Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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LE FAVILLE DEL MAGLIO

ESEQUIE DELLA GIOVINEZZA

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ESEQUIE DELLA GIOVINEZZA

È il mio giorno natalizio, il giorno irreparabile. Di buon mattino, aprendo gli occhi, prima di ogni altra cosa vedo il pugnaletto a passacore che soglio tenere presso il capezzale, un di quegli stiletti acutissimi che spacciavano la vittima in quanto si dice Misericordia! anzi in un fiato, tutto acciaio il manico la traversa e la lama. E m’indugio in una imaginazione sanguinosa, restando supino sotto la coltre, con gli occhi rivolti al tondo che porta inscritto il motto Per non dormire.

Come un’eroina di molte vite per cui le piaghe non bastano a esalarle tutte, come una disperata guerriera di ventura che incredibilmente resista sotto il ginocchio dell’avversario, la giovinezza moribonda ma ancor sussultante riceve alfine il colpo di grazia nella strozza, rende l’ultimo alito.

Mi ricordo: quando volli assumere un’impresa degna ch’io le obbedissi, esitai tra Per non dormire e Per non morire entro la corona di lauro non chiusa; e poi desiderai d’averle entrambe scolpite ai lati di quel sepolcro solitario che amici e congiunti mi hanno promesso alla foce del mio fiume natale. Ma non v’è aroma di fronda apollinea che valga contro la cotidiana morte. E, certo, vi sono giorni in cui men si muore, altri in cui più si muore. Da che lotto e soffro, non mi son mai sentito morire come oggi. Mi sembra di avere alla punta del cuore quel piccolo varco onde gemono le gocciole eguali nella clessidra funebre. Tutto, pensieri sogni ricordi rimpianti, propositi desiderii passioni glorie miserie, tutto vi passa; e non è niente.

Bisogna dunque che io imbalsami alfine il cadavere della giovinezza, che fasciato di bende io lo chiuda tra quattro assi e ch’io lo faccia passare per quella porta, ove lo spettro della vecchiaia è apparso tra i battenti socchiusi e con un cenno quasi familiare m’ha augurato il buon giorno. È apparso e scomparso. Nulla sembra mutato, in me, fuori di me. Non sento alcuna diminuzione vitale, se spio le mie arterie i miei muscoli i miei polmoni il mio cervello. Tuttavia so che lo spettro abominevole è ora nascosto in qualche angolo della casa, dentro un di quegli armarii tarlati, dietro quel mucchio di cartapecore, forse tra quell’oriuolo da polvere e quel cero lacrimoso, nell’ombra perfida. È il nuovo ospite. Scacciarlo non potrò; ma domani forse lo dimenticherò vestendomi di quell’acciaio che ogni mattina suol fabbricarmi il mio coraggio; ché ogni mattina, come Alfonso di Ferrara, ei fabbrica «un bonissimo acciaio».

Ma stamani m’ha abbandonato. È la peggiore delle tristezze per un combattente. L’ho provata due o tre volte nella vita; e, se la preghiera mi giovasse e se io fossi per pregare il mio dio, non gli domanderei se non di risparmiarmela.

