Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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DELLA DECIMA MUSA E DELLA SINFONIA DECIMA

DI UNA PAUSA MUSICALE NEL TUMULTO DI FIUME

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DI UNA PAUSA MUSICALE
NEL TUMULTO DI FIUME

Nella bella incisione di Adolfo de Carolis i caratteri essenziali della persona e dell’arte di Aloisia Bàccaris sono rivelati con uno stile ampio e vigoroso che sembra arieggiare quel medesimo della giovine sonatrice nell’atto di sonare la Bergamasca o la Frescobalda.

La testa campeggia in una selva di canne diseguali come quelle dell’organo di Maestro Cieco e come quelle del flauto di Pan; e si pensa alla «concordia discorde» che è la legge della musica e dell’anima. I lineamenti e i piani della faccia sono semplici e netti, collegati con una severità non addolcita se non in basso dalla malinconia. Tra gli archi potenti dei sopraccigli il naso scende diritto ed esiguo come quello della Psiche di Napoli, cosicché di profilo la leggera curva sembra piuttosto una vibrazione della sensibilità che una grazia stabile della forma. La bocca ha una vita ambigua, tra il labbro di sopra disegnato secondo il modo dell’arco cretese e il labbro di sotto che contraddice col suo molle broncio a quell’armata fermezza. Ma tutto il vigore è nel collo che si fonda e si sostiene su gli ossi delle clavicole e delle scapule con l’espressione stessa della forza architettonica. Si pensa al collo del cigno che fende l’acqua o esala il suo ultimo canto, ma anche si pensa alla nuca di una cariatide che sopporti un grande edifizio sonoro.

Non mai in un compiuto artista la struttura del corpo ebbe una così vivace rispondenza con le qualità dell’arte sua. Davanti alla tastiera, la piccola Veneziana della parrocchia di San Stefano fa pensare agli spiriti e ai fuochi di un Concerto giorgionesco. Col vasto pianoforte a coda ella si accorda come il violinista col suo strumento sottile. La massa nera e lucida, con tutte le sue corde coricate, le appartiene come la capellatura sensibile che su le tempie imita le onde della melodia. Nel modo che il legno liscio rispecchia il gioco delle sue mani forti, l’intera sonorità della cassa si foggia a somiglianza della sua bellezza patetica.

L’altrieri la musica fu goduta dagli occhi come dall’udito.

Vi sono figure di danza inscritte in uno spazio non maggiore della statura umana, ch’esse riempiono di ritmo continuo, come sapevano i Greci.

L’arte mimica del coro passava ai singoli sonatori che il coro accompagnavano. L’aulete o il citaredo solitario nel trattare lo strumento componeva con le sue attitudini e coi suoi gesti una figura di danza, anche quando era fisso coi piedi o accosciato o seduto nel suo luogo consueto. Chi ha contemplato la sonatrice di flauto, nel Museo delle Terme, si ricorda di quella beatitudine musicale che apprendono allo spirito le linee del corpo atteggiate nel breve spazio del silenzio marmoreo. Quella beatitudine si rinnova senza pausa alla vista e si prolunga senza fine nella memoria.

Tale imagine mi il modo di significare la qualità del nostro godimento nel seguire il gioco mimico di Aloisia Bàccaris davanti alla tastiera d’avorio e d’ebano. La sua ossatura è musicale come se l’avesse congegnata un bonissimo liutaio. Sembra talvolta che i suoni sieno dati dai suoi nervi tesi e non dalle corde percosse. Tra il piede che preme il pedale e la nuca prona sopra la contrattura delle spalle che sostengono il movimento delle braccia, le onde della sua energia sono come le onde armoniche.

È uno squisito istinto quello che la conduce a scegliere vesti di apparenza metallica per l’ora della sua musica. La veste argentina dell’altrieri faceva pensare a quel rivestimento che attorciglia le corde basse; e il motivo del ricamo pareva derivato dalla rosa d’uno di quei divini strumenti che raccoglieva il principe nella Mantova di Claudio Monteverde.

Chi aveva posto allato del leggìo quel mazzo rotondo di garofani rossi? Per quale ispirazione lirica? Era come il fuoco della melodia e della passione, su quel legno cupo che con la sua linea orizzontale tagliava il bianco delle alte pareti e i fusti degli allori simmetrici.

In una ricerca di stile tanto moderna la sonatrice vestita d’argento, con quel suo stretto viso ulivigno di piccola greca dell’Asia minore, ricomponeva «l’unità dell’emozione di bellezza» che fonde in un attimo tutti i tempi e tutti i segni.

