Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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DELLA DECIMA MUSA E DELLA SINFONIA DECIMA

DANTE GLI STAMPATORI E IL BESTIAIO

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DANTE GLI STAMPATORI
E IL BESTIAIO

Nell’anno mirabile della ricordazione e della promissione, è bello che anche la Patria abbia il suo trisagio come l’Iddio Signore tre volte santo.

Dall’altura settentrionale del colle capitolino Roma, celebrando nell’inno di pietra la terza vita d’Italia, sembra batter col piede su l’antichissimo sepolcro del suo edile repubblicano il novo ritmo degli intercolunnii.

Torino, la città formatrice nel cui vigore civico idealmente si perpetua il tetràgono che disegnava la sua primiera cerchia augustèa, alza dal suo stadio in un vasto coro virgineo il carme delle primavere che furono e di quelle che non nacquero.

Firenze, quasi nel suo cielo atteggiata da quella stessa terribil mano che nella Sistina voltò la sibilla di Libia a reggere con le due braccia l’aperto volume come la cetra del mondo, dice: «Ecco il Libro».

Ecco il libro novamente impresso nel modo giuntino, che è un modo musicale, da uno stampatore usato di praticar con l’ingegno nella bottega accanto alla Badia, apud Juntas. L’ornano le imagini dell’arte ingenua, lo dichiarano le glose della recente sapienza, lo distinguono le rubriche di quel bel rosso vivo che pare attinto alle porpore del prisco Giglio. A volta a volta vi traspare in filigrana, per la pagina che sotto il dito volgente crepita o garrisce, l’effigie laureata del Cantore entro la corona chiusa come il cerchio dell’Eternità, e il nome del bibliopòla deditissimo scritto in sigla entro il cuore diviso e crociato ch’è segno d’amore e di travaglio. Lo spazio dei margini, la distanza tra linea e linea, la disposizione dei fregi, la collocazione dei segni, tutte le varie accortezze e grazie della stampa seguono la regola medesima che conduce il musico o l’architetto nel compartir gli intervalli. E da una singolare vicenda, che per ricorrere varca più di quattro secoli, sembra accresciuta la nobiltà del lavoro.

Quando i procaccianti del Bessarione vedendo nelle tremule mani di Costantino Lascari l’incunabolo portentoso irridevano a quel trovato di Barbari, quando Federico da Montefeltro in mezzo al suo stuolo di copiatori mostrava d’avere a sdegno e a stomaco la novità di Alemagna arricciando quel naso gibbuto che s’infutura nel dittico di Piero de’ Franceschi, un orafo e zecchiere di Foligno, pratico in intagli di acciari e in istampe di conii, chiamato Emiliano Orfini, primo fermò il pensiero di mettere in torchio il poema di Dante.

Questo vivace erede d’una famiglia privilegiata di zeccar moneta e pel Comune e pel Papa e pel tiranno, possedendo una prospera cartiera sul Sasso di Pale, era tratto dall’arte sua stessa e dai suoi stessi negozii a ben considerare «quella invenzione dei punzoni e delle matrici e dei caratteri mobili». Spesso il suo cavallo grosso ambiava su la Via Flaminia verso l’Urbe e di tornava alla turrita Porta Romana ove forse lo attendeva per novelle qualche Folignate di molte lettere come Silvestro Baldoli o Nicolò Tignosi o Federico Buonavoglia. Era egli in contratto con quei due Alemanni del monastero di Santa Scolastica per fornir carta di Pale ai bisogni della stamperia? Aveva egli avuto tra mano un di quei lor volumi? il Donato? il Lattanzio?

Le nuove opere si compivano in vista dell’orto ove san Francesco aveva cangiato in rose le spine di san Benedetto. La santità umbra proteggeva la paziente e diligente fatica. Or non fioriva in Foligno un ottimo grammatico, il Cantalicio, custode della latina favella, arguto amico di Terenzio, capacissimo di emendare e chiosar testi? L’Orfini ardeva di stabilire un par di torchi nella sua casa all’ombra di San Feliciano. Per ovunque il gemito della vite a quattro capi pareva annunciare una nuova stagione come il grido della rondine. Forestieri opravano dove si potesse, da Giovan di Spira favorito di privilegio in Venezia al prete di Strasburgo impiantato in Napoli aragonese. Ma Bernardo Cennini in Firenze, ma Baldassare Azzoguidi in Bologna già con prontezza italica si davano a studiar quell’arte, vi s’addestravano e affinavano, togliendo la maestria ai maestri, forieri della prossima eccellenza.

