Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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LE FAVILLE DEL MAGLIO

LA RESURREZIONE DEL CENTAURO

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LA RESURREZIONE DEL CENTAURO

Or sono cinque anni, in una pineta finitima al Serchio, apparve l’ultimo di quella stirpe bellicosa che provenne dall’audacissimo Issione «lo quale eragrande, ch’ebbe speranza dell’alta Iuno». Fu prima scorto da un cacciatore che aspettava il cervo alla posta, sul declinare del giorno, fra le canne del fiume etrusco. Era di pelame roano misto di bianco nei crini, balzàno travato, col capo cresputo e con la rossa barba distesa insino allo sterno come quella che portano i suoi eguali scolpiti nel frontone di Olimpia e nella pietra scabra di Trysa. D’uomo era la pelle del suo tronco ma, conciata dalla diversità delle acque e dei calori, somigliava il pallido involucro dei nostri mali come la pigna d’ardente uva tra i pàmpani ricchi a mezzo settembre somiglia il grappolo in serbo che s’affloscia appeso con la cordicella alla trave domestica. Il gioco dei muscoli v’era sotto sì pronto che pur la loro solidità dava l’imagine inafferrabile dei baleni. Mezzo uomo mezzo cavallo ma non mostro appariva l’ospite della selva estiva; ché in quella parte ove l’uomo era commesso al cavallo un miracolo assiduo di vita si compieva senza discordanza, con la perfezione dell’innesto superando la bellezza dell’una e dell’altra forma distinte. E dalla coda alla scapola, dal gomito al garetto, dallo zoccolo alla fronte una sola volontà di rapina e di conoscenza animava coi ritmi della folgore quella compagine carnale d’istinti e di pensieri.

Fraterna tra tutte le creature generate dal suolo mitico! Nessuna ci tocca, anche oggi, più a dentro; nessuna ci sembra meglio rappresentare la più recente delle aspirazioni umane, meglio significare il nuovo aspetto della vita terrestre, poiché l’uomo moderno non è se non un centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio all’energia atroce della Natura. Non nasce la nostra coscienza dal più maschio ardire proteso verso l’estrema idealità, come la prole biforme dall’impeto dell’eroe temerario verso la nuvola sublime in cui egli crede fecondare la compagna stessa del massimo dio? Imaginate le corse precipitose dell’Issionide su la faccia dell’orbe appena emersa dalle acque, ancor vergine e fumida nei mattini remoti. Una insaziabile fame di conoscenza lo incita a misurare tutti gli spazii, a trascendere ogni confine, a respingere sempre verso gli orizzonti i limiti dei suoi dominii che il desiderio supera sempre in grandezza. Emulo del nembo, della folgore e dell’anima sua stessa, egli s’inebria di rapidità, s’affranca dalla triste legge del peso, moltiplica la virtù dei suoi sensi; poiché la rapidità sola alla creatura dalla mano breve l’illusione di sentir quasi palpabile la forma consecutiva della terra immensa. Ora eccolo su la cresta di un’alpe, di contro all’azzurro, dopo la più furibonda delle sue corse. I tendini vibrano ancóra nelle quattro zampe piantate sul sasso, l’ugne sono lorde di loto e di foglie calpeste, i fianchi equini pulsano intricati di vene, il sudore schiumeggia e cola in rìvoli per la groppa calorosa; ma il volto umano si volge pacato a considerar sotto di sé il fremito della forza ferina, ma l’unico cuore sente in sé affluire le musiche del mondo, ma la bocca severa s’inarca a proferire la sentenza della saggezza o l’invocazione della poesia.

Non è raffigurata da quell’attitudine la specie tragica ed ascetica dell’uomo novo che, avendo impresso alla sua propria vita i più terribili impulsi degli Elementi, solleva in sommo il suo spirito per signoreggiare l’eccesso di quella veemenza pronta a travolgerlo e ad annientarlo s’egli per un attimo interrompa la sua disciplina o allenti il suo volere?