Così la sua capellatura, folta e arida come doveva esser quella delle Tiadi furenti a cui la tempesta strappava le ghirlande di pino, si compone di capelli neri, di capelli fulvi e di capelli canuti commisti in matasse che hanno per intrico un segreto notturno.

Quale poeta rappresentò la Giovinezza seduta a fianco del Tempo, spalla contro spalla, gota contro gota, così che la canizie immemorabile si mescolava alle ciocche brune?

«E i sogni sonori della Giovinezza si sospendevano negli orecchi del Tempo, e la dura verità del Tempo s’alleviava negli orecchi della Giovinezza

Quando le mani forti hanno cessato di trarre dalla tastiera la massima sonorità come da un’orchestra compressa, nel punto in cui la pienezza si assottiglia in un disegno melodico puro, la sonatrice allenta l’arco del collo e lo sforzo delle spalle con un respiro, levando la faccia e rovesciandola indietro. Allora con eguale intensità riluce il bianco degli occhi nello sguardo alzato e riluce il bianco dei denti nella bocca socchiusa: due smalti preziosi.

Poi la faccia novamente s’inclina.

Le mani percorrono le ultime note.

La sonata finisce, non la musica.

Lo strumento vibra, e si placa.

L’applauso importuno distrugge l’incanto.

La fronte dell’incantatrice rimane nell’ombra dei capelli e della tristezza. E sembra soffrire.

Sembra soffrire d’una melodia futura.

Al tempo del mio lontano amore per i libri e per i mestieri, mi pare d’aver letto in un dialogo di Vincenzio Galilei «sopra l’arte di bene intavolare e rettamente sonare la musica negli strumenti artificiali di corde e di fiato», o forse altrove, come la figlia di non so più qual cavaliere o console di Roma fosse nata con sei dita per mano ben disposte e in che modo potesse di un simile portento avvantaggiarsi nelle intavolature di liuto il sonatore.

Il caso mi ritorna nella memoria mentre guardo le mani di Aloisia Bàccaris trattare la tastiera con una potenza e una larghezza fuor di misura. Come ci fu chi aggiunse un nuovo nervo alla cetera ereditata e moltiplicò gli accordi, così sembra ch’ella sia riescita per miracolo a rendere più numerosa la sua maestrìa.

Una giovine donna morbida, di quelle che amano di essere continuamente lisciate dalla lode e contendono alle vicine la minima stilla di miele, ieri s’indispettiva nel negare ogni bellezza alle mani della bella sonatrice.

Si sa che io me ne intendo. Qualche mio studio di mani è nelle raccolte preziose degli amatori, disegnato or è molti anni, quando ero un grande artista malcontento. Ve n’è alcuno, senza offendere la modestia, che eguaglia in precisione e in acume il tratto di Hans Holbein.

Non mi piacciono le mani piccole e dolci, né quelle che sentono del grassetto, come direbbe la badessa di Coverciano. Mi ricordo che, quando il ladro sublime della Gioconda portò al mio rifugio della Landa la tavola avvolta in una vecchia coperta di scuderia, mi posi ad abominare le mani molli di Monna Lisa, costretto ad averle sotto gli occhi per giorni interi, durante la speculazione metafisica che mi aveva proposta il rubatore.

La storia anèddota del Caffè Florian racconta che in una sera di luna sul Canalazzo, per placare la inquietudine d’una interlocutrice platonica, io le abbia maliziosamente dichiarato non essere le mie mani attive se non le radici della mia anima. È storia antichissima. Non me ne ricordo. Ma l’imagine mi conviene per quel che v’è di misterioso, di vigoroso e di essenziale nella radice confrontata all’ossatura della mano.

Secondo la legge dello stile, una cosa è tanto più bella quanto più ella manifesta nella sua forma la sua destinazione. Un levriere o un cavallo da corsa bene allenati, le gambe di Ida Rubinstein, il corpo di un vero ardito reduce dai guadi del Piave, le modellature e commettiture del mio politissimo cranio, per esempio, sono tra le più espressive bellezze del mondo. L’analisi e la sintesi del più potente disegnatore non saprebbero meglio rilevarne e approfondirne il carattere; il quale è già tanto compiuto che, com’è detto nel Maestruzzo, «per morte non si può da loro ispartire».

Nello stesso modo il massimo grado del carattere distingue le mani della sonatrice veneziana. La forma è ridotta all’essenziale dalla perizia: tutta muscoli e tendini e giunture assoggettati alla mera sensibilità musicale, simili agli organi di uno strumento animato e affinato dall’assiduità delle sue proprie vibrazioni. Il vigore è ambidestro. Si distribuisce egualmente in tutte le dita: l’anulare è forte quanto il pollice. Ma, a riprova tecnica del verso goethiano, la vera forza creatrice risiede nella falange che porta l’unghia.