Or una sera, a Roma, in una bottega su la Via delle Coppelle, il Folignate s’incontrò con un omaccino di Colonia che portava un pellicciotto rossigno come la sua barbuccia di becco e una berretta lunga che gli ricadeva su gli occhi delicati per proteggerli dalla luce soverchia. Costui tastava la carta di Pale con tre dita annerite che lasciavan la traccia nel bianco. Di tratto in tratto si poneva una mano sullo stomaco per rattenere e risollevare qualcosa che lo gravasse: un sacchetto di cuoio pien d’olio caldo, ch’ei portava per suoi malanni all’usanza aristotelesca. Era lo stampatore Giovanni Numeister.

Divenuto socio dello zecchiere umbro, il maestro renano su la riva del Tupino fondò la stamperia memorabile ond’era per escire il primo esemplare impresso della Divina Comedia.

Nel mille quattro cento septe et due

Nel quarto mese adì cinque et sei

Questa opera gentile impressa fue.

  Io Maestro Johanni Numeister opera dei

Alla decta impressione…

Momento di misterioso valore quello in cui, brillando l’aprile su gli olivi della terra serafica e ai davanzali e alle soglie della casa di Emiliano Orfini, adattò il buon torcoliere la forma dei caratteri sul torchio e girò la vite di legno come a uno strettoio da uve per premere l’ultimo foglio. Era il tempo di pasqua, che soleva muovere «una volontà di dire» nel giovine Alighieri prima dell’esilio; era la «dolce stagione», che confortò la paura del pellegrino impedito dalla lonza leggiera, al cominciar dell’erta, prima che il savio Duca gli apparisse.

Mi piace d’imaginare che quivi fossero convenuti quanti la grazia dell’Umanesimo aveva tócchi e spetrati a dentro. Eravi forse il grammatico, e taluno de’ suoi scolari ben chiomati come i compagni dalle verghe nello Sposalizio d’Ottaviano Nelli. Forse v’erano Sigismondo de Comitibus e Marco da Rasiglia, che anch’eglino avean già veduto per sé medesimi «l’arte del dire parole per rima»; e Michelagnolo Grilli, il litteratissimo cancellier del Comune; e il vescovo Antonio Bettini, il Senese che, in Fonte Branda avendo bevuto come Enea Silvio l’amor d’ogni dottrina, doveva poi mandare alle stampe il suo Monte Santo di Dio presso quel Niccolò di Lorenzo della Magna intento già a preparar le forme pel comento di Cristoforo Landino e per le imagini di Sandro Botticelli. V’era forse anche l’Alunno, che conosceva la malinconia del mondo e la bellezza del pianto come l’amatore il quale un giorno aveva disegnato figure d’angeli su certe sue tavolette; e veniva egli forse dall’aver dipinto in Duomo i due sublimi Angeli piangenti.

Penso che tutti tacessero, e che non s’udisse quivi se non stridere il legno tra mastio e chiocciola, fuori garrire qualche balestruccio, e l’infinito anelito della primavera a quando a quando. Mi sembra che nella loro inconsapevolezza dovessero almen sentire l’ansia d’una vita nuova, la rinascita d’una grande cosa occulta, e quella immobilità che è nell’asse quando la ruota gira, potendo quel punto della città murata apparir quasi centro ideale dell’Italia bella in quella guisa che l’ònfalo di Delfo era fatto centro del greco mondo. Come Dante congiunge talora per similitudine una visione misteriosa del suo spirito all’imagine franca d’un atto corporeo, così quell’incognito indistinto si raccoglieva nel tremito delle mani occupate a trarre pianamente di sotto il torchio il fresco foglio che solo mancava alla perfezione dell’opera, mentre il socio zecchiere e gli astanti si facevano alle spalle curve del mastro per leggere su l’ottima carta di Pale i caratteri intagliati coi punzoni alemanni:

L’Amor che muove il Sole e l’altre stelle.

Oggi, dopo più di quattro secoli, al verso del supremo fulgore succede una formola che dice come nell’inclita Firenze con lo stile dei Giunta abbia Lorenzo Franceschini impresso il poema per adempiere il mandato di Leone Olschki. È invertito l’officio. Lo stampatore è toscano, il promotore è tedesco ma per la vita deditissimo al culto di Dante, libraio principe fra i più potenti di studio e di fortuna; che, ingentilito in Venezia come Vindelino, parve poi rinvenir la saviezza e la sagacità di Vespasiano da Bisticci sul soleggiato lungarno degli Acciaioli.