Tuttavia quel centauro apparso nella pineta tirrena non era un’idea esemplare ma era un vero corpo bimembre, color di saggina, irrigato di sangue misto, munito di tèndini stupendi, su quattro zampe dalle pastore corte e dalle nocche fioccute, tutto scatti d’archi e di balestre sotto la diversa pelle, col suo soffio e col suo odore, assai più vero di quello che Plinio dice di aver veduto imbalsamato nel miele presso i ciurmadori egizii. Nella memoria di colui che lo mirò son rimasti per sempre i contrassegni. Aveva le pupille degli occhi non tonde ma a guisa di fessure tagliate nelle iridi tra giallastre e verdastre come ambra ove sia prigione il capelvenere; e lo faceva rabicano una macchia bianchiccia su la groppa a guisa d’una foglia di gelso che si ripeteva minore e men pallida su la pelle bruna dell’òmero umano. E doveva quella essere un’impronta ereditaria della progenie, come la «spalla d’avorio» nella discendenza di Pèlope.

Abbattutosi nel cervo appostato dal cacciatore, egli lo assalì, lo espugnò e lo uccise. Il combattimento singolare, già variato nelle metopi dei templi ellenici, si rinnovava non contro il Lapite vindice ma contro la bestia ramosa. Prima che il Nubìgena si dileguasse nel bosco e nel crepuscolo, mentre sollevava la gran bocca a respirare verso il cielo, la Musa repentina gli poggiò il piede su la groppa con l’atto di quella Baccante che preme il centauro dipinto su campo nero nella parete pompeiana: imagine tra le più belle e profonde di tutto il gentilesimo.

Allora il testimone di tanto spettacolo cercò di foggiare un suo poema in una massa di materia ritmica, giusta la simiglianza dei due esseri vivi; e operando riconobbe l’identità della sua arte poetica con l’arte plastica cui tendeva il suo sforzo di rilievo e di saldezza.

O Derbe, la potenza che desidero

è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.

Eternato nel bronzo di Corinto

ti darò quel che i lucidi occhi videro?

Misteriosa virtù del segno scritto, che fa tutto presente! Impreveduti valori delle parole consuete, che la magìa dello spirito alchimizza! Come mai un antico notaro da Prato, Ser Arrigo Simintendi, un mansueto e sedentario dottore, volgarizzando per sua ricreazione la Metamorfosi di Ovidio, poté compiere nella nostra lingua ancóra acerba il più fiero prodigio d’immediatezza espressiva che abbia mai rappresentato il furore della mischia e l’orrore dell’eccidio? Leggete nel libro peregrino «come i Centauri combatterono con Teseo, e con Peritoo, e con Ceneris, e con altri baroni». Chiunque sa che cosa sia tenere in mano la penna non potrà non sentirsi tremare i polsi dinanzi a quelle pagine ove il traslatore ingenuo, superando in sprezzatura e in novità il suo autore, scompone il metro del verso originale nei più rotti ritmi della prosa improvvisa e riesce a sollevare dal campo dei muti segni vere e proprie figure di tutto tondo, grandi corporature piene di ànsito bestiale, irte selve di membra per mezzo a cui l’aria circola e la vampa sibila e vólano mutate in armi le suppellettili del convito e scorre il nero sangue mescolato al vino e ulula raddoppiata l’ebrezza dalla lussuria sotto il calcio del cavallo o sotto il pugno dell’uomo.

Qui veramente la parola è formata di tre dimensioni. E qui si vede come veramente tutte le arti, quando sviluppano la massima energia espressiva, si riducano a quella «unità ritmica» che abolisce il mezzo materiale. L’arte la qualità alla materia, non la materia all’arte. Come il verbo perde la sua inconsistenza, così il bronzo perde la sua fissità. L’imagine statica e l’imagine dinamica non sono create se non da due ordini di ritmi puri.

