Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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DELLA DECIMA MUSA E DELLA SINFONIA DECIMA

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DELLA DECIMA MUSA
E DELLA SINFONIA DECIMA

«Con cento velìvoli potremo lanciare da cento a centoventi tonnellate di bombe, avendo la benzina necessaria per volare da otto a nove ore.

Una squadra di cento velìvoli non è se non una “unità tattica” del prossimo avvenire; né sono soverchi il rischio degli uomini e le spese dell’operazione. Il prezzo di ciascun “triplano” è di circa duecentomila lire. Cento non costerebbero se non venti milioni, compresa l’essenza, comprese le sostanze esplosive. Pur aggiungendo premii ai piloti e altre somme per sopperire all’inevitabile logorio, non eguaglieremmo il costo di una nave grossa.

Ma è certo che, se sapremo usarli, avremo il modo di troncare gli indugi navali nell’Adriatico e di forzare le sorti neghittose. Sopra il porto di Pola, dove si specchia dall’Anfiteatro la faccia di Roma, sopra le grandi navi austriache che corazzate di prudenza in clausura covano la glorietta di Lissa, potremo rovesciare – con cinquanta velìvoli – in una sola volta più che sessanta tonnellate di bombe e andar sùbito a rifornirci per ripetere lo scroscio, con romanissima perseveranza.

Useremo in Pola bombe munite di razzo urtante con ritardo su l’acqua o munite di razzo idrostatico, affinché lo scoppio avvenga a tal profondità da produrre lo sfascio degli scafi non soltanto con la violenza dell’urto ma con il moto dell’onda.

Un altro gruppo di cinquanta potrebbe intraprendere l’assedio aereo del Trentino troncando i nervi all’offensiva austriaca, interrompendo spostamenti e rifornimenti, se con perseveranza implacabile bombardasse i due soli varchi (l’uno in viadotto) che congiungono all’Austria la nobile terra schiava. Venti tonnellate di bombe per volta, fra Bolzano e Brixen dove la ferrovia la strada il fiume la montagna si legano, varrebbero a tagliare il passaggio ruinando le opere, movendo frane nell’alpe, scavando enormi imbuti.

Ma la battaglia furente che sta per riaccendersi nell’inferno carsico suscita oggi, più che ogni altra impresa, l’ansia e l’audacia dei volatori.

Se vi fu mai per l’Ala italiana occasione d’iniziar di cielo in cielo quel che oggi negli eserciti di terra si dicegrande stile” a emular “lo bello stiledantesco, questa supera in utilità e in felicità ogni altra.

Un crudissimo sforzo stanno per compiere nel medio e nel basso Isonzo l’Armata di Gorizia e l’Armata del Duca, specialmente se si consideri la difficoltà del trainare artiglierie dall’una all’altra zona, durante la battaglia.

E l’una e l’altra Armata attraverseranno, penso, un periodo di pericolosa inquietudine: quella di Gorizia allorché sarà menomata d’un certo numero di batterie mentre i suoi fanti avranno sferrato l’assalto, e la Terza nella preparazione del suo movimento e del suo impeto.

Inoltre le nostre eroiche fanterie saranno spinte contro ostacoli da lungo tempo afforzati, contro soldatesche in gran parte riparate dentro caverne, sotto il fuoco di vere bolge tonanti che, dal Querceto al Cucco, si concatenano in un mezzo girone con la concavità rivolta a occidente.

In quell’altro inferno di Verdun, quando le sbarre del ferro imperiale eran più irte e più folte, quando i meglio temprati petti non reggevano all’orrore, e il delirio rapiva i cervelli sconvolti, una squadra di velìvoli republicani – la più numerosa e la più poderosa adunata in Francia fino a quell’oraentrò nella linea sopra le fanterie che balenavano. La milizia celeste accompagnò la milizia terrestre verso il sacrificio sublime, quasi in comunione di patria dilatata nello spazio libero. Il grido dell’assalto irruppe da tutti i petti gonfii d’un subitaneo coraggio, raggiunse e superò il rombo delle ali latine. Fu una insolita ebrezza di vittoria.

