Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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LE FAVILLE DEL MAGLIO

ENCOMIO DEL BRONZO

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ENCOMIO DEL BRONZO

Ottima è l’acqua, ed ottima la terra

intrisa, o artiere, la bevace creta

figlia dei fiumi dove si disseta

la tua prodezza, eroe cui l’arte è guerra.

Del samio vaso e del colosso ròdio

comun parente, è ottima l’argilla,

fatta eguale a colui che la sigilla,

pari a te nell’amore a te nell’odio

quando la prendi e con piene le pugna

la scagli e ammucchi e impasti e priemi, in sùbito

furore, ed ella stroscia, insino al cubito

t’imbratta il braccio, t’entra sotto l’ugna,

ti sprizza in fronte, in bocca, onde al tuo gusto

par dolcigna qual sangue che s’aggruma.

E il sogno grande che nel cor ti fuma

esce vita dal pollice robusto.

Ottimo il fuoco ed ottimo il metallo

fuso, bensì, per l’opera eternata,

il buon bronzo di che l’antico Onàta

gittò l’iddia dal capo di cavallo,

quel di lega eginetica, senz’oro

o argento, ma più fiero del corintio;

quel che Cànaco diede al nume cintio,

Glàuchia all’atleta e Teopròpo al toro.

Quello m’eleggo. La Demetra equina,

l’idolo di Figàlia, l’iddia nera,

gli uberi ascosa nella gran criniera,

costretta i lombi nella gran guaina,

sorge a me santa come all’idolatro,

d’api d’aquile d’angui redimita,

qual ristette alla soglia della vita

pria di giugnere il bue torvo all’aratro.

E l’opra veggo dell’artiere d’Argo,

il simulacro del pancraziaste

dal mento ossuto dalle spalle vaste

dal ventre scarno dal torace largo,

che fiata ed ansa e pur non move costa,

che insonne e intento i platani dell’Alti

guarda per la durezza degli smalti

fra le ciglia cui rosso rame incrosta.

O Apolline translato in Agrigento!

In qual città splendesti a Scipione

di tra la strage? Il nome di Mirone

t’è su la coscia in lettere d’argento.

Mirone, re del bronzo, ecco il tuo disco.

Lungescagliante sei, verso l’Eterno.

Pulsa tra la clavìcola e lo sterno

del nudo efèbo il ritmo a cui m’ardisco.

Mai fu sì grande l’òmero dell’uomo;

umana melodìa né mai sì bella.

Dall’ima costa al cavo dell’ascella,

dal piede all’anca, dalla pube al pomo,

sale per gradi il numero divino

come nella virtù del verso esatto,

mentre s’adegua lieve sul contratto

pòplite in pesi alterni il tòrso inchino.

L’una man tien pel taglio, dietro il fianco,

giusta il polso la piastra pronta al gitto;

l’altra alla rota del ginocchio dritto

poggia, che alquanto sopravvanza il manco;

e il manco piè qual noce lassa d’arco

sfiora la terra con le dita prone

mentre il dritto vi stampa il suo tallone

duro che libra il lancio e porta il carco.

Volgesi il capo, da’ capegli corti

come novella irsuzie d’ariète,

simile nella fronte al cauto Ermete,

retto il naso tra i sopraccigli forti;

volgesi e non sorride ma sta solo

nella sua volontà che l’assecura,

teso la mente al segno e alla misura,

teso l’orecchio al sònito del volo.

O fronte breve, nata all’oleastro

esiguo e al solco del sottile ingegno!

Chi per te scaglia il disco oltre ogni segno?

Chi per l’eternità lo cangia in astro?

E t’ergi e fermo stai, compiuto il gesto,

spento l’impeto, imposto ambe le piante

su la terra ch’è tua, Lungescagliante,

poi che il soffio del dio fu manifesto.

E somigli, o Discòbolo, a fratelto

il Portalancia che sostiene l’asta

mìssile e il fato dorico, ginnasta

e oplìte, con quadrata norma svelto.

Qui la solidità che non crollo

apprendo, la certezza ben costrutta,

la disciplina che radduce tutta

la forza umana all’ordine d’Apollo.

O Policlèto, or teco all’opra io fossi

per trar del fuoco il bel Diadumèno

e l’Amàzone dal piagato seno

e il Fanciullo che gioca agli aliossi!