Ecco che il medesimo impulso, onde fu generato il poema lirico del centauro e del cervo in lotta, si propaga allo statuario; il quale fonda l’opera sua sopra una corrispondenza denotata tra i ritmi mobili dei due corpi e i ritmi immobili della lor rappresentazione nello spazio. Dal rapporto ideale fra i numeri della strofe e i volumi della modellatura nasce una bellezza che porta l’impronta della stessa matrice se bene sembri dissimile.

Questo divinò e attuò un artefice romano dal pollice potente e sprezzante, Clemente Origo; che prima di farsi scultore di statue fu il suo proprio scultore, mirabile esempio di volontà disciplinata e di perseverata aspirazione, per cui si dimostra che anche nell’arte è oggi restituita a onore la prodezza.

Nessuno poteva sentire la vita dell’essere di due forme, in vero, meglio di colui che ha saputo rappresentar con sì maschia energia e impetuosa semplicità l’aderenza del cavallo e del cavaliere negli aspetti monumentali che l’orizzonte dell’Agro ai lineamenti della bestia e dell’uomo. Il poledro irsuto dalla lunga coda che s’impiglia al nodello, il vasto bove degno dell’ecatombe, il bufalo tenebroso dagli occhi demoniaci, il pastore immoto come il pilastro dell’acquedotto, la bestia e l’uomo ancor stampati dell’antichissima impronta, simili ad avanzi di razze primitive, appariscono nell’opera di questo Latino come rivelazioni d’un mondo ancóra involto nel mistero del mito. Ricordate quel suo grande bùttero che cavalca con l’asta su la coscia e sembra non guardare innanzi a sé ma dentro di sé nella nube dei fati ond’è ingombro il cuore immemore? Guata per lui la via il cavallo forte dalla testa montonina. Ricordate quello sguardo senza pupille? Ha qualcosa di divino e di funereo, come lo sguardo della Parca. L’aspro ciuffo spartito su la fronte mi ricorda vagamente le masse dei capelli che fasciano le tempie di Cloto.

Se il bùttero scenda di sella e si ponga presso la spalla dell’animale curvato il collo al pascolo, ecco che si forma la figura arcaica del centauro quale appariva nella cassa di Cipselo, quale è scolpita nel fregio del vecchio tempio dorico di Assos nella Troade: con le gambe anteriori di natura umana.

Questo senso mitico solleva nel nostro spirito alla solennità di un rito l’operazione del getto avvenuta nella notte d’aprile, fra il tramonto e l’alba, sotto la melodiosa collina di Bellosguardo, nelle botteghe di un fonditore pistoiese il quale incominciò ad apprendere l’arte sua fanciullo col fondere i piatti concavi che ancoggi serbano la forma dei cimbali pulsati dai Coribanti a quella madre Cibele cui seguitavan su l’Ida i Dactili idèi gettatori di bronzo.

Quando la poesia illumina la trama della vita, tutto vi traspare come ritorno ricordo concordanza annunzio presentimento.

Un’imagine della specie ideale è , nella fossa buia, nascosta entro l’uniforme camicia di terra, pronta a riempirsi di quel metallo che la farà durevole negli anni. Ed ecco, intorno a lei si genera una sorta di armonia trasmutatrice che volge le più comuni apparenze a significazioni lontane. Un circolo mistico separa dal resto del mondo la nera tettoia che protegge il forno fusorio, nella notte primaverile. Le voci umane s’abbassano per lasciar sola favellare nel silenzio la voce dell’Elemento. L’aria ripalpita d’un’ansietà religiosa come nell’attesa del miracolo. A poco a poco il vigore del fuoco sembra attrarre il respiro degli uomini e costringerli a vivere secondo la sua vicenda. L’attenzione fa simile alla potenza vigilata anche il manovale più umile. Il riverbero arrossa un volto inclinato, accende una favilla in un occhio che si volge, fa di bragia una mano che impugna il ferro adunco, avvampa una tunica di lino non forse dissimile a quella che vestiva l’artiere di Samo intento a gittare il primo bronzo ellenico. Noi viviamo fuori del tempo con un’anima attonita e trepida che vibra secondo quella lingua di fiamma indicatrice della corrente aerea mossa tra il camino e il fornello. Da quante ore il fuoco fatica? Perché tanto è lento a struggersi il metallo? Il maestro guarda il cielo e fiuta il vento, come un veleggiatore alla panna.

