Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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DELLA DECIMA MUSA E DELLA SINFONIA DECIMA

DELLA MALATTIA E DELL’ARTE MUSICA

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DELLA MALATTIA
E DELL’ARTE MUSICA

Vidi per l’ultima volta Giuseppe Giacosa andando a lui un giorno di primavera tra il tumulto della Città egèmone che con tutte le forze dei voleri e degli ingegni era intenta alla gara dell’opere come la terra alla generazione delle foglie. L’annunzio improvviso della sua fine mi raggiunge ora su la spiaggia deserta, nella sabbia che par già corrugata dal presentimento dell’autunno. Ma questa nuda solitudine si dispone intorno alla mia tristezza secondo la stessa animazione che allora sul mio cammino trasmutava in aspetti di poesia quella materia dominata dalle potenze umane.

La malattia e la morte sono due muse bendate che ci conducono a scoprire in silenzio la spiritualità delle forme. Tutti i poeti – quelli che operano e quelli che cantanodisfacendosi e scomparendo ci ricordano esser noi più strettamente legati all’invisibile che al visibile. Almeno nell’ora finale, in cui la loro imagine si compie, noi sentiamo che la vera vita non è se non un’azione mutua tra le loro idealità e i nostri bisogni. Oggi, guardando la figura della Versilia crescere di bellezza nell’estate che declina, io cerco di rappresentarmi le analogie che fra tante apparenze troverebbe la virtù di quegli occhi se non fosse omai suggellata o forse rivolta verso altri misteri. Io cerco di vedere secondo la sua visione. E la qualità del suo spirito sembra, ecco, diffondersi per alcuni attimi su i lineamenti della contrada. L’interno e l’esterno mondo si toccano nella mia preghiera. Così io soccorro il mio amico nella sua dipartita col più alto dei suffragi.

Non altrimenti mi preparavo, in quel giorno d’aprile, a vederlo miserabile nella sua carne inferma. Quando un punto del corpo è dolente, il polso sembra quivi trasposto, più crescendovi il bàttito come più vi s’infiamma il dolore. Nell’immensa compagine della Città un sol punto mi pareva sensibile: la stanza dov’egli soffriva. Non v’è dramma più patetico di quello che si dibatte tra un intelletto che non vuol morire e un carcame che non sa vivere. Sotto la minaccia della distruzione il mondo contenuto in un cervello potente sembra moltiplicarsi. I disegni, che non furono espressi, vi si determinano e connettono in architetture pronte a sopportare il peso dei più grandi pensieri. Le parole, che non furono dette, vi si armano e serrano in falangi che sembrano irresistibili di rapidità e di sònito, pronte a soggiogare l’anima intera della stirpe imbarbarita. L’opera, ch’era ancor cieca nel germe, si sviluppa e si consolida in forma vivente così che un sol moto d’espulsione, quasi una volontaria contrattura della fronte, possa partorirla perfetta. E, quale dallo sfacelo della malattia sorge l’imagine dello scheletro che sta per esser liberato dalla menzogna della massa càrnea e rivelato nella sincerità di tutte le sue ossa costrutta dal lavoro secolare degli avi, tale anche il concetto dell’arte si denuda e si semplifica sul fondo dell’ultima ombra. Il morituro ascolta in sé stesso l’insegnamento e la condanna, quasi che le leggi terribili della Necessità interiore sorgano dalle sue vèrtebre dalle sue coste dal suo sterno, da tutto il suo scheletro congegnato.

Vano è dunque gran parte di ciò che fu compiuto? Non è durevole se non quell’opera ch’entro i suoi limiti espressivi armonizza per un numero infinito di rapporti l’origine e l’essenza delle cose. L’invenzione suprema non può essere se non la sintesi assoluta dell’uomo e del mondo circonscritta da un segno di bellezza ininterrotto. Ecco che, alla fine della favola breve, tutto si determina e s’illumina, quando gli strumenti cadono dalle mani affievolite! Perché dunque all’artista non è dato rivolgersi indietro dalla soglia della morte e riconquistare con un atto di coscienza eroico la giovinezza misconosciuta? Se per i maestri il trapasso fosse un ricominciamento, la terra si coprirebbe di capolavori.

Così, andando verso l’amico, io credevo avere in me la sua infermità e la sua malinconia. Non mai m’ero sentito tanto profondamente leso dagli anni né tanto apertamente esposto alla percossa del caso; né mai m’era parso tanto prezioso il dono riposto dalla Natura dietro l’osso fragile della mia fronte, mentre camminavo verso la casa desolata ove un’intelligenza fraterna dava gli ultimi guizzi.

La perpetua ansietà, che m’impedisce di soffermarmi e di considerare i miei aspetti successivi negli specchi della vita, allora crebbe sino all’ambascia. E vi s’aggiungeva quell’indicibile delirio che ferve nella polvere sterile della Città, come il lievito d’un malvagio pane, quando l’anelito della primavera soffia su i davanzali delle finestre aperte e la crudezza di tutti gli istinti si inacerba nella selva popolosa dalle radici di pietra, che odora di beccheria di taverna d’officina e di lupanare.

