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Ottima è l’acqua, ed ottima la terra
intrisa, o artiere, la bevace creta
figlia dei fiumi dove si disseta
la tua prodezza, eroe cui l’arte è guerra.
Del samio vaso e del colosso ròdio
comun parente, è ottima l’argilla,
fatta eguale a colui che la sigilla,
pari a te nell’amore a te nell’odio
quando la prendi e con piene le pugna
la scagli e ammucchi e impasti e priemi, in sùbito
furore, ed ella stroscia, insino al cubito
t’imbratta il braccio, t’entra sotto l’ugna,
ti sprizza in fronte, in bocca, onde al tuo gusto
par dolcigna qual sangue che s’aggruma.
E il sogno grande che nel cor ti fuma
esce vita dal pollice robusto.
Ottimo il fuoco ed ottimo il metallo
fuso, bensì, per l’opera eternata,
il buon bronzo di che l’antico Onàta
gittò l’iddia dal capo di cavallo,
quel di lega eginetica, senz’oro
o argento, ma più fiero del corintio;
quel che Cànaco diede al nume cintio,
Glàuchia all’atleta e Teopròpo al toro.
Quello m’eleggo. La Demetra equina,
l’idolo di Figàlia, l’iddia nera,
gli uberi ascosa nella gran criniera,
costretta i lombi nella gran guaina,
sorge a me santa come all’idolatro,
d’api d’aquile d’angui redimita,
qual ristette alla soglia della vita
pria di giugnere il bue torvo all’aratro.
E l’opra veggo dell’artiere d’Argo,
il simulacro del pancraziaste
dal mento ossuto dalle spalle vaste
dal ventre scarno dal torace largo,
che fiata ed ansa e pur non move costa,
che insonne e intento i platani dell’Alti
guarda per la durezza degli smalti
fra le ciglia cui rosso rame incrosta.
O Apolline translato in Agrigento!
In qual città splendesti a Scipione
di tra la strage? Il nome di Mirone
t’è su la coscia in lettere d’argento.
Mirone, re del bronzo, ecco il tuo disco.
Lungescagliante sei, verso l’Eterno.
Pulsa tra la clavìcola e lo sterno
del nudo efèbo il ritmo a cui m’ardisco.
Mai fu sì grande l’òmero dell’uomo;
umana melodìa né mai sì bella.
Dall’ima costa al cavo dell’ascella,
dal piede all’anca, dalla pube al pomo,
sale per gradi il numero divino
come nella virtù del verso esatto,
mentre s’adegua lieve sul contratto
pòplite in pesi alterni il tòrso inchino.
L’una man tien pel taglio, dietro il fianco,
giusta il polso la piastra pronta al gitto;
l’altra alla rota del ginocchio dritto
poggia, che alquanto sopravvanza il manco;
e il manco piè qual noce lassa d’arco
sfiora la terra con le dita prone
mentre il dritto vi stampa il suo tallone
duro che libra il lancio e porta il carco.
Volgesi il capo, da’ capegli corti
come novella irsuzie d’ariète,
simile nella fronte al cauto Ermete,
retto il naso tra i sopraccigli forti;
volgesi e non sorride ma sta solo
nella sua volontà che l’assecura,
teso la mente al segno e alla misura,
teso l’orecchio al sònito del volo.
O fronte breve, nata all’oleastro
esiguo e al solco del sottile ingegno!
Chi per te scaglia il disco oltre ogni segno?
Chi per l’eternità lo cangia in astro?
E t’ergi e fermo stai, compiuto il gesto,
spento l’impeto, imposto ambe le piante
su la terra ch’è tua, Lungescagliante,
poi che il soffio del dio fu manifesto.
E somigli, o Discòbolo, a fratelto
il Portalancia che sostiene l’asta
mìssile e il fato dorico, ginnasta
e oplìte, con quadrata norma svelto.
Qui la solidità che non dà crollo
apprendo, la certezza ben costrutta,
la disciplina che radduce tutta
la forza umana all’ordine d’Apollo.
O Policlèto, or teco all’opra io fossi
per trar del fuoco il bel Diadumèno
e il Fanciullo che gioca agli aliossi!