Anima anche il nostro fante questa fiducia nella protezione che gli viene dal suo fratello dominatore del cielo. Ho veduto più volte i nostri soldati rinfrancarsi all’apparizione di un solo velìvolo tricolore.

E anche per questo la prossima azione, forse più severa delle precedenti, richiede un’attività assidua delle nostre squadriglie meglio armate. Un conforto cordiale e una illusione animatrice si aggiungono all’efficacia bèllica.

Concorrere al logoramento dell’avversario, proseguito dal lungo tiro notturno e diurno, in modo da fiaccarne la resistenza, operando inoltre su i centri vitali, su i luoghi di raccolta, su le arterie visibili per ove affluiscono i viveri e le risorse; determinare con la massima esattezza le postazioni delle artiglierie nemiche, dove non possono servire gli osservatorii terrestri; impedire che le squadriglie austriache possano avvicinarsi alle nostre batterie, costituendo contro di loro il così dettosbarramento aereo”; infine eseguire un bombardamento simultaneo su gli spazii segnati dal Comando nel suo foglio al “25.000”: ecco i principali cómpiti dell’aviazione nella battaglia prossima.

Quest’ultimo cómpito sembra, nel caso singolare, aver più importanza d’ogni altro.

Quando, terminato il tiro logorante, si passi al tiro fulmineo di distruzione degli ostacoli nei pochi ma vasti tratti stabiliti per l’irrompere delle fanterie e quindi si inizii l’assalto, il nostro solo fuoco di controbatteria riescirà a dominare le artiglierie avverse e a proteggere così la continuità del movimento, che è condizione sovrana di riuscita.

Per la necessità di trainare artiglierie dall’una all’altra zona, è inevitabile che le due Armate eseguano l’attacco a fondo in tempi successivi. A questa successione di tempi par costretta anche la stessa Terza Armata, in riguardo all’azione parziale che l’Undecimo Corpo con la sua sinistra svolgerà secondando l’Armata di Gorizia mentre il restante della Terza starà su gli indugi.

Cosicché si può supporre che le artiglierie avverse, risparmiate le munizioni nella fase di logoramento e in quella di abbattimento da noi imposte, sieno per aggravare la massima intensità del fuoco sopra le fanterie di Gorizia e dell’Undecimo Corpo irrompenti all’assalto, per convergerle quindi – in un secondo tempo – contro le truppe della Terza Armata.

È insomma presumibile che il nemico, non distrutto dalle nostre controbatterie ma solo disordinato in parte e ammutolito, sia pur sempre in grado di operare “per linee interne”.

Ora è manifesto di quanta efficacia, nel determinar le sorti dell’azione, possano essere le nostre squadriglie da bombardamento spedite l’una dopo l’altra sopra i nuclei del fuoco ostile designati dai Comandi.

Nella giornata dell’assalto, anzi nell’ora medesima in cui sarà scagliato l’impeto dei fanti, le squadriglie cercheranno di dominare con la più energica e oculata azione le batterie avversarie.

Una esperienza mia propria mi dimostra quanto grande sia l’effetto delle bombe gettate dall’alto a un tempo, nell’istante medesimo, pur anche se il bersaglio non sia colto in pieno.

Non tolta ancóra la benda di su l’occhio ferito e spento, il 13 settembre 1916 in una incursione sopra Parenzo, conducendo io il secondo gruppo d’idròtteri ed avendo per errore il gruppo di testa deviato verso Rovigno, nel passare per il primo sopra la batteria antiaerea, lanciai tutte insieme le mie sei bombe che non colpirono la piazzuola ma pur disordinarono il servizio in tal modo che potemmo compiere l’azione nell’incolumità, se bene taluno de’ nostri velìvoli avesse raggiunta appena l’altezza di 1.200 metri…»