Tratto dalle mie imaginazioni e da una sùbita voglia di ritrovarmi altrove, dissi a Marco Praga che muto e accigliato mi camminava al fianco:

In un giorno come questo ero su la riva del Lago d’Averno, nel regno di Dite, con alcuni compagni allegri. Volemmo entrare nell’antro della Sibilla, preceduti da due di quegli Atellani che portano le torce di corda e di pece. Conosci quel buio? È tiepido e molle, quasi di natura animale. Sembra che il respiro oppresso della Cumana vi si perpetui misto alla bava sibillina. Prima ci lambe, poi ci pènetra, si mescola alla nostra cute, si agguaglia alla nostra sostanza, cancella i nostri contorni, disperde la nostra effigie. Siamo informi, ombre nell’ombra. Le torce non vincono quella densità: rosseggiano senza raggi nel fumo grasso. Una delle due, in fatti, dinanzi a noi si spense. Eravamo fra rocce avverse, fatte di tenebra impietrata. Una voce gridò: «Ecco la porta dell’Inferno.» E udimmo più colpi sordi; ché l’uomo batteva contro la parete la torcia spenta, e le faville s’involavano e le stille della resina crepitavano nell’umidità calda. Ma allora, poco lontano, un riso straordinariamente vivido risonò in quell’angustia; e vedemmo l’altro portatore sollevare la sua fiaccola e squassarla in cima al suo braccio di bronzo. Era alla soglia d’una camera termale invasa dalla scaturigine misteriosa: ignudo dal tallone alla coscia, dal pugno all’òmero, egli agitava il fascio attorto delle funi per eccitare la fiamma in pericolo. Parve che una sùbita frenesia lo prendesse, come tarantolato. I moti del suo corpo si convertirono in danza. Egli danzò sul pavimento di musaico sconnesso, nell’acqua tetra che gli guazzava intorno ai mallèoli. Il sudore gli luccicava su la pelle fosca, gli appiccava alle tempie le ciocche dei capelli violetti. Nel vento della saltazione la face ardeva più e più forte; e noi rivedevamo i nostri volti in ogni sprazzo di rossore trasfigurati come se vi si avvincendassero le larve incognite di un’altra vita. A un tratto il baccante scivolò, cadde riverso in quel lavacro tartàreo caldo come il suo sudore. La fiamma stridette. Scorgemmo il bianco degli occhi e dei denti nel volto supino, una figura indistinta nello smalto sommerso. Rimanemmo nel buio, immemori del tempo, aspettando il nostro Vergilio.

Marco volse verso di me quel suo duro viso che sembra fatto per affrontare la realtà e per inchiodarla con la dirittura coraggiosa dello sguardo.

Tu ti sei troppo affaticato e troppo ti affatichi ancóra – mi disse. – Oggi tu non prendi le tue forze se non da una febbre di stanchezza. Hai bisogno di riposo. Bada che nell’agitare la torcia tu non cada riverso come quel tuo Atellano! Chi ti darà la pazienza del lungo sonno?

Sorrise appena; ma il suo sguardo mi faceva meglio sentire sotto la pelle delle gote, nell’interno delle pàlpebre, nelle gengive il pallore del sangue impoverito, e qualcosa di convulso nella commettitura delle mascelle, e la sorda pulsazione sopra la nuca, e la vitalità febrile del cervello che non mi pareva custodito nella scatola del cranio ma come sostenuto in alto tra le dita divaricate d’una mano vacillante.

Dormiròrisposi, dissimulando il terrore improvviso. – Avrò il mio letargo: una morte che vede e che respira.

E ripensai le notti atrocemente animate dall’implacabile formicolìo cerebrale.

Può dormire il povero amico? – soggiunsi.

Sotto la minaccia della soffocazione.

Lo vedrò in piedi?

Forse.

Potrà guarire o almeno avere una lunga tregua, rivivere, riprendere il lavoro?

È condannato.

Senza speranza?

I medici assicurano che non arriverà al principio dell’autunno.

La sentenza era netta, pronunziata con l’accento di un dolore virile. La strada mi parve più brutale. La polvere vi si agglomerava intorno alle gocciole dello scroscio recente. Giungeva di tratto in tratto lo stridore del carro publico «che non ha timonegiogo». Le rotaie di metallo brillavano ancor bagnate di pioggia, inflessibili.

Una voce manca alla Città: quella che seppe dire il cordoglio di tutti quando il vecchio re della melodia si ricongiunse al mistero delle sorgenti; quella medesima che nella vittoria di domani saprebbe tonare l’orgoglio di tutti.