M’indugio nel letto, come se non valga più la pena di levarsi. Volgo il dosso alla luce; sento l’inerzia divenire d’attimo in attimo più greve. Non penso se non al mio corpo e, pensando al mio corpo, non penso se non alla morte. E questa mi par di conoscere come conosco la mia statura, il colore dei miei occhi, la forma delle mie mani. Mi pare che, con un poco d’ardimento, la mia anima potrebbe scoprire l’ultimo fondo del mistero. Ma l’anima s’è come rimpicciolita, s’è come ritratta, simile a una di quelle creature neghittose che torpono sotterra avviluppate in sé stesse. Non v’ha più in lei né ansietàtumulto, né impeto alcuno; ma mi lascia ella padrone intero della mia spoglia. E io posso con l’imaginazione rinnovare in me quel senso della rigidità letale che tante volte mi piacque di esperimentare su la riva del mare lasciando che il flutto mi voltolasse, mi gettasse tra schiuma e sabbia, poi mi riprendesse come riprende la salma del naufrago per rigettarla ancóra. Mi torna nella bocca l’amaro della salsedine, che è come il gusto dell’annientamento. E mi si dileguano tutti i polsi; e non sono se non una povera cosa, men che una buccia, men che un cencio; e due imagini di morti, espulse dall’ultimo battito della memoria, mi si stendono a fianco: un cavalleggere ucciso dal calcio d’un poledro maremmano, che in un giorno lontanissimo vidi trasportare all’infermeria del mio reggimento e poi adagiare su un’asse, coperto d’un panno il guasto del capo; un tisichino, all’estremo della macilenza, non altro che poca pelle su meschinissime ossa, non più grande d’una carogna di scimmiotto, deposto su la tavola anatomica ove due scolari motteggiando facevano esercizi d’allacciar le vene, che gli ritrovavano facilmente.

Ed ecco che il domestico entra nella stanza e col suo solito gesto pronto, quasi aspro, spalanca le imposte. Come non mi muovo né lo interrogo, esce senza far motto.

Ora, a traverso il rosaio che inghirlanda la finestra, il mattino sembra verzicare come le fogliette. Il damasco verde delle cortine palpita vivido come un gonfalon selvaggio.

Odo schianti fievoli come di legno che si risenta, di vetro che s’incrini. I piedi scalzi d’una creatura ignota non salgono dal giardino su per i gradi di pietra? Chi si sofferma sul ripiano? Ancóra io non so chi sia; ma il mio cuore già l’ha riconosciuta, perché si allarga e sobbalza.

Non apro gli occhi, ma copro con entrambe le palpebre la vita che rifluisce in me. Leggermente la copro, parendomi che, se io le serrassi entrambe a premere, la vita traboccherebbe come la tazza colma in cui caddero due lacrime dell’anima bella che se la recava alle labbra.

Una pagina crepita come se un dito di madonna la volgesse. Certo è una pagina del quaderno di Giovanni Maroni ferrarese, che sta sul leggìo del coretto: una pagina della musica a cinque voci: «Il fior novello».

Mi sembra che il piccolo virginale dipinto, sensibile come un amante abbandonato, sia corso da un fremito subitaneo. S’è ella seduta e l’ha preso su le sue ginocchia per accompagnarsi? Credo che fra le Cantate da camera a voce sola di Giovan Battista Mazzaferrata ella sceglierà quella che incomincia: «No, no, non ti doler».

Anche mi piacerebbe quella del Crivelli: «O vita, o cara vita». Ma ella ne canta una di cui mi ricordo se bene non l’ho intesa mai. È ella veramente seduta nel mio coretto circolare che da un lato porta su la sporgenza del dossale le più leggiadre stampe del Canzoniere di Francesco Petrarca e dall’altro le più gentili dell’Aminta di Torquato? O trascorre ella dal magno Céceri alla collina dell’Incontro, da Poggio Gherardo a Castel di Poggio, da olivi a cipressi, da cipressi ad allori?

La Primavera!

Forse in questo punto mia madre si sveglia; e il suo cuore anela verso il figliuol prodigo, prima che il suo pensiero si formi e l’ombra del suo sogno si converta in pena. Vorrei che oggi ella smemorasse, vorrei che non si ricordasse ch’io compio gli anni. Come potrebbero oggi i suoi vóti non oscurarsi di malinconia e forse di stupore? Tanti anni già, tanti eventi, tanti travagli, tanti ritorni, tante dipartite! Certo, se si ricorda, stupisce; inchina la bella fronte e, con quel gesto di quasi fanciullesca ingenuità ch’io le conosco, prova su le dita se tornino a novero.