Scrivo al Generalissimo, per infondere la mia fede, per propagare la mia fede, per esaltare la mia fede. Ho la tavola ingombra di carte topografiche, di annotazioni minuziose, di disegni ingegnosi che sembrano estratti dal Codex atlanticus. «L’equipaggio di quattro uomini può anche ridursi a tre: – 320 chilogrammi. Occorrono cinque mitragliatrici con sostegno a cerchio, due in ogni fusoliera e una nella scassa, accompagnata da un cannone di 25 o di 37: – 210 chilogrammi. Assommo in sessanta chilogrammi gli strumenti di bordo: bussola, altimetro, apparecchi di mira, apparecchi fotografici, estintori…» Sto cercando di non sorpassare i tremila chili di peso da trarre all’altezza di tremila metri, quando il mio trabante di Paliano timidamente mi avverte che la contessa di Colloredo mi chiede la grazia di espormi la proposta di «un uomo di buona volontà» affidato alla sua intercessione.

Ho infatti il mio ricovero nella vecchia villa dei Colloredo, così vasta e spoglia che per chiamare il trabante (do questo nome superstite in terra d’Abruzzi al mio cavalleggiere d’ordinanza) mi servo d’una mazza d’arme austriaca percossa alla disperata su la campana di Vermegliano priva di batacchio. Ed ecco che la Musica viene a me in forma di gentile donna, senza contrariare la monofonìa de’ miei motori. «L’uomo di buona volontà» domanda, in questa terza primavera di guerra, ch’io lo inspiri lo assista e lo conduca nell’intraprendere per le stampe una raccolta di antiche musiche!

Ma, in verità, supplicando il Generalissimo di lasciarmi intonare sopra il coraggio dei fanti le massime sinfonie devastatrici, non sembro io secondare il mio spirito musicale?

Il motore monophonos, ascoltato da un orecchio inventivo, include la più ricca polifonìa. Nei ritorni di notte, quando la vita è bella dietro la nera mitragliatrice di prua che ha beffato la morte, il coraggio canta maravigliosamente accompagnandosi col triplice motore come con una viola pomposa accordata in do. Beppino Miraglia m’iniziò al mistero di questa musica. Egli usava dissimulare la sua sensibilità estrema e la sua fantasia audacissima con una costante lepidezza ironica. Piuttosto che discoprirsi a me egli amava esser da me divinato. Il suo cantico dell’alba di Pola mi fu rivelato da Giacomo Boni venuto a visitarmi dopo la morte del nostro amico diletto. Una mattina, essendo partito per Pola prima della levata del sole ed essendo giunto nel mezzo mare, vide il disco rovente sorgere nella nebbietta lontana e tutte le acque giubilare «a quel primo colpo di timpano». Egli lasciò le leve e incrociò le braccia. E, mentre l’Albatro abbandonato a sé stesso ondeggiava nell’aria tranquilla, si mise a cantare inventando le parole e la musica del suo canto misurato sul palpito del suo motore. E soltanto così comprese l’ebrezza di Francesco nel Cantico delle Creature. Né poi ebbe più memoria di quelle parole e di quella musica.