Una istantanea vita si crea dalla sommità che tocca percote e scorre.

C’è una maestrìa senza vita. La conosciamo. Ne abbiamo tedio e fastidio.

Questa è un dono perpetuo. È come una trasparenza sensuale apprestata alla rivelazione dello spirito. È come una obbedienza perfetta che si offre al movimento interiore. Il modo meccanico di ottenere la rotondità o la tenuità di un suono è come preceduto dall’aura segreta dell’ispirazione e dell’invenzione. Per ciò spesso questo gioco somiglia al rapimento, e talvolta al desiderio del martirio.

Penso a quella Santa Caterina di Alessandria che in una tavoletta di Cesare da Sesto tiene le belle mani musicali, come su i tasti di un organo portatile, su la ruota dentata che deve lacerarla; ed è assorta nel modulare dentro sé la sua melodia inaudita.

Ecco un grande corale di Sebastiano Bach.

Prima d’intraprenderlo, la sonatrice guarda davanti a sé come per abbracciare tutta quanta l’architettura sonora, non apparente se non a lei sola. E già in quel silenzio preliminare è il senso della vastità e dell’equilibrio, il raccoglimento religioso, e una specie di risolutezza maschia che fa pari al cómpito la creatura lieve.

Le prime note sono poste come il fondamento della cattedrale. La cattedrale si leva in una chiarità che non è di questa terra. Gli operai invisibili lavorano col ritmo sicuro dei cuori che attendono di salire a un’altra vita. Il volere del tema è il maestro che conduce l’opera saliente.

Ora chi ha messo alle sue labbra gonfie la tromba del giudizio avvenire?

Ora chi ha coronato con la fiamma bicorne di Mosè la sua fronte dura?

Ora quale arcangelo in armi ha comandato al mattino di svincolarsi dalle braccia della notte affannosa?

Ahi, l’ombra del Signore che cammina dinanzi a me è così lunga che, per timore di calpestarla, io non posso avvicinarmi a Lui, né toccare il lembo della sua veste.

E chi sono questi bianchi profeti digiuni che vengono a piangere su questo sepolcro aperto dove non è rimasto se non il lino e il balsamo e un poco di bagliore?

Io parlo a me medesimo come al mio nemico mortale. Non amerai mai più. Non spererai mai più. Non dispererai mai più. E il regno sarà tuo.

I grandi periodi sorgono dalla percussione con una evidenza poetica che io posso trascrivere. La tastiera breve, ampliata dall’ampiezza del tócco, diventa sinfoniale. Dal corpo supino dello strumento nasce la visione d’una selva di canne. L’anima dell’organo attraversa le corde coricate. La pedana bassa è un’aerea cantoria. Tutte le linee si inalzano. Percossa la nota rimbalza al vertice.

Si pensa al motto orgoglioso di Carlo Orsino: Percussus elevor.

Il viso della sonatrice s’è indurito nella potenza. Le narici aperte e rigide sono come intagliate nell’avorio dei dittici. Due ombre cave appariscono ai lati della bocca, nella contrattura dello stretto mento. Le corde del collo si tendono, si allentano, guizzano, come se rendessero visibile lo sforzo del cuore. Il piede sul pedale è arcuato come quello della sibilla che non può seguire il volo del suo carme in foglie.

Questa è arte severa.

Offriamo una esatta corona di quercia a questa interprete di preghiere imperiose.

È la medesima che riconduce con tanta grazia le vecchie danze d’Italia, gighe sarabande pavane, e, rincorrendo su la tastiera l’amore senz’ali calzato stretto, ha di quando in quando l’aria di burlarsi d’una novizia che sbaglia il tempo e ritarda la volta o la ripresa?

È la medesima che batte con tanto ardore la cadenza andalusa o cubana e sembra violentemente configgere l’ultima nota nella sua criniera e nella sua follìa come un garofano di fuoco perverso?

È la medesima che tesse e ritesse la disperazione dei Notturni non con le sue dita vive ma con quelle più pallide specchiate dinanzi a lei dall’ebano fùnebre?

C’è chi ha un volto per ogni amore; c’è chi ha un’anima per ogni musica.

Ecco Girolamo Frescobaldi; e la solenne onda che solleva il capo della Vittima trafitto dalla corona senza fiori.

Ecco Claudio di Francia; e il vento della montagna vertiginosa che solleva le pieghe e le bende della danzatrice di Delfo.