È una notte piovosa e tiepida: fa dolco. La pioggia cade eguale nella corte e su la tettoia, senza scroscio. Il tirante d’aria è debole. La fornace non si fredda pei rovesci d’acqua, come nella veglia di Benvenuto; ma arde con poco alito. Non è tempesta, ma calmerìa.

L’attizzatore toglie con un ferro il mattone quadrato dalla bocca della braciaiuola e lo posa a terra tutto rovente, presso la pozzanghera che fumiga e stridisce. Poi al fuoco una nuova bracciata di legna. Subitamente il forno rugge vorace; la vampa chiarissima del pino ragioso irradia le mille e mille corde della pioggia; da tutte le fenditure biancheggia e rosseggia il fulgore prigioniero; le volute del fumo si spandono per le travature della tettoia, strisciano su i cumuli di terra, su i mucchi di mattoni refrattarii, su le crepe le croste le buche delle muraglie. Il metallo si comincia a muovere?

Par che da un momento all’altro debba scoppiare in quel tumulto d’incendio il grido furibondo che in un’altra bottega fiorentina, in una notte remota, «aveva risuscitato e fatto liquido il migliaccio». – Porta qua, leva ! – Ma il fumo si dirada, il ruggito si placa, la rossa lingua del tirante non dardeggia più.

La fossa fusoria è piena d’ombra, ove si muovono con lentezza i manovali taciturni. Seduto sul margine un giovinetto assonnato riceve un mattone da un uomo che gli sta sopra, lo porge a un altro che gli sta sotto, con un gesto sempre eguale e continuo che somiglia non a un’opra consueta ma al sogno lento d’un supplizio eterno. E le catene e le funi e gli uncini dei paranchi gli pendono intorno; e da presso gli nereggiano le portantine dei crogiuoli che somigliano arnesi da costringer pel collo una fila di schiavi. E il gesto è iterato senza forza con le due braccia nude che sembrano a poco a poco impallidire e assumere qualità di larve come nell’Ade. E la pioggia cade, e l’ora scorre, e la pazienza s’aggrava, e la notte si consuma, e l’alba s’approssima. Dove son mai i «gran furori» e il «gran male» e la «smisurata febbre» di Benvenuto?

Questo maestro da Pistoia non par nato del violentissimo sangue ch’empie di crucci e d’ire le stupende Istorie pistolesi. Non par della razza di Vanni Fucci e dello Zazzara e del Focaccia che passavano i giorni a combattere le case «d’ogn’intorno con balestra duramente» e poi ad affocarle con la stipa. Egli è pacato e tarchiato, di poco discorso, prode alla sua maniera, largo di spalle come di volto, con naso pendente, con occhi lunghi stretti e leonini, con fronte incisa di solchi equidistanti, con nere ciocche ruvide come gli aghi del pino scomposte dalle ritrose, color del suo bronzo migliore, sodo e netto in tutte le sue forme, quasi prodotto in rilievo di dentro a sbalzo con cesello e martello sicuri.

Piglia il metallo finalmente il suo calore e si riduce in bagno? Non è ancor pronto il canale? L’altrui impazienza non scuote la tenacia vigilante di Mastro Gusmano di Betto Vignali. Egli afferra una lunga verga adunca e per una buca della fornace tenta il bacino, «lo pugne» come direbbe il Cellini. Tutta la sua figura s’imporpora al riverbero; la verga ritratta arde incandescente in quella mano che sembra incombustibile; il sudore cola per le gote avvampate; il gesto sobrio significa che il nuovo fato del centauro è maturo.