Su quel medesimo Albatro, un’altra mattina, andammo a bombardare i cantieri di Trieste. Per ammirare il veloce sforzo de’ nostri costruttori in due anni di guerra, bisogna rappresentarsi quel vecchio trabiccolo che il nostro ardire traeva ai primi voli sul nemico. Io avevo davanti a me, in prua, il motore; e di fianco avevo il vanissimo tubo nomato «lanciabombe». Dopo ch’ebbi lasciato andare su i cantieri le prime cinque bombe, la sesta mi s’incantò nel tubo; e non per forza né per scaltrezza mi riuscì di farla partire. Ma, come eravamo nella rotta del ritorno verso Venezia, non mi confidavo di lasciar la bomba senza fissarla. Da marinai smemorati, non avevamo a bordo una cima uno spago un trèfolo, magari una spilorcia! Mi tolsi la cintura di cuoio e, nel provarla, m’accorsi che non passava pei trafori del «lanciabombe». Ora, quel che non avean potuto la mia forza e la mia scaltrezza, impensatamente avrebber potuto le vibrazioni del velìvolo; e io correvo rischio di colpire involontario un punto della costa, da Grado a Cortellazzo, o di ferire una qualche divina pietra di Venezia. Per tutta la rotta mi rassegnai a reggere la bomba con la mano, tenendo nel tubo il braccio fin quasi al gomito, tutto curvo da un lato come se fossi rimasto alla tagliuola. L’imagine penosa dell’ordigno da lupi o da volpi a poco a poco fu cancellata dall’attento studio musicale. M’imaginai d’aver l’orecchio inchinato ad ascoltare una musica difficile. Per non so quale gioco di ripercussioni, la mia attitudine favoriva la mia ricerca di polifonìa nel motore monophonos. Volgevo talvolta il capo verso il mio pilota, che sorrideva d’un sorriso accorto come s’egli m’indovinasse e svolgesse gli stessi temi sul medesimo ritmo. Ma, quando mi volsi per l’ultima volta, egli non sorrideva più. Un fallo nella discesa e nell’approdo poteva causare lo scoppio della bomba che io tuttavia reggevo rimasto alla tagliuola. Arte di pilota non fu mai tanto certa e tanto lieve. A terra, il mio compagno mi stropicciò gioiosamente il braccio intormentito. Non me l’avrebber tanto intormentito tre ore di plettro. Ma le invenzioni sonore della decima musa Energeia omai non avean più limite.

Convien dunque attendere, sotto il segno della decima musa, la decima sinfonia, ristampando tra l’uno e l’altro bombardamento un florilegio di vecchie musiche?

O anima del Friuli, che sembra gaia ed è triste, che sembra lenta ed è pensosa, che sembra mobile ed è fedele, armonizzata alla nobiltà della sua terra fra il litorale di Grado e l’Alpe carnica, fra i Veneti giulii e gli euganei! Cade la sera, tra cerulea e violacea, su questa villa gentilesca della progenie di un Colloredo che fu capitano di ventura e poeta indocile, servendo la Serenissima a capo di corazze e foggiando in rime aspre e in quartine membrute la sua parlatura nativa, concisa e aguzza, acerba e venusta.

Se mai puartàs un tant triste lûs

che d’Udin ti vedès a partenze…

Dal mio campo di Santa Maria la Longa la malinconia mi porta al ponte di Cividale e m’inchina verso le acque del Natisone simili alla turchesa di color cilestro che pende nel verde ramingo. Cerco le adorabili chiesette gotiche sparse nella valle, il duomo di Spilimbergo, i palagi di Venzone e di Gemona, i belli arredi nel tesoro di San Daniele. In una cappelletta di campagna non trovo più una tavola fenduta e sfaldata ov’è palese la mano del Pordenone.

L’anima del Friuli grida, all’improvviso, nella sera che si costella.

Oh , , se il mont si struce

qualchidun lu drezzarà.

La iustizie è fate a guce:

no si puès plui sopuartà!

È l’antica villotta friulana, breve come il dardo e come il fiore, breve come il bacio e come il morso, come il singhiozzo e come il sorriso. È la villotta cruda, gettata al destino avverso da una voce maschia, misurata dai colpi del martello su l’incudine.

A murì, murì, pazienze!

In chest mont no vin di stà;

ma dure la sentenze

no savé dulà si va.

Ora è la voce accorata d’un fante di Buia, ch’io conosco. Chiede al suo umile tormento, come io medesimo chiedo alla mia angoscia dominata e convertita in disdegno, chiede se egli ucciso domani sia per varcare la soglia della luce o del buio, sia per ingrassare la terra col suo sacrifizio oscuro o per ritrovarsi beato su ginocchia più benigne di quelle della sua madre. Le note non più numerose delle sillabe sono di una purità così austera che eguagliano l’anelito di una lauda, nel consenso palpitante delle prime stelle.

