Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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LE FAVILLE DEL MAGLIO

DI UN MAESTRO AVVERSO

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DI UN MAESTRO AVVERSO

Alla foce del Motrone, nella Versilia, il giorno dopo la morte di Enotrio.

Non ho mai veduto un giorno più candido, né posseduto un cuore più pacato. Le sabbie son più chiare che nell’estate colma. Le acque del Motrone stagnano tra giallicce e verdastre, ma l’urto della maretta le fa rifluire con un rincrespamento luminoso. I pini immobili sembra si consumino nella luce per le vette colorate di quel color bruno che «procede innanzi dall’ardore». Di fronte alla foce si leva il torvo Gàbberi con la sua cima senza neve. Dietro la catena rossastra, le sommità delle Alpi nevate splendono senza macchia come le statue scolpite di recente. Raro s’ode sul rombo eguale del mare il grido di qualche uccello dileguante. Se ascolto, distinguo il romore che fa nel fiume il rifluire delle ondicine. Sul lido neréggiano stormi di cornacchie, che di tratto in tratto s’alzano con un crocidar sommesso, poi si posano più lontano, breve favellano tra loro, ammutoliscono, covano la loro ombra funesta. Per ovunque è sospesa una pace che è come l’incantamento d’un Transito dalla terra al cielo.

Non m’ingannai pensando che qui dovessi attendere in silenzio lo spirito del poeta ritornante al luogo natale. Laggiù, intorno al suo cadavere, una gente diversa che in vita gli leccò le mani o gli addentò le calcagna, egualmente vile, si affanna a soperchiare il maschio e composto dolore dei pochi. D’ogni pur sciocca ingiuria egli si adontò in vita; ma più s’adonterebbe di tanta postuma lode se risollevare potesse quel capo che fu irsuto e cozzante. Non so se la mia attitudine publica potrà esser pari al mio sentimento vero; ma la cagione della mia tristezza non è la sua morte, sì bene il modo del suo finire. Il fato gli fu ingiusto e negli anni verdi e nel colmo della vita e nella vecchiezza. Pose una grande anima di guerriero su due gambe titubanti; gonfiò d’un gran soffio bellicoso un collo che per solito era strozzato da una scarsa cravatta notarile; condannò al legno stantìo della cattedra, al lezzo della scuola cancherosa, colui che aveva sognato di somigliare il gladiator tirreno e di cader supino bevendo l’aura del combattimento; ridusse in fine alla più desolata impotenza, all’onta del balbettìo fioco e delle lacrime irrefrenabili un uomo degno almeno di ricevere dall’inneggiata Diana col dardo subitaneo «la buona morte».

Poco io lo conobbi; molto lo amai, d’un amore accorato, per la forza di passione e di malinconia ch’era in lui. So ch’egli non mi fu benevolo se non in rari istanti, per commozione fugace, quando la sua prepotenza irosa erasi affievolita. Non mi sentii mai prossimo a lui nell’affetto, né concorde, ma sempre d’un’altra specie e d’un altro ordine. Se io sapeva comprender lui, egli non poteva comprender me.

Io ebbi talora una commiserazione filiale della sua grande anima scontenta, e profondamente soffrii di non potergli dare una qualche gioia. Ma credo ch’egli non avesse verso me se non inquietudine, sospetto, disdegno mal dissimulato, forse fittizio dispregio. La mia vera virtù non gli apparve mai. La sua lode publica non mi venne se non per una canzone di struttura scolastica, di sonorità usuale, di numero oratorio; e tal lode che poteva parere ambigua ai sottili. Quando lesse la Salutazione che conclude la Laus vitae, mi scrisse una lettera piena di triste modestia con la mano tremolante che non aveva già soppesato quel volume novissimo a cui si raccomanda il mio nome nel tempo.

Tuttavia il sentimento ch’ebbi della sua umanità fu sempre denso di luci e d’ombre patetiche. E i suoi occhi, ch’eran piccoli e senza bellezza, nella mia memoria si abbelliscono di quel non so che intento rammarico onde li scorsi aggranditi quando si fisarono in me la prima volta. Per un gioco grazioso della sorte io gli sembrai balzare improvviso dalla mia stessa poesia, quasi invertendo la metamorfosi di quei favoleggiati adolescenti che s’includevano in un arbusto o in un fiore.

Ch’io mi dissolva, che come Percy Shelley io mi trasmuti sotto questo mare «in qualcosa di ricco e di strano», prima che la Natura vinca in me la volontà indefessa d’esser giovine ancóra!

O Despota, ei sarà giovine ancóra.

Dagli le rive i boschi i prati i monti

i cieli, ed ei sarà giovine ancóra!

