allontanava per gli anditi bianchi verso la rettorìa. Correva al rapporto. «La sa, sor Rettore? L’ho proprio a dire? Gli è peggio!»
M’era venuta addosso una tristezza tanto inquieta che non sapevo più fermare alcun pensiero né ravvisarlo. Mi pareva d’essere una ruota volubile e rovente che nel suo àmbito vaporasse tutti i pensieri come gocciole. Anche il mio volere vacillava in una perplessità più straziante d’un battito di cigli vano contro il bacino rosso tenuto per forza innanzi agli occhi di colui che dev’essere abbacinato. E incominciavo così ad avere e a svolgere in me un sentimento lirico del contagio umano, del malefizio umano, del fascino bestiale. Sul banco della scuola avevo tenuto fisso il mio sguardo nello Sguazzalotro con tanto acume ch’egli ne appariva smarrito e quasi intimidito. «Perché mi guardi così? Che significa?»
Ero ben io inteso a comprendere quel che significasse in quel fervore di mia vita l’intrusione di quel figuro impudente. Ero ben io inteso a comprendere da qual sinistro potere di esperienze fatali fosse inviato verso me quella specie di bécero tentatore. Nell’osservarne l’aspetto losco, nell’esaminarne la crudità plebea, nello studiarne il rilievo visibile, cercavo di chiarire in me quel mio stupore puerile cagionato dalla discordanza enorme tra il vortice del mio spirito e quella fronte angusta senza indizio di raggio, tra la vertigine de’ miei sensi e quel basso arnese ch’era per aprirmi l’uscio del postribolo. Per quale necessità occulta, per quale influsso di stella ignoto, anche quest’altro profondo mistero doveva essere profanato? Soffrivo in un misto d’orrore e di chiarore, come là sul gradino dell’Oratorio quando la mia bocca offesa non aveva osato raccogliere l’ostia sgualcita. E, pur sentendo il maleficio, non ero certo ch’io fossi per esserne maleficiato; ché dentro mi nasceva il primo barlume di quella mia fede ascetica, e talvolta eroica, nella Necessità; onde per l’avvenire doveva essere