Due manovali gagliardi, ecco, issano l’ultima corba di metallo bruto a sommo della fornace che crepita e croscia nelle sue armature ferrate, mentre per lo spiracolo del tirante si vede lampeggiare il migliaccio liquefatto. I masselli calano a uno a uno dalle mani degli uomini nell’ardore che abbrustica il vello delle nude braccia e abbarbaglia i cigli socchiusi.

Un di noi, per propiziare il dèmone versatile a cui è sottomessa la furia della colata, getta nel bacino una vecchia moneta centaurica di Tessalonica: l’obolo della resurrezione.

Or è sopraggiunta al soccorso Madonna Ginevra del Capretta beccaio con la sua catasta di legna di querciuoli giovani «secchi di più d’un anno»? Il «terribil fuoco» di Benvenuto imperversa e bramisce. Ogni altra voce si tace. Da tutte le fenditure, da tutti gli interstizii, da tutti i forami traspare lo splendore accecante dell’«esterminata forza». Nel canale, che va dalla parete della fornace all’entrata della forma, gli operai mettono carboni accesi, incendiano stipa, per asciugar la terra fresca. Il rigagnolo murato di mattoni, valicando il vano della fossa fusoria, vampeggia e scoppietta. Tutta la tettoia s’affuma, solcata d’ombre indistinte e di baleni. Nel confuso inferno il suono sordo di un ferro smosso ci passa attraverso il cuore vigile, che sobbalza. Un uomo ha tolto il mandriano «che così si chiama quel ferro con il quale si ripercuote la spina» e, per averlo pronto, l’ha portato d’onde è per uscire il bronzo liquido.

Chi è quell’armato ch’emerge ora dal fumo e dalla vampa col capo difeso da un elmetto senza visiera, a larghe falde e a gronde abbassate? È quel da Pistoia, il maestro, ritto copiedi sopra un tavolone posto per trapasso a traverso la fossa. Ora la sua larga faccia severa di sotto alle tese ha tra luci e ombre il crudo stile dei ritratti lavorati in fresco da Andrea del Castagno. E, com’egli china il capo munito e rimane immobile, io ripenso a quell’antico suo concittadino dei Cancellieri Neri, a quel Messer Detto di Sinibaldo che s’ebbe la pietra su la cresta da uno della parte Bianca e «stette per grande spazio chinato sul collo del cavallo, per modo che non si sentia».

Non si sente egli; né v’è intorno a lui tumulto. Il fumo si dirada per le travature; nel canale la stipa si spegne. Carponi sul ponticello murato due uomini rinettano il rigagnolo dalla bragia e dalla cenere soffiando e spazzando. Un altro uomo sta in ginocchio di contro alla parete della fornace e tiene in pugno il palo di ferro che deve sprigionare con la percossa la forza conflàtile. Scocca l’ora del prodigio? Il rito si compie?

Mastro Gusmano scendendo dalla palanca mette i piedi su la rivestitura di terra che involge la forma. Lo vediamo ritto, dalla cintola in su, dinanzi alla bocca che è pronta a ricevere la colata. Egli regge con ambe le mani nude una leva commessa al turo che regola il versamento del metallo. Di sotto al suo bacinetto guerresco non appare se non il mento saldo e polito come una selce.

«Dochiede l’uomo del mandriano, tenendo il ferro nei due pugni.

Nessun silenzio eguaglia nella memoria questo silenzio ardente. Respiriamo nell’anima stessa del fuoco. Crediamo percepire il volo e il murmure della piràusta favolosa. Udiamo la melodia dell’Elemento sorgere non dall’angusta prigione contigua ma dal remoto cuore della terra notturna. Tutte le essenze ideali si esalano nel nostro spirito.

Non è questo il primitivo stato della preghiera, da cui nacquero gli inni? Attimo d’incomparabile vita.