Di gran pondo è il volume, serrato nelle due assicelle nel suo corame e ne’ suoi ferri, da porre in sul leggìo come il Saltero e l’altra Scrittura santa, o da custodire in un cofano simile a quello che predarono i vincitori sotto la tenda di Dario, nel quale il Macedone serbar volle il poema di quel Greco

che le muse lattâr più ch’altro mai.

E, poiché il dotto e animoso comentatore è d’insigne stirpe cortonese, penso che converrebbe riaccendervi dinanzi per memoria e per presagio, col più lieve olio di Lucchesìa, la grande lampada etrusca di Cortona, quella bronzea cerchia d’iddii e di mostri girata intorno alla maschera fatale della Górgone, ove s’avvicendano la mammella e l’ala, il diadema e l’onda, la strage e la musica, la sampogna di Pan e la tibia di Pallade, la pantera balzante e il guizzante delfino, forma più carica di fecondità che non la guaina della Diana Efèsia.

Ma mi sovviene dei quaderni sgualciti e sconnessi ch’io vidi un giorno in mano a un bestiaio della Maremma, opera d’un de’ suoi vecchi selvaggi copiatori, più cari a lui che non fosse al duca d’Urbino il gran codice alluminato. E del ricordo m’appago.

Era la cantica dell’Inferno, trascritta forse con una sola penna come quell’Alcorano del Soldan circasso regnante in Egitto. Al bestiaio veniva per retaggio della sua gente, con la sella bene arcionata, con la lacciaia manevole, con i cosciali di pelle di capra, con l’uncino di legno di corniolo. Io aveva veduto l’uomo alla vacchereccia, in tempo di merca, vedutolo afferrare per le due corna la vitella già presa e trascinata dal capoccio a cavallo, abbatterla con una stratta, cader con essa a terra e incornarla, poi sedersi nel cavo fatto dalle zampe impastoiate sotto la pancia palpitante, attendere che venissero i marcatori co’ lor ferri roggi, alla bestia marcata intagliar col coltello l’orecchia e gittar nel mucchio pel novero il pezzo di cartilagine sanguinente.

L’incontrai, dopo alcun giorno, nella macchia, lontano dai mandrioli cimentosi, quando il puzzo delle cuoia affocate e dello sterco espulso dal terrore era vanito coi fumi coi mugghi e coi gridi nel vento di maggio.

Stava sotto a una sughera il cui tronco, scorzato di recente, mi pareva aver lo stesso colore del segno che rimane tra il pelo annerito dalla bruciatura del marchio; il qual colore somiglia pur quel dei fittili che ornava di figure geometriche il vasaio etrusco imitando gli antichissimi, nati avanti l’arte dell’Ellade. Così l’uomo mi richiamava alla memoria il lineamento del guerriero con la càsside, che soprasta a una tomba della necropoli di Vulsinii. Così i puledri dal lungo crine e dall’alte gambe, intorno pascolanti, mi rammentavano i cavalli aggiogati ai carri nei giuochi funebri in onore di Patroclo sul famoso vaso. L’errore del tempo era abolito; e tutte le cose erano fatte d’eternità come il cielo cavo; e la nuda vita era simile a un’arte recondita.

Nelle mani sforzevoli, atte a incornare impastoiare mutilare, il bestiaio teneva i suoi quaderni come foglie e scorze. «Che leggi?» gli chiesi. «Il mio Dante» mi rispose. «Di grazia, leggi ad alta voce» pregai. Non si peritò.

Divinità del Canto! La selva selvaggia ed aspra e forte era d’intorno; e il vento animava fin le tombe nascoste sotto il suolo, valicando i forteti di Monteverro fertili di cignali, i Poggetti che ama la beccaccia, le Forane ove il bandito vuol morire, e di da Tricosto le rupi di Ansedonia, e più lungi la Via Aurelia, più lungi il pian di Vulci, la grandezza dei nomi che dilatano le solitudini, la tristezza del mare che ha un sol lido per piangervi un pianto senza fine.

Quando la voce rude si tacque, sembrò che il coro aereo delle allodole rapisse l’ultima rima e la traesse oltre la bianca nuvola e mille volte la modulasse nei suoi modi e ne facesse un inno sempre rinascente e d’attimo in attimo più la inalzasse fino al culmine del giubilo e del fulgore. L’uomo guardava in alto attonito come se quella melodia salisse da’ suoi quaderni e da’ suoi precordii. Senz’aver letto la suprema cantica, or egli conosceva in luce e in suono l’arte del Paradiso.