Ch’io non sperimenti la malattia ignobile, la pesante vecchiezza, la vergogna della tarda carne superstite allo spirito dimezzato o estinto.

In quel tempo, io aveva in me lucido il presagio che mi sarei partito dal mondo prima del mio trentesimo anno, come quel Keats del quale un emistichio simile a un grido è inscritto sul frontespizio del Canto novo. Dopo, animale accomodativo come ogni altro uomo, soffersi d’oltrepassare quel termine per nove anni ancóra, illuso dalla sensualità sempre più vigile e dal sempre più ansioso amore dell’opera. Ogni poeta che fu diletto dalle Cariti conosce, ahimè, lo specchio votivo di Lais.

Poiché vedermi non voglio

qual sono e vedermi qual fui

non posso, a Te sacro il mio disco…

A Te, Arte; a Te, Gloria. Ma da che cosa potrà mai l’anima esser consolata del non più abitare un corpo di venticinque anni? Non io darei forse il più robusto dei miei libri per rinnovare in me un’ora della freschezza primiera?

E tutta la vita è in noi fresca

aulente,

il cuor nel petto è come pèsca

intatta,

tra le pàlpebre gli occhi

son come polle tra l’erbe,

i denti negli alvèoli

son come mandorle acerbe…

Tra i miei ricordi penosi è il giorno in cui, dopo più di vent’anni, mi ritrovai alla presenza di Edmondo de Amicis incanutito. Il quale, non avendomi veduto se non una volta sola, aveva serbato di me nella memoria quella lontana imagine quasi virginea che poi con tanta bontà si piacque di rappresentare nell’unica prosa affettuosa e onesta ch’io abbia inspirata a un letterato italiano. Come i suoi caldi occhi schietti cercavano di riconoscere i lineamenti primitivi nella mia pallida maschera travagliata dagli anni, dalle fatiche e dalle passioni! Nell’assiduità della mia guerra, nella rapidità dei mutamenti, nella necessità di esaltare ogni giorno la mia energia contro il rischio incessante, avevo dimenticato quanto già profondamente io fossi leso dalla vita. E in quel giorno, d’improvviso, la miseria della carne mi pesò come se in un attimo una sventura spaventosa m’avesse invecchiato. Parlavo; e, sentendo omai passare ogni parola viva tra i denti non più sani, cercavo d’infondere più di fiamma al mio dire, quasi per nascondere sotto lo spirituale ardore il mio volto disfatto. E mi rammento che l’amico mi credette febricitante. «Ah, perché non posso io partire stasera per la mia Missolungi, e non di febbre ignava perire ma di fiammanti feritepensai, disperato di vivere, mentre egli aveva i buoni occhi velati di lacrime evocando il suo ventenne figliuolo suicida e la predilezione di questi pel più sconsolato dei miei libri.

Ora appunto egli m’aveva conosciuto intorno a quel tempo in cui, inaspettatamente, io m’incontrai col poeta dell’ode Per la morte di Eugenio Napoleone. Ero quale egli dopo mi rappresentò, strano fanciullo in un misto di timidezza e d’ardire, tanto irrequieto e spedito che per solito entravo nella stanza dei miei amici come una apparizione senza romore o come una irruzione precipitosa.

Credo che quella mattina io salissi a gran balzi le scale della Cronaca bisantina per la speranza di sorprendere una donna magnifica e illetterata che allora teneva in soggezione tutta la pleiade giovinetta. Come spinsi forte l’uscio, un po’ ansante, e mi guardai intorno, scorsi china a una tavola una gran fronte selvosa che di sùbito si sollevò con un moto risentito; e di sotto n’escirono due punte aguzze, ch’eran gli occhi. Angelo Sommaruga dalla stanza attigua si fece alla soglia e disse: «Ah, ecco il d’Annunzio!» E dinanzi al mio sbigottimento, una sghignazzata chioccia agitò il pomo d’Adamo nel lungo collo.

Egli aveva dato al terribile giudice le bozze del Canto novo; e il giudice era in atto di volgerle con la mano usa alla saetta. Io mi copersi di rossore, e non ebbi fiato; ma non distolsi lo sguardo dallo sguardo in me fisso. E, per quell’intuito precoce d’ogni animalità e d’ogni spiritualità ch’era in me fin d’allora lucidissimo, per entro quei piccoli occhi di cignal maremmano accanito vidi fluttuare la rimembranza de’ duri e angusti giovani anni non rotti se non dai «sogni lacrimosi». E tanta era allora la gentilezza della mia natura ch’io ebbi quasi un moto di pudore come per celare o velare, dinanzi a quel rammarico, la corporale armonia che irradiava di felicità tutto il mio essere ed erasi trasfusa nei ritmi balzanti del mio poema.