Io e il mio buon compagno siamo forse pallidi sotto la maschera di polvere e di fuliggine, quando ci guardiamo, separati dalla fossa fusoria, l’uno di qua l’altro di dal canale per dove si precipiterà il sangue rovente della resurrezione. Ci chiamiamo per nome; ed è come se l’uno stenda all’altro la mano calda. Il primo segno dell’opera balenato dentro, l’ebrietà del primo impeto creatore, la lotta intrapresa con la materia sorda; i giorni di tarda fatica, i dubbii, i disgusti, le ostinazioni; le sùbite abondanze di forza affluente al pollice facile, le ore mattutine col canto in bocca, le sere di beata stanchezza; il sollievo e la malinconia del compimento, le cure penose del mestiere, i trapassi vitali e mortali di materia in materia: dalla creta al gesso, dal gesso alla cera, dalla cera alle terre; e i timori, e le ansietà, e le inerzie, e le speranze; tutta la vicenda lieta e triste si risolleva dall’intimo e si riprofonda.

Io rivedo, come in un battito di palpebre, la foce del Serchio tra le fitte canne, la sabbia senz’orme tra i ginepri rari, la radura del pineto coperta di aghi rossi; e mi par di riavere nelle narici l’odore della ragia e del mentastro.

Un colpo risuona dentro i nostri petti, e poi un altro, e un altro ancóra. Il ferro apre il varco.

Chi mai dirà agli uomini quanto sia bello il fuoco? Da quale abisso d’immortalità e di bellezza è scaturita quella vena furente e fulgente che si precipita a perpetuare l’opera dell’efimero? Qual sublimazione di astri ha creato l’azzurro di quei lampeggiamenti che sono come gli sguardi indicibili della creatura seduttrice, ond’è rapita per sempre la nostra anima spoglia d’ogni altro amore?

Tutta la lira vibra in un solo accordo. Poi le mani del fonditore, che senza fallo reggono la stanga della leva e impongono la misura dell’arte alla potenza divina, le mani incombustibili ci attraggono e ci placano.

Poggiato le piante su la forma che si riempie, inarcato le reni per far contrasto al peso del turo, ampliato il torace sotto il lino che fumiga arsiccio, stillante di sudore che l’arsione gli beve, l’uomo s’è fatto simile alla cosa: egli e la mole di mattone sono un sol corpo sensibile; il suo sangue e il metallo strutto hanno un medesimo polso. Ode la colata discendere nei rami di gitto, la ode soffiare e stridere alla più lieve traccia d’umidità rimasta; sente lavorare or più or meno gli sfiatatoi; percepisce le più tenui voci della materia, interpreta gli avvertimenti più oscuri; con l’esperienza tattile dei due piedi poggiati apprende i moti intimi della compagine come un linguaggio utile a lui solo. Ecco le quattro zampe del cervo, ecco le due posteriori del centauro piene; ecco il difficilissimo getto della testa ramosa e della groppa equina superato. Ecco che il bronzo riempie i cavi del tòrso, e degli òmeri, e dell’un braccio e dell’altro opposti a divaricare le corna. Ecco che bronzo son fatti il collo nervoso, il capo cresputo e barbuto. Ecco che il sommo della chioma, il selvaggio ricciolo sollevato dal vento dell’assalto, anch’esso è raggiunto. La forma è piena.

La leva s’abbassa, il turo chiude la bocca rigurgitante, il metallo superfluo si ferma e incupisce. Il maestro balza su la palanca, si scrolla, si toglie l’elmetto a larghe falde, con la manica si terge la fronte e le gote da cui cadono brani di pelle misti al sudore. Una campana suona mattutino, nel cielo piovoso, al mondo obliato di laggiù.

Ma noi siamo ancóra intenti alla fossa mistica. Vediamo con gli occhi della mente, a traverso l’involucro spesso che scotta come la crosta di un cratère, il gruppo del centauro e del cervo azzuffati rosseggiare d’ignea vita qual già apparve all’alta volontà nell’interna fucina il giorno che intraprendemmo l’opera con le nostre mani imperfette, disperati del capolavoro.

Aprile 1907 in Firenze.




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