Una voce di giovine donna, una di quelle voci che sembrano portare in sommo la sommità rosata del seno stesso onde sgorgano, riga l’ombra, commuove le foglie, si mescola alla brezza che alita l’odore del pane caldo al frumento non spigato.

E io cianti cianti cianti,

e no sai biel sôl parcé;

e io cianti solamentri

che par consolâmi me.

Il canto della passione primaverile non muore dove nacque ma si spande fin dove più tardi ritorneranno le ostinate mie ali, di dall’Isonzo, di dal Vipacco, di dalla selva di Tarnova, di da Idria, nel più rovente cuore della guerra.

Ed ecco che intraprendere per le stampe una raccolta di antiche musiche in questa terza primavera di guerra, mentre sul sanguigno mondo sta quell’ansia vertiginosa che precede il turbine dei turbini e le estreme sentenze del Destino, non mi pare una impresa intempestiva. Non è se non uno di quegli indizii augurali che non hanno mai cessato di risplendere allo spirito umano in mezzo a quella uccisione e a quella devastazione senza confine e senza fine obbedienti tuttavia a un ordine condotto da un ritmo inconvertibile se bene ancóra indistinto per noi.

Sotto un libro di musica aperto fra varii strumenti fu scritto da un antico nostro concordia discors. Concordia discorde è questo smisurato travaglio umano che di sotto al carnaio e alla rovina scava le forme necessarie della vita nuova.

Creazioni recondite e ineffabili a noi, nel senso divino della parola, accompagnano le distruzioni brute che compie una volontà meccanica servita da macchine di morte sempre più potenti e diverse. Un dio velato su ognuna delle nostre battaglie fangose lampeggia come nel canto di Omero.

Il barbaro con tutte le atrocità e tutte le ignominie ha cercato di abolire l’idea che, fino alla vigilia della lotta, l’uomo si faceva dell’uomo. Or ecco che noi ricominciamo a sperare nell’altezza dell’uomo.

Il barbaro moltiplica sopra gli innocenti e gli inermi gli strazii infami dell’odio, alternando una impudenza senile con una stupidità belluina. Ora il viso dell’amore senza lacrime non fu mai più raggiante, perché l’amore non fu mai tanto amato.

Il barbaro ha propagginato l’eroismo, l’ha coricato sotterra, l’ha confitto nel putridume; ha abbattuto le cattedrali aeree dove culminava l’aspirazione dell’anima perenne; ha disfatto e arso le sedi della sapienza ornate dal fiore di tutte le arti; ha sconvolto i lineamenti del Cristo e lacerato il grembo della madre di Dio. Ora la bellezza precipita e trabocca sul mondo come un torrente di maggio. Non abbiamo petti abbastanza capaci per raccoglierla e contenerla.

La punta della baionetta penetra in una sensibilità che cinge come un recente alone l’astro della coscienza in travaglio. Una musica nuova, simile a una giovinezza impaziente, è sparsa nelle vene tumide della terra che si satolla e si abbevera. Il fragore degli obici e dei mortai c’impedisce di ascoltarla ma non di presentirla.

Che è mai al paragone quel soffio novello che passava su le dita di Francesco Cieco in punto di toccare l’organo portatile? o quell’asprezza primaverile che invigoriva una frottola una villanella uno strambotto di Marchetto Cara, di Michele Pesenti?

Si pensa alla voce della Lauda, che sorse dalla vermiglia guerra fraterna, con la sua chiarezza tonale, col suo disegno simmetrico; ma per accrescere e muovere sopra il ricordo gracile del passato l’aspettazione del futuro.

Aspettazione maravigliosa come quella che precede l’avvento dei grandi Rivelatori e Redentori negli spazii dell’anima.

Tutte le arti ristanno, perplesse e immobili. Sembrano aver perduto la misura. Il cànone dell’imagine umana non è più quello di Policleto. Lo spettacolo d’una grandezza sempre più grande le soverchia e stupisce.