Egli teneva nella sinistra i fogli, quasi abbrancati, e il pugno destro premeva su la tavola, in una di quelle sue attitudini consuete per cui manifestava a ogni tratto un umore che Giovanni Villani avrebbe chiamato «bizzarra salvatichezza». La nobile nervosità delle sue mani contrastava con la struttura popolesca dell’altre membra; che componevano un misto d’impaccio e di potenza, di violenza e di titubazione.

Non era alcun vestigio romano in lui; ma poteva egli ricordare quegli Etruschi dalle gambe smilze e dallo stomaco prominente che si veggono accosciati su i coperchi delle urne funerarie. Pareva che la tenacia della bocca risalisse alla fronte. A simiglianza dell’Alighieri, aveva egli le labbra sottili e serrate, ma curve in giù agli angoli come quelle che coprono una dentatura atta alla forte presa e tale che, quando afferra, non lascia più. Similmente l’appiccatura dei capelli, folta su le tempie fin verso l’estremità del sopracciglio, pareva serrare lo spazio della fronte e quasi disporla ad attanagliare il pensiero, a tenerlo ben fermo perché l’arte poi lo intagliasse e polisse. Di poca lunghezza il naso, di nari sagaci, ma tocco da non so qual colpo di pollice che tentato avesse di volgerlo in su, interrotto nel tentativo dalla fierezza degli altri lineamenti. Fierissima la mascella e ampia, che il pelo crespo alquanto e incolto copriva sin a mezzo il collo spesso e corto annodato da una cravatta sottile come un capestrello. L’acredine del sangue, già avvelenato, colorava le gote, accendeva le orecchie ch’eran piccole, di fine disegno, nobili come le mani. Sovente, con un colpo brusco, soleva alzare il mento, volgere il capo dall’una all’altra banda, come per smania di rintuzzare, di cozzare, di tener testa a una canizza invisibile. Figura toscana d’uomo di parte e di crucci, affocata dalla passione civica e dal vin frizzante, aspra e franca, che Donatello avrebbe figurata in terracotta dipinta, col collo nudo fuor d’un drappo scarlatto, strapotente di carattere, come il busto di Niccolò da Uzzano.

Dietro il suo capo, su la parete grigia, erano scritte di suo pugno le terzine d’un sonetto non mai compiuto.

Quanta messe di sogni e di ricordi,

gin, infido licor, veggo ondeggiare

nel breve cerchio onde il mio gusto mordi!

O dolci selve di ginepri, rare,

a cui fischian nel grigio ottobre i tordi,

lungo il patrio selvaggio urlante mare!

Le rime sfondavano la parete, creavano il vento il rombo e la vastità, come quando nel triste collegio pratese leggevo di nascosto l’ode recente del Rinnovatore e il grande afflato della Camena pareva diroccare le mura dell’aula chiusa, rovesciar la cattedra del grammatico.

Egli continuava a guardarmi, senza dir motto, assorto in non so qual sogno o qual ricordo remoto. La natura aveva posto in me una semplice grazia che lo rasserenò. Sorrise alfine, ed esclamò giovialmente: «Thàlatta! Thàlatta

Era il grido d’una mia strofe asclepiadea. Il cuore veramente mi balzava in petto come al Coribante. Quando lo vidi volgere i fogli e porre gli occhi su una elegia, feci l’atto di supplicarlo, invano.

Egli amava il numero, e quello misurare col battito del dito. Sempre lo vedrò in quel gesto di scandere il verso, con l’indice levato. Sempre udrò la sua voce commossa che sosteneva di sillaba in sillaba il distico sino alla cadenza del pentametro. Parve ch’egli confermasse nel mio spirito il dono della musica e sospendesse il mio cuore su l’onda della melodia.

«Thàlatta! Thàlatta!» Ecco il suo Tirreno, il mare d’Ulisse, il mare dei Mille. La sua nobile mano forse si levò ancóra nell’agonia, per scandere su l’orlo del lenzuolo un numero da lui udito, se è certo che il transito dello spirito sia melodioso. E, se v’è un’isola di beatitudine per le anime dei poeti, forse il gesto d’un divino giudice misura quanto di vero e profondo canto fosse in lui, per assegnargli il luogo del gaudio.

Un rogo di legni odoriferi su questo lido gli si addirebbe, come al Cuor dei cuori, piuttosto che una sepoltura in campo santo; e di chiarissima vampa lo nutrirebbe quel rusco che io vidi fiorire di fior violetto su la collina del Ronco sovrastante alla casa ov’egli nacque, chiamato brenti in Val di Castello.

Manderò un ramo di pino alla sua bara, il più irsuto; che non si confonderà nel cumulo delle corone comuni, perché solo sarà consacrato dallo scherno dei necròfori.

17 febbraio 1907.




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