Sì, ahimè, tornano. Ma per lei io non sono se non due volte ventenne; ché nelle mie visite troppo brevi ella non ha il tempo di riconoscere i tristi segni, ingannata dalla gioia luminosa degli occhi e dalla voce che verso lei si fa più fresca e più limpida come quell’acqua che sorge di più profondo. La mia infanzia la mia puerizia la mia adolescenza son rimaste intatte, come tre piccole Belle addormentate, sotto il vecchio tetto, fra le vecchie cose immobili. Quando arrivo, a troppo lunghi intervalli, tutt’e tre si svegliano; e mi sembra che ciascuna mi dica le stesse parole della Principessa al Principe grazioso: «Ah, come vi siete fatto attendere!» E siamo fidanzati. E ciascuna ricomincia a vivere e a sorridere, nella vita e nel sorriso di mia madre. Ciascuna ha una sua lunga storia, che mi racconta con le labbra di mia madre.

Un tratto della mia infanzia mi piace ancóra. Quando avevo qualche malanno, quando mi doleva il capo o mi si gonfiava una gengiva o mi s’ammaccava un ginocchio, e anche quando avevo in me il principio di un male più grave, divenivo taciturno e selvaggio. Senza dir parola né far lamento, mi ritraevo nella mia stanza e mi mettevo a sedere sul gradino d’un inginocchiatoio ch’era accanto al mio letto. Credendomi ai soliti giuochi, per alcun tempo i familiari non mi cercavano. Se una delle mie sorelle veniva a raggiungermi e mi domandava che avessi, rispondevo aspro scacciandola. M’accadeva talvolta di vedere l’oscurità del vespro entrare pevetri, la stanza riempirsi d’ombra; e, per non muovermi, dominavo lo sbigottimento. Qualche sera, su l’inginocchiatoio, cominciavo a battere i denti, preso da una febbre improvvisa; e non mi movevo ma mi rannicchiavo come un cùcciolo. Udivo il mio nome chiamato per le stanze lontane; e una grande ira mi gonfiava il piccolo cuore. Qualcuno entrava rischiarando il buio. «Ah, sei qui?» «Sono qui.» «Perché?» «Perché voglio star qui.» «Che hai?» «Nulla.» «Non vuoi venire a cena?» «No.» «Ti senti dunque male?» «No. Sto benissimo.» «Non è vero.» «Benissimo.» «ScottiIroso, scansavo la fronte, respingevo la mano. Soltanto la dolcezza e la pazienza di mia madre mi vincevano. Con le ciglia aggrottate, con i denti stretti, con le pugna chiuse, mi lasciavo spogliare, mettere a letto. Allora ficcavo il viso nel guanciale, non rispondevo più, non mi volgevo più, tutto avviluppato e contratto intorno al nodo del mio cruccio, simile a una bestiola ferita cui la sua tana non sembri abbastanza fonda.

Questo tratto mi piace. E negli anni di poi, a scuola, fui contento di ritrovare qualcosa di simile a quel mio selvaggio pudore in una usanza d’infermi e di vecchi mentovata da Erodoto. Non risorgeva in me dianzi il sentimento medesimo, quando giacendo volgevo il dosso alla luce, disposto a scomparire nell’estrema solitudine?

Forse stamani, più che negli altri giorni, le Belle addormentate sotto il mio vecchio tetto mi aspettano. Come vorrei risvegliarle anche una volta e riudire le loro lunghe storie! Ma una Malinconia, che ben le conosce e mi conosce, abita men lontano, in una certa strada fiorentina, laggiù verso Santa Croce, dove potrei ritrovarla.