Non altrimenti è da conoscer tutto Dante. Il bestiaio di Maremma me l’insegnò; che meglio di me sapeva riceverlo sotto la specie del canto eterno, col medesimo orecchio prendendo gioia dal trillo dell’allodola e dalla terza rima. Non si gravava di chiose il suo selvaggio codice, né egli dimandò mai ad alcuno che le oscurità gli fossero chiarite; ma il suo puro sentimento lo induceva a inchinar l’anima verso il poema sacro come verso «una musica imperscrutabile».

Per ciò auguro che fra cinquant’anni, pel Centenario della Nazione costituita, alfine il Libro sia offerto agli Italiani nella sua sublime nudità come s’addice a creatura tutta quanta viva ed immortale; se non giovi sperare che ciascuno di suo pugno lo trascriva, come per averlo in possessione di corpo e di spirito. Considerando il gesto dell’eroe romano dagli occhi grifagni nella giornata del Faro, quando gettatosi in mare sotto il saettamento egli tenne sempre levato nella manca il rotolo fuor del flutto, mi sembra di vedere in esso una similitudine di ciò che il nostro Genio comanda alla nostra virtù nella nostra guerra. Elata laeva.

E come la Comedia è una imperscrutabile musica, così Dante è un onnipresente mito. Chi dunque s’attese che io componessi la sua biografia? Dell’averne avuto il pensiero e assunto l’obbligo io mi vergognerei, se l’uno e l’altro non avessi portato in me fino a oggi come affanno e cruccio e quasi rimorso invitto. Ha egli cessato di vivere e di apparire?

I più profondi iddii non sono quelli che creano la stirpe ma quelli che la stirpe crea. In tutto l’Occidente, anzi in tutta la Cristianità, non è creazione più durevole di quella che Dante compì su noi né più mistica di quella che noi compimmo su Dante. Di tutto ciò che è terribile, di tutto ciò che è magnanimo, di tutto ciò che è sublime noi facemmo lo spirito dantesco, noi creammo il nume dantesco; il quale è come un interior fuoco di bellezza, accolto nell’imo della nostra natura e non manifesto se non talora per sùbita vampa o per isterminato baleno. Si può dunque dire che questo libro sia il Libro del cànone italico. Quando in un’opera d’arte o in un’opera di vita batte il suo ritmo, si può dire che qui compitamente si rilievi o si stampi il più severo carattere della nostra potenza. Quella figura è dantesca, quell’azione è dantesca. Anche i luoghi se ne risentono, come trattati dal pittore o dallo scultore invisibile. Quella piaggia, quella rupe, quella palude sono dantesche.

Nacque egli da un Alighiero di Bellincione degli Alighieri e da una donna Bella, in una casetta posta su la piazza dietro a San Martino del Vescovo, presso la Badìa? Ma se io salgo alla chiesa superiore d’Assisi in un mattino di maggio e odo per le mura cantare l’anima umana nella gloria del cielo approssimato, sento che quivi egli nasce ed abita. Se entro nella Cappella Sistina e guardo quella sovrumana volta che è come il portale del Fato occluso dalla forza del dolore e dall’attesa d’una moltitudine eroica, sento che quivi egli nasce ed abita.

Amò egli Beatrice di Messer Folco di Ricovero dei Portinari? Mise la man cruda nei capegli della «bella pietra» a saziarsene? Si piacque d’una Gentucca? Ma se leggo tal parola della Vita Nuova, tal verso della Comedia, sento ch’egli ha tenuto su le sue braccia scarne l’Amore svegliato dalla lampada di Psiche e gli ha ridato il sogno col suo canto.

Fu egli buon feditore? Combatté egli a cavallo sul piano di Campaldino contro i Ghibellini di Toscana e di Romagna? Fu a oste contro Caprona con la cavallata della Taglia guelfa? Ma nessuno meglio di lui sa l’orrore della morte sanguinosa, il sangue che gorgoglia nella gola forata, la vista che vacilla e si spegne, il gelo del corpo voltolato dalla rapina delle acque. Ma l’Aquila romana non volò sul mondo con un rombo così veloce e così vasto come vola nelle sedici terzine del cielo di Mercurio.

Da indi scese folgorando a Juba,

poi si rivolse nel vostro occidente,

dove sentìa la pompeana tuba.

Il tuono della guerra echeggia in questi versi immensi, da continente a continente. Le vie della terra risuonano sotto la ferrata celerità cesarea.