Abbimi alunno. Eleggo il tuo metallo
ad esemplare della mia parola.
Il flutto ignìto nelle forme cola
e le riempie e non commette fallo.
Come su dal malleolo alla fronte
la struttura quadrata ergasi e viva,
la maestà della grande Era argiva,
la venustà dell’Astragalizonte,
m’insegni. «La bellezza che s’espugna
col fuoco è la più forte. È duro il fare.
La terribilità dell’arte appare
quando la creta t’entra sotto l’ugna.»
Questo m’insegni. E parmi dopo tanta
opra esser novo alla fatica, novo
alla materia e all’utensile. Provo
la mia perizia, e l’ansia il cor mi schianta.
beverata nel sangue di Medusa,
se mi vaglia lo sforzo onde fu macro
per molt’anni il mio volto e ancor s’emacia,
se mi vaglia la muta pertinacia
onde foggiai me stesso, io ti consacro
la costanza del fuoco e la durezza
del bronzo, e questa volontà che sdegna
l’opra fornita e sempre ne disegna
una più grande e inferma è di grandezza.
Sai tu, sai tu dove porremo noi
le fornaci? Qual selva abbatteremo
per le cataste? I pini abbatteremo,
buoni alle navi e ai roghi degli eroi,
ricchi di ragia nel Peloponneso,
torti e rossi nell’isola d’Egina.
Forse quei della chiostra fiorentina
che a ben ardere un tempo aveano appreso
pel nume di Gesù nelle botteghe
di Donato o d’Andrea o dei Ghiberti?
Anch’eglino maestri erano esperti
del far di getto e delle buone leghe;
e il massello di rame e il pan di stagno
temprar sapeva e intonacar le cere
l’uno di Sire San Giovanni artiere
come Lisippo d’Alessandro Magno.
O Lisippo, ferace padre, assiso
presso l’urna onde irrompe il liquefatto
bronzo per rossi vortici, nell’atto
d’un iddio fluviale io ti ravviso!
dalla tua deità scroscia sul mondo:
partesi in rivi il gurgite profondo,
cola e s’indura in mille simulacri.
Ecco Eràcle che fa l’ombra a Tarento
ricca di miele e d’ostro, ecco il chiomato
Macedone che sazio del suo fato
terrestre affisa il cuore al firmamento;
ecco il popolo sorto dalle scorie
empiere i templi l’àgore le vie,
ecco le Muse e tutte le armonie,
ecco i Guerrieri e tutte le vittorie.
Donde trarremo noi masselli e pani
a gittar tante imagini, sì vasta
genitura di forme? Non ci basta
l’animo? Non ci bastano le mani?
L’animo non bastò dove fu scarso
il bronzo? Non per lui fu riempiuto
il cavo? O Benvenuto, Benvenuto,
veggomi in cuore il tuo volto riarso,
il tuo capo strinato di faville
che senza elmetto sta nella battaglia,
e la man tua tremenda che attanaglia
i manovali o all’opra si fa mille,
e pino e quercia veggoti a pien braccio
raccòrre e darli a quel terribil fuoco;
e il rappreso metallo a poco a poco
rilampeggiare, e fondersi il migliaccio,
e gli uomini sbiancarsi al tuo ruggito,
e la gran febbre che ti fa di bragia,
e l’odor della cera e della ragia,
e crepitare il tetto incarbonito,
e la pioggia crosciar di verso gli orti,
e tu gridar: «Porta qua, leva là»:
tu: Dio che resuscitasti dai morti!
tu lodar Dio col sangue nella strozza,
e ognuno far per tre e tu per cento
milia, e il furore vincer lo spavento,
e la tua Mona Fiore che singhiozza,
e scoppiare il coperchio con gran tuono
e scorrere quei pani liquefatti
per i canali, e tu scodelle e piatti
gittarvi dentro a fare il bagno buono,
e il prodigio il prodigio il tuo prodigio,
il ferro che percote nelle spine,
le bocche aperte, il bronzo che fluisce,
la tua forma che s’empie, lode a Cristo!
Veggo odo sento. Ho nel mio cor racchiusa
la virtù di quel tuo terribil fuoco.
Ti guardo scoprir l’opra a poco a poco,
trovar prima la testa di Medusa.