Se andassi? Non scorgo più Firenze. Anche la città si nasconde. Per tutto il corso dell’Arno, sotto le colline, s’alza un vapore di perla e si propaga. Le colline sembran quasi svenire. Le più lontane sembrano sul punto di solversi nel vento. Laggiù confuse le torri e le cupole vacillano come se gli Angeli di Frate Giovanni le sollevassero agevolmente con l’apice delle ali per trasportarle oltremare. Sempre più s’attenuano; si perdono; transitano chi sa dove. Non resta se non un lento vapore, e un grande scampanìo che lo culla. La campagna invade tutto; dov’erano le fondamenta, pone le sue radici. Ha un aspetto leggero e snello, perché i rami sono ancor nudi. Ma i rami hanno il colore del desiderio, qualcosa di anelante. Le gemme si gonfiano come le ghiande carnose nel collo degli iddii caprini. Certe viti son legate a pali secchi; e, se bene il loro aspetto non differisca dal sostegno, lo sguardo sente qual dei due legni sia morto e qual sia vivo. Ecco un sarmento quasi roseo! Il bove aggiogato, che fulge come l’altura della Vallombrosa coperta di neve, lo cimerebbe se non avesse le froge chiuse nella gabbia di vimine. I potatori appoggiano le scale ai tronchi, sufolando. Le vermene scoppiano dal taglio intriso di mastice rosso, nell’olivo innestato. I salci sembrano capellature irte color rancio, ch’è il color della fiamma nel giorno. Il bronzo novo delle coccole riluce nei cipressi. L’oro giallo del lichene orna i nodi delle viti che simili a corde rudi allacciano gli oppii pazienti del peso futuro.

Belle sono le cose vicine, ma le cose lontane sono ancor più belle. La collina dell’Incontro, con le sue selve rossigne di querciuoli, è delicata come il fiore di certi scopeti; e per entro il morto delle foglie vecchie si scorge il tenero verde. Sembra ch’ella intessa nell’orlo del cielo non so che materia tenue egualmente e spirabile. Anche le nubi filano e tessono bianca lana su i rami più alti. Le voci del lavoro sono infinitamente soavi come se non l’aria le riceva ma uno spirito d’amore; e i colpi dei ronchetti e delle cesoie sembra che non facciano alcun male. Gli uccelli hanno ancóra le prove dei loro concerti; s’intonano, si accordano, sminuiscono. Ma ecco che il vento s’alza come un sinfoniaco e, conducendo tutti i suoni, fa del mondo una sola musica. Tremando per la terra i fili del grano verde e le loro ombre esigue, l’infinito vibrare sembra rendere visibile quella musica. Né si distingue il filo dalla sua ombra. Nulla più è materia; tutto è intervallo e pausa. Sol mancava alla terra l’umidità dello sguardo. Ed ecco che una vicenda della luce palesa i solchi pieni d’acqua piovana, le vasche i serbatoi i fossi colmi: specchi del cielo e dell’anima, illuminazioni dell’estasi.

Così la primavera mi conduce per mano a quella strada cittadina ove abita quella Malinconia ch’io vi lasciai giovinetto. O platani spaziosi, antichi amici degli atleti e dei filosofi, propizii ai bei movimenti e ai bei pensieri, riconoscete oggi in me quel chiomato scolare pratese che si fece rivale di Frate Filippo nell’amore di Lucrezia Buti? Alzo gli occhi; e vedo la torre quadrata della Zecca vecchia, quasi ferrugigna, con sul davanzale della sua finestretta alta due vasi di basilico. La strada è . Quella è la sua vera bocca, che respira tra il viale arborato e la pescaia d’Arno. È spalancata e sgombra. Nell’estate il vento vi spinge la polvere; nell’autunno, le foglie morte dei platani. Ora essa è chiara e tranquilla. Non aspetta nessuno, ma è disposta ad accogliermi.

I cittadini per solito non si curano di sapere come viva una vecchia strada, come s’addormenti, come si risvegli, quando si ecciti, quando si acquieti, dove sia più sonora, dove più sorda, da qual parte sia più sensibile o più pensosa, per qual verso più ami essere percorsa, quali consuetudini o quali ritmi vi determini la distribuzione del sole e dell’ombra, in quale ora la sua anima sia più attiva o più ricca o più fluida, in quale il suo passato più la òccupi e dòmini, in quale ella sia più favorevole al nascere delle forze novelle. Tra i libri che non scriverò perché mi rincresce di separarne la sostanza dalla pienezza della mia vita cotidiana, è il ritratto compiuto di tre città italiane della provincia, come Perugia Ferrara Siena, o tre altre belle con cui abbia io avuto commercio di studio e d’amore, trattato come, per esempio, Iacomo Palma el Vechio trattò Le tre sorelle del Museo di Dresda, con tre volti parlanti e sognanti. Io so di ciascuna in quale delle sue piazze e delle sue strade batta il suo polso o s’addensi la sua tristezza o s’incurvi il suo sorriso o s’illumini il suo pensiero.