E fu egli preposto dal Magistrato fiorentino al raddrizzamento della viuzza di San Procolo, insieme con Ser Guglielmo della Piacentina notaio? Una sola data è solennemente da ritenere e da celebrare, quella del bando: addì ventisette di gennaio dell’anno mille trecento due. Il priore compagno d’un Noffo di Guido Bonafedi e d’un Bindo di Donato Bilenchi, il contumace accomunato con un Lippo Becchi e con un Orlanduccio Orlandi, il fuoruscito bianco per le vie dell’esilio entra nel suo vero mondo e nella sua vita vera, si accinge a compiere il suo destino eroico sotto la specie dell’Eternità.

Che importa se egli sia della ragunata di San Godenzo, s’egli erri da Verona a Padova, da Padova in Lunigiana, di Lunigiana in Romagna? E che son mai per lui il Comune guelfo nero, lo Scaligero, il Malaspina, l’Ordelaffi? Vide egli Arrigo VII in Milano e inchinò la maestà imperiale? Ma egli fa sì che l’ideal tipo dell’Imperatore senza nome e senza volto splenda per sempre nella nostra imaginazione sotto un ondeggiamento innumerevole di vessilli.

Intorno a lui parea calcato e pieno

di cavalieri, e l’aquile nell’oro

sovr’esso in vista al vento si movieno.

È Traiano? È Arrigo di Lussemburgo? È l’Imperatore. Omai di tutto egli tocca il fondo, egli esprime l’essenza. Quel ch’egli guarda, gli appartiene in perpetuo. Secondo la parola del Mistico, il suo occhio e ciò ch’esso vede sono una cosa sola.

Il più acuto e intento occhio umano quello che vide apparire la città rossa di Dite, Filippo Argenti abbrancare il legno di Flegiàs, gli avelli scoperchiati ardere, Farinata drizzarsi, il padre di Guido ricader supino, Chirone scoprirsi con lo strale la gran bocca, sanguinare lo sterpo di Pier della Vigna, le nere cagne dilacerar Lano e Jacopo, Vanni Fucci squadrar le fiche a Dio, la fiamma cornuta d’Ulisse e di Diomede crollarsi mormorando, Oderisi torcersi sotto il peso del sasso, i compagni di Sapìa dalle palpebre cucite sorreggersi a vicenda con la spalla come i ciechi mendicanti alla porta delle chiese levando il mento in su. Il più profondo e immoto occhio umano quello che sostenne la vista nuova del miro gurge, della candida rosa, di tanta moltitudine volante, e dell’Ultima Salute.

Chi avrebbe potuto fisarlo? Qual degli antichi artefici avrebbe saputo ritrarlo? E dove cercheremo noi la sembianza di quegli che sbigottì le donne di Verona? Nella Cappella di Santa Maria Maddalena al Palagio del Podestà? nella Cappella degli Strozzi in Santa Maria Novella? sul muro di Santa Maria in Porto fuor di Ravenna? nel disegno del codice palatino? nella tavola di Domenico di Michelino? nella miniatura del manoscritto riccardiano? Ma anche il suo volto è mitico, scolpito dalla necessità del suo proprio spirito e dalla necessità della nostra fede.

L’occhio è grande perché aggrandito dalla sua natura vorace e dalla visione continua, cavo e cerchiato d’ombra perché vive da sé, vive in sé, come qualcosa che s’apra solitaria al sommo dell’anima e non abbia attenenza alcuna con gli altri sensi carnali.

Il naso è aquilino come quel che indica il gentil legnaggio, la forza imperiosa, la maschia alterezza; e una ruga lo segna alla radice perché il pensiero la incise e la profondarono i crucci.

Grande è la mascella e robusta perché rilevato sia il lineamento dall’osso che la natura destina a prendere e a stritolare quel che l’istinto ha scelto.

Proteso e appuntato è il mento perché abbia la forma ferrea del conio che penetra e fende il tronco più duro.

La bocca è come un serrame ermetico, suggellata sul gran fuoco interiore, inclusa in due solchi, quasi da due fossi difesa; ma dal labbro di sotto è quel di sopra avanzato perché contro il sopruso e l’oltraggio persista il segno del dispregio immutabilmente.

Un che di sacerdotale e di regale assume dalla benda la fronte; e bendate sono anche le gote a quel modo che il sudario le fascia ai sepolti, perché tutta la figura abbia un che del resuscitato Lazaro, un che dell’uomo sollevato dal miracolo sopra l’ombra della morte.

A.D. MCMXI




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