La materia sfugge alla mano imbelle; non è afferrata se non dalla violenza numerosa, non è domata se non da utensili giganteschi. La fornace il furore il clamore di Benvenuto a confronto non sono se non smanie di fanciullo bizzarro.

Le qualità stesse della materia si trasmutano. La sagacia dell’artista non più le riconosce, né più la sua maestria le signoreggia. Anch’esse militano, sono invase dal dèmone ostile, non si sottomettono se non alla necessità della lotta.

La pietra non soffre gradina e scarpello; ma il «centurione» accosciato sopra un’asse traversa, taciturno sotto l’elmetto bigio, in una bolgia dell’inferno carsico, intento da dieci ore a reggere con le due pugna il pistoletto percosso in ritmo dalla mazza di ferro che l’introna o a togliere col nettamine la polvere bianca dal calcare forato, dove non è se non aridità e periglio, dove non è se non maledizione e sete, par magnanimo come il Buonarroti che combatte contro il masso per liberare la creatura bella del suo dolore e della sua vendetta. Il metallo cola altrove che nei rami di gitto bene ordinati dallo statuario. A fondere un bassorilievo funebre in onore d’un compagno eroico, noi dovemmo mendicarlo, massello per massello. Ma, sotto l’urto estremo delle sorti, non esiteremmo a strappare dal cippo la figura incastrata perché fosse rifusa nell’officina della resistenza. Così toglieremmo le croci di ferro dalle sepolture selvagge dei caduti, col consentimento dei morti e di Dio. Il fuoco del sacrificio mescola oggi una lega mille volte più ricca che il bronzo corintio.

I costruttori nuovi, mentre attendono che le rovine cessino di fumigare, vedono forse in sogno la faccia della città futura? Quella dell’antica è irriconoscibile come l’impronta umana cancellata da una scheggia di bomba, come un capo vuotato sino alla collottola e ridotto in poca buccia rossastra. I cani fedeli urlano intorno, avendo perduto la traccia e il sentore. Tutto quel che sorgeva, ora giace. Quel che era inalzato verso il cielo, è agguagliato alla terra. L’architettura s’inabissa, si piega verso il mondo di giù, come la nera fatica degli schiavi etruschi. Il cemento afforza la tana, la carneficina ingombra il laberinto. Gli uomini non esciranno di sotterra, al soffio della pace, con una volontà folle di scagliare torri e cupole e guglie verso l’azzurro? In sublimi quiescant.

La tavolozza è rasa, la pagina è bianca. Che valgono le mestiche e gli inchiostri davanti allo splendore perpetuo del sangue? Nessuno interpreterà le figure misteriose che il sangue disegna sprizzando contro la roccia, spargendosi al suolo, tingendo le fasce?

Triste quell’artefice senz’arte, non divorato dall’ansia di offrire interamente il suo alla più bella Causa che abbia mai avuto un Latino per sacrificarsi, in tutti i secoli di Roma, dal giorno minaccioso in cui il patrizio armato si lanciò col cavallo nella voragine.

Ma l’immateriale musica è da per tutto presente, è da per tutto vivente, simile a uno spirito di novità e di libertà universo, non inscritta nel pentagramma, non conclamata dal coro, non consonata dall’orchestra, non espressa in toni modi ritmi cadenze e tuttavia intesa a svolgersi come se il genio umano ne ampliasse i limiti e ne moltiplicasse le forme nel presentimento dell’orecchio futuro.

La musica è oggi sola fra le arti attiva. Non s’arresta, non si sperde, non si degrada, non s’imbarbarisce. Segue pur sempre la rapidità del suo divenire. Quando il nostro orecchio di guerrieri abbia riacquistato la delicatezza e l’attenzione, noi la ritroveremo a un tratto precipitata nello spirito di un artista sconosciuto la cui gloria ci parrà levarsi dal fondo dell’orizzonte lontano e dell’anima prossima.