Ecco la strada della mia Malinconia. Una popolana l’attraversa, conducendo per la mano un bambino moccioso che fiotta. Come a concludere una conversazione protratta, ella si volge verso un’altra donna che sta su la soglia d’una porta, e dice sospirando: «Chi s’enno trovi e chi si lasceranno!» La sua voce mi tocca; e la sua parola è piena di destino, prolungata dal lamento infantile. Ma ella non è viva ed eloquente com’è viva ed eloquente per me ciascuna di queste pietre immote.

È questo il Corso dei Tintori. Quando già segnato dalla sorte, in età di nove anni, passai dal remoto e inculto Abruzzo in terra di Toscana, accompagnato da mia madre e da mio padre, qui feci la mia prima sosta giungendo, presso la Volta ov’è la Madonna in tabernacolo e la lanterna. Nell’angolo dell’altra casa verso Arno era un altro tabernacolo, più piccolo, con l’inscrizione Sine macula. Ora nel libro della mia memoria si trova una rubrica, la quale reca quelle due parole.

L’ombra cade mentre mi dispongo a deciferare quel che si trova scritto sotto la rubrica. Il sole è disceso dietro San Miniato. Splendendo ancóra di perla il sommo del cielo, dalle vette delle colline sembra sgorgare in copia il liquido azzurro e spandersi. Sembra veramente che le colline esprimano l’azzurro, come la mammella della dea versava quel latte celeste onde si formò Galassia «tra’ poli del mondo». La luna è nel primo quarto, esilissima: tanto esile che, se lo sguardo la smarrisce, pena a ritrovarla. Quel ramicello secco basta per nasconderla! È come un misterioso volto di cui soltanto il mento sia di sotto rischiarato. Ora odo le pescaie d’Arno, le mulina di Rovezzano. San Miniato serba il suo nimbo. A un tratto, su tutta la campagna è un inatteso aumento di luce, come se un novo astro sorgesse. I muri lungo i poderi, le case le aie i vivai le vasche i fossi colmi splendono d’uno straordinario candore. Il silenzio è una materia raggiante.

Penso che per qualche cammino profondo passi la Morte irta di lauri, forse giovine e leggera come quella Vittoria che s’allaccia il sandalo nel tempietto ionico dinanzi ai Propilei. Una melodia di Francesco Vannozzo mi suona nella memoria:

Che del suo lume ogni anima è vestita.

Ecco una bella ora da porre alla fine d’una vita intrepida. Sembra che tutto in me e fuori di me si disponga a ricevere la grande visitazione. Stamani non pensavo se non al mio corpo, stasera non penso se non al mio spirito. I piedi scalzi d’una creatura ignota non salgono dal giardino su per i gradi di pietra? Chi si sofferma sul ripiano?

Non la Primavera, che già soffre il gelo crepuscolare. Tutto par candido anche dentro di me, e tutto s’agghiaccia. Chiudo le palpebre sopra il mio dubbio brivido. Il passo pieghevole s’approssima. Qualcosa di umido e di tiepido lambe le mie mani nude.

Sobbalzo, sorrido. Due grandi occhi soavi di fanciulla, pieni di pagliuzze d’oro come due pietre venturine, mi guardano innamoratamente, rilucendo in un marezzo di raso bianco che ha la magnificenza della vesta di un’Infanta.

È Dannissa, la mia levriera prediletta, la più graziosa creatura dell’universo; che mi rende l’amore e l’ardore della vita.

12 marzo 1903 in Settignano di Desiderio.




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