Abbimi alunno. Eleggo il tuo metallo

ad esemplare della mia parola.

Il flutto ignìto nelle forme cola

e le riempie e non commette fallo.

Come su dal malleolo alla fronte

la struttura quadrata ergasi e viva,

la maestà della grande Era argiva,

la venustà dell’Astragalizonte,

m’insegni. «La bellezza che s’espugna

col fuoco è la più forte. È duro il fare.

La terribilità dell’arte appare

quando la creta t’entra sotto l’ugna

Questo m’insegni. E parmi dopo tanta

opra esser novo alla fatica, novo

alla materia e all’utensile. Provo

la mia perizia, e l’ansia il cor mi schianta.

Virilità, virilità, stagione

onusta, plenitudine conclusa,

beverata nel sangue di Medusa,

nutrita con midolla di leone,

se mi vaglia lo sforzo onde fu macro

per moltanni il mio volto e ancor s’emacia,

se mi vaglia la muta pertinacia

onde foggiai me stesso, io ti consacro

la costanza del fuoco e la durezza

del bronzo, e questa volontà che sdegna

l’opra fornita e sempre ne disegna

una più grande e inferma è di grandezza.

Sai tu, sai tu dove porremo noi

le fornaci? Qual selva abbatteremo

per le cataste? I pini abbatteremo,

buoni alle navi e ai roghi degli eroi,

ricchi di ragia nel Peloponneso,

torti e rossi nell’isola d’Egina.

Forse quei della chiostra fiorentina

che a ben ardere un tempo aveano appreso

pel nume di Gesù nelle botteghe

di Donato o d’Andrea o dei Ghiberti?

Anch’eglino maestri erano esperti

del far di getto e delle buone leghe;

e il massello di rame e il pan di stagno

temprar sapeva e intonacar le cere

l’uno di Sire San Giovanni artiere

come Lisippo d’Alessandro Magno.

O Lisippo, ferace padre, assiso

presso l’urna onde irrompe il liquefatto

bronzo per rossi vortici, nell’atto

d’un iddio fluviale io ti ravviso!

Una fiumana di metalli sacri

dalla tua deità scroscia sul mondo:

partesi in rivi il gurgite profondo,

cola e s’indura in mille simulacri.

Ecco Eràcle che fa l’ombra a Tarento

ricca di miele e d’ostro, ecco il chiomato

Macedone che sazio del suo fato

terrestre affisa il cuore al firmamento;

ecco il popolo sorto dalle scorie

empiere i templi l’àgore le vie,

ecco le Muse e tutte le armonie,

ecco i Guerrieri e tutte le vittorie.

Donde trarremo noi masselli e pani

a gittar tante imagini, sì vasta

genitura di forme? Non ci basta

l’animo? Non ci bastano le mani?

L’animo non bastò dove fu scarso

il bronzo? Non per lui fu riempiuto

il cavo? O Benvenuto, Benvenuto,

veggomi in cuore il tuo volto riarso,

il tuo capo strinato di faville

che senza elmetto sta nella battaglia,

e la man tua tremenda che attanaglia

i manovali o all’opra si fa mille,

e pino e quercia veggoti a pien braccio

raccòrre e darli a quel terribil fuoco;

e il rappreso metallo a poco a poco

rilampeggiare, e fondersi il migliaccio,

e gli uomini sbiancarsi al tuo ruggito,

e la gran febbre che ti fa di bragia,

e l’odor della cera e della ragia,

e crepitare il tetto incarbonito,

e la pioggia crosciar di verso gli orti,

e tu gridar: «Porta qua, leva »:

e tu razzare di felicità,

tu: Dio che resuscitasti dai morti!

tu lodar Dio col sangue nella strozza,

e ognuno far per tre e tu per cento

milia, e il furore vincer lo spavento,

e la tua Mona Fiore che singhiozza,

e scoppiare il coperchio con gran tuono

e scorrere quei pani liquefatti

per i canali, e tu scodelle e piatti

gittarvi dentro a fare il bagno buono,

e il prodigio il prodigio il tuo prodigio,

il ferro che percote nelle spine,

le bocche aperte, il bronzo che fluisce,

la tua forma che s’empie, lode a Cristo!

Veggo odo sento. Ho nel mio cor racchiusa

la virtù di quel tuo terribil fuoco.

Ti guardo scoprir l’opra a poco a poco,

trovar prima la testa di Medusa.


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