Chi tanto vigore e chi tanto languore, nei suoi modi alterni, a questa interprete di passioni e di sogni?

La stanza è quieta e semplice. La cupa lucentezza del lungo pianoforte orizzontale la domina. Gli ospiti pochi hanno scelto il loro luogo, secondo la simpatia delle cose; e parlano basso. Il mio cane, prima di accucciarsi sul tappeto liscio, gira su sé in tondo ripetendo l’atto dell’àtavo selvaggio che separava e piegava così l’alta erba della prateria originaria; e il senso della solitudine e della lontananza al mio spirito affaticato dalla ressa dei partigiani. Per le larghe finestre la Città di vita, che senza colpo ferire presi laureata in un mattino di settembre, oggi appare coronata di violette. Da Zamet a Santa Caterina, da Cantrida a Drenova, la terra di san Vito fiorisce e aulisce. Sembra che si affranchi dal patimento e dal corruccio per rinnovellarsi, come si sprigiona dal sasso carsico per costruirsi. Non ricostruirà sé stessa nello spazio spirituale degli eroi? Io sono la sensibilità di questo essere che si forma. Oggi lascia a me tutta l’angoscia, e si dimentica.

«La guerra divina scrosciava sopra lui solo.»

«Non avete potuto vegliare neppure un’ora con me.»

La consolatrice solleva il coperchio d’ebano e pone le mani sopra l’avorio con un gesto leggero.

Sa che fra tutte le materie plastiche la malinconia è la più docile, e che non conviene la forza per modellarla.

Udiamo a un tratto il vento della stagione scuotere le giunchiglie del davanzale e portarci un sogno sognato in una di quelle isole che non hanno più nome su quel mare che non ha più amarezza.

Che è questa musicai? E le dita che la creano dove hanno appreso quest’arte di legare le note come la voce lega le sillabe distaccate dal cuore senza far sangue?

Ci sono attimi, fra la vita e la morte, fra la terra paziente e il cielo clemente, ci sono attimi colorati da uno spirito che non è la gioia e non è il dolore, nascosti dove non può ritrovarli se non l’indovino errante. E hanno le loro cadenze in questa musica.

Ecco che le vene son prese da suoni avvolti a spira come i viticci che nascono dal tralcio della vite e c’è chi passando li coglie teneri come sono e quanto più ne assapora l’asprezza più gli piace; e la vite non avrà più mani per appigliarsi al suo sostegno.

«Egli è morto. È morto l’Orfeo dei sogni interrotti! Il miele melodioso non cola più dai favi: perito è nella cera per il dolore…»

Penso a quel che può essere il sepolcro di Claudio. Dove? nell’Isola di Francia tremolante di pioppi e di rivi? Non so imaginare la tomba di questo aereo inventore. Non so imaginare sopra lui quel che pesa e suggella. L’epigramma greco, che invoca la leggerezza della terra coprente, conviene alla sua sensualità senza carne.

Credevo che non sarebbe morto prima di me, e che forse l’avrei riveduto su la soglia della sua casa lirica affacciata verso i binarii brutali di tutte le partenze e di tutti gli arrivi.

Sera lontana sopra un campo di volo terminato da montagne di zaffiro, dove la notizia improvvisa giunse per entro al rombo della guerra e non fece tremare nessuna ala! Un lembo dell’antico lamento di Sicilia palpitò fra le macchine alate pronte alla distruzione atroce, governate dal ritmo assordante dello scoppio. «Usignuoli, annunziate ad Aretusa ch’egli è morto e che il canto è perito con lui… Omai chi canterà su le sue canne

Taluno de’ miei giovani distruttori, che qui taciturno aspetta di sacrificarsi alla divinità del Dinara, non ha dimenticato lo schianto della mia voce nel mio comando di partenza. A me il premio della mia guerra non era se non il compimento dell’opera di poesia e di musica che avevamo disegnata e che sentivamo di poter condurre di dalla nostra ansia di rinnovazione e di perfezione. Ecco che un’altra causa a sopravvivere mi veniva meno. Dal rombo della mia macchina alata mi sorgeva il più inebriante degli inni funebri. Con le mie armi pesanti e con la mia frenesia spirabile io portavo meco il mio fratello latino avvolto nella mia laconica porpora.

Ma io son qui: gli sopravvivo forse per la fatalità d’un altro compimento.

Se egli vivesse, io gli condurrei questa flessibile compagna di Bilitis, a cui sembra ch’egli abbia appreso in sogno il suo divino segreto.

Eppure quel che più meraviglia in questa flessibile grazia è la sua potenza subitanea, il suo modo impetuoso d’intraprendere le grandi sonorità veloci: la pienezza e il tumulto.