Ella avrà così trapassato ogni segno, avrà superato le invenzioni dei più generosi novatori. Il dramma di Claudio Debussy, la tragedia d’Ildebrando da Parma – per non parlare se non dei nostri, poiché oggi è necessario elevare l’idea di patria perfino al sommo dell’accento musicale – saranno divenuti esemplari di sostegno «quasi plinti su cui posino fermamente le colonne del Teatro annunziato».

E si pensa che l’espressione convulsa del mondo non debba essere ricomposta se non dall’onnipossente Sinfonia.

Non sembra che anche oggi ella accompagni i moti veloci o tardi delle profonde masse periture, la vacillazione immensa delle forze che si spostano e si mettono in cammino, l’apparizione vittoriosa dei grandi temi ideali sopra il furore e il fragore della barbarie? Nell’uomo che oggi porta una somma di doglia e di eroismo più vasta di quella accumulata da tutti i secoli umani, ella cercherà troverà rivelerà i frammenti superstiti del passato e i nascimenti dell’avvenire. Come v’è una decima Musa, v’è pure una decima Sinfonia di dall’ultima del fiammingo Beethoven.

Perché dunque, in tanta aspettazione, è offerto agli Italiani un florilegio di vecchie musiche, augurando redivivo un Ottaviano Petrucci stampatore delle novissime? Non per tornare all’antico ma per riconoscerlo e per vendicarlo – nel nome del Monteverdi, del Frescobaldi, del Palestrina – contro un lungo secolo di oscuramento e di errore. Taluna di queste, tra le più remote, sembra nata della stagione medesima in cui le novissime son per fiorire. La lirica primavera ritorna negli anni, sempre con dissimili foglie ma con una purità eguale.

Così i combattenti del nostro sangue, i costruttori del domani, nel Carso e nell’Alpe, sobrii di colore e di gesto, semplici d’un sol lineamento tra elmetto e uosa, sembrano dalla più pura arte giottesca disegnati in eterno contro il sasso e contro la neve.

O canto notturno del pastore siciliano poggiato alla canna del suo fucile ancor tiepida, nella dolina tolta al nemico, ingombra di uccisi a mucchio dove non biancicava se non qualche nuda mano atteggiata all’arpeggio della morte!

Intorno era l’Ade carsico, il fisso inferno di pietre, avvolto nel velo del novilunio velato. E un silenzio forte come un cemento legava alle pietre i cadaveri; ma la notte divorava il nero dei grumi. E, lontano, nella foschìa, in tutta la cerchia dell’orizzonte giùlio, infuriava la battaglia infernale.

Era come una battaglia sparente, nella caligine che balenava senza tregua. Era come un combattimento confuso di anime, una mischia di resuscitati. E pareva che i corpi stesi nella dolina fossero per levarsi e per accorrere, come accorrevano via via tutti quelli abbattuti nelle trincee.

La gran petraia, nel centro di quella furia circolare di spiriti e di fuochi, rimaneva più inerte più muta più fredda che una landa di Selene. E giù nella dolina funebre, dentro il cratere albicante, i soldati stracchi dormivano all’aperto avvolti nei mantelli grigi, informi come il mucchio dei vinti.

E all’improvviso, quasi corda toccata nella profondità dei tempi e nella tristezza di una carne fragile come la mia, il canto sorse tremò si assicurò, fendette il cemento del silenzio e il mio vivo cuore.

E la vita e la morte, la contemplazione e la battaglia, il fratello e il nemico, l’Italia sanguinante e il mistero dei nascituri, tutto si sublimò nel vertice di una speranza disperata.

La musica segreta della terra, della nostra terra, della nazione radicata nel suolo, abbarbicata al sasso e alla gleba, sorgeva in quella voce inconsapevole, come una scaturigine melodiosa da una di quelle pietre che avesse a un tratto percossa la verga di un divinatore.

E fu il primo canto sacro della guerra da me udito; il quale mi parve degno di essere raccolto in quel libro religioso preposto ai prossimi riti della Patria, che dai vincitori latini sarà chiamato Il Vittoriale.

Primavera del 1917, in Santa Maria la Longa.


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