Per ciò, molto cara ai più squisiti uditori, ella è capace di sollevare una folla di soldati rudi e di inebriarla.

Questa piccola Italiana indòmita è una viva forza della Città di vita. Dove la vittoria sta nel perseverare, questa perfezione fatta di perseveranza è un esempio animatore. I Legionarii si levano in piedi, nella sala folta, per seguire con gli occhi attoniti il gioco delle mani possenti. Restano come sospesi al mistero di quella maestrìa sovrana. Sentono di quanta esperienza, di quanta insistenza, di quanta fatica, di quanto coraggio sia nato quel miracolo che li rapisce. Sanno che cosa sia l’addestrarsi, che cosa sia l’allenarsi, che cosa sia il movimento preciso e il colpo al segno. Amano e ammirano quasi una compagna di guerra in quella piccola creatura energica «bruna come l’oliva» che in certi momenti sembra trasporre nella sua arte l’ardore e il vigore dell’assalto.

Due Arditi, che poco prima nel campo avevano fatto davanti a me un meraviglioso duello con le loro bombe da gitto, rimanendo incolumi tra scoppio e scoppio, ruppero in grida di entusiasmo alla fine di una dannata Fuga e corsero a baciare in ginocchio quelle due mani terribili su cui si chinava un sorriso sbigottito di sorellina inerme.

Come la svolta di un camminamento ingorgato, la sala era piena di fanti che s’incalzavano e tumultuavano. Parevano esciti allora allora da una trincea rossastra del Carso, così conci dalla miseria e dalla fame di Fiume. Avevano masticato il pane peso come un mattone di mota risecca condito di vermi; ma avevano bevuto su quel pane l’orgoglio della dedizione alla Causa dell’immortalità.

Per ciò tanta anima costellata d’occhi splendeva sopra quella massa bigia.

Protesi verso la compagna che aveva donato così grandemente, essi chiedevano: «Ancóra! Ancóra

Pallida, comprimendo nell’una mano e nell’altra il tremito muscolare, ella rispondeva le parole della fragile eroina che le somiglia: «Non posso. Ho dato tutto.»

Implacabili gli uomini, mal nutriti mal vestiti mal calzati ma pieni d’un respiro magnifico che non era quello dei loro polmoni, le gridavano: «Ancóra! Ancóra

Ella si volse. Tornò verso la tastiera, si risedette; e allargò le spalle, sollevò il petto, rovesciò il capo indietro, come una cantatrice che si prepari.

Inaspettatamente aprì le labbra e cantò.

Intonò il canto del mattino di Ronchi. E tutti avemmo il medesimo sussulto.

Fratelli, fratelli,

lodiamo il Dio vivente!

Nessuno le conosceva quella voce, nessuno le conosceva quell’altra forza. Vedevamo a un tratto apparire sotto l’elmetto dei crini una conduttrice di cori guerrieri.

Garibaldi a cavallo è con gli insorti.

Fuori i barbari!

Fuori i barbari!

Italia! Italia!

I nuovi Mille han preso la città.

Il fremito dei combattenti sforzava le quattro mura.

Ella aveva invocato due volte il nome della Patria con un accento così maschio che a ciascuno di noi era parso di sentirlo salire dalla profondità della sua propria passione.

E la sua voce non fu più sola. Il coro scrosciò sopra lei senza sommergerla. Il suo capo alzato era pur sempre l’apice del canto. Ella rappresentava in carne quell’estro del canto che sorse dalle quattordicimila croci di Ronchi senza pace, e venne con noi nella notte garibaldina, e invasò la nostra impresa; e da allora accompagna i nostri passi per tutte le strade che vanno all’avvenire.

Cristo è con noi, che dal Calvario scende.

Fuori i barbari!

Fuori i barbari!

Italia! Italia!

Qui si combatte e non si piange più.

I fanti s’erano aperto il varco fra le sedie trattandole come cavalli di Frisia. E s’accalcavano intorno alla intonatrice impavida, attentissimi alla sua misura. E gli Arditi chiomati come gli Achei levavano i pugnali a ogni ripresa; e le facevano intorno un serto di vendetta.

Italia! Italia!

Noi vinceremo o moriremo in te.

È dunque giusto che al mazzo di garofani sanguigni offerto ieri ad Aloisia Bàccaris i Legionarii di Fiume abbiano sospeso per l’estremità del nastro dai tre colori fiumani la medaglia di Ronchi dove l’insegna confitta dell’Aquila è guardata dal ferro impenetrabile dei liberatori.

Fiume d’Italia: primavera del 1920.




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