Eravamo poco discosti dal campo chiuso, dal vasto agone preparato alla gara dei popoli ebri di potenza e deserti di bellezza. Si udiva lo strepito innumerevole delle maestranze intente a inalzare nel rigore della luce gli edifizii enormi ed esànimi. Le nuove materie – il ferro il vetro i cementiinvano domandavano di esser condotte alla vita armoniosa nelle invenzioni della nuova architettura. L’assenza del ritmo indicava l’assenza della vita. Nessuna linea era l’indicatrice sincera d’una forza operante; nessun rilievo testimoniava il predominio d’una volontà consapevole. Le forme deboli e incerte contraddicevano all’imagine grandiosa d’un concorso di stirpi sul mercato del mondo. L’arte sola avrebbe potuto compiere il miracolo conciso. La colonna dorica, più che la memoria delle leggi e delle conquiste, non riassume tutte le energie d’una gente? Nel Poema sacro non è raffigurata la faccia intera dell’Universo?

Io dissi:

Se nel giorno della festa umana egli potesse parlare, certo esprimerebbe in una solida orazione, architetto della parola, ciò che non sa esprimere questo mucchio di materie sorde. Quando le difformi carcasse fossero tutte crollate nella melma di novembre, rimarrebbe almeno a testimonio dello sforzo unànime un documento di eloquenza ben costrutta.

Disse il mio compagno:

Forse non riconoscerai il fantasma della sua voce.

Subitamente il cuore mi mancò. E mi soffermai per indugiarmi, poiché la triste casa era prossima. Se io avessi misurato nel largo viso il più profondo solco del male, non avrei avuto il presagio dell’annientamento come dall’imaginare destituita di tuono quella bocca oratoria.

La sua voce pareva generarsi nella sede stessa della sua anima calda. Tutta l’ampiezza del torace ne vibrava come una parete di metallo; sicché le parole, se bene definite in contorni nettissimi, eran tra loro collegate da un continuo rombo, si fondevano in un elemento musicale costante, avevano nel tempo medesimo una vita propria e una vita comune. L’efficacia della sua pronunzia era accresciuta da non so che moderata violenza con cui egli sapeva vincere la resistenza lieve che taluna parola gli opponeva nel discorso. Per ciò sovente il suo discorso mi dava imagine d’un fiume che polisse acuminasse o arrotondasse i ciottoli avversi. Egli era certo uno tra i più sapienti regolatori delle sonorità verbali; e nessuno forse era più di lui sensibile alla giustezza delle cadenze. Amava talvolta tendere il nerbo della frase come l’atleta mostra per gloria il rilievo del bicipite. I ritmi energici acquistavano nella sua bocca una gagliardìa inaudita. E io non dimenticherò mai il modo ond’egli, nel legger Dante, dopo una serie di terzine melodiose, sapeva rovesciare sopra di noi – come il flutto decumano – un grande endecasillabo pieno di eternità.

Mi sorse nella memoria un’ora lontanissima della mia adolescenza quando nel bel parco del Valentino biancofiorito la sua voce mi faceva parer bello un sonetto da me composto su quella stampa di Alberto Duro detta Il cavaliere della Morte. Poi, mentre la sua casa era inevitabile e noi traversavamo la piazza per entrare, i sembianti della sua robustezza e della sua giocondità mi assalirono in gran numero perché più doloroso mi fosse l’aspetto ch’io temeva.

O apparizioni subitanee della vita ideale! O creature della poesia, sola e sovrana realtà! Nello strepito della strada irta di menzogne armate come di tagliuole la selva, sul lastrico consunto dallo scalpiccìo delle inquietudini e delle miserie randage, tra la sazietà che s’attarda e la fame che arranca, ecco l’incontro inatteso. Lo vedo avanzarsi con quel suo passo di montanaro che sa dove pone il calcagno. A quale faccenda va egli? Quale cura lo tiene? Mi scorge, mi chiama con un gran gesto, s’affretta verso di me, sembra che m’abbia lungamente cercato e che mi ritrovi alfine per confidarmi un segreto vitale. Mi chiede: «Perché Mila, quando vuol persuadere Aligi che è venuta per lei l’ora della dipartita, non allude neppur con la più tenue parola al passato di vergogna? Perché, sentendo la necessità di separarsi dal pastore, lo lascia fino all’ultimo nell’illusione dell’innocenza?» Un alto problema d’amore è proposto, discusso, risoluto. Nei nostri orecchi il romorìo della strada è lontano come il rombo nelle conche marine; i passanti sono simili alle ombre delle nuvole su le prunaie delle maremme. Quell’uomo corpulento, gravato da tanto peso opaco, arde ora come un puro spirito, respira pienamente nell’aerea magìa che crea egli stesso, immemore delle sue cure e dei suoi mali. La conclusione amorosa di Torquato Tasso gli sembra una sentenza sublime che santifica le labbra della Follìa: «Amore tanto esser più nobile, quanto è men governato dalla ragione.» A quale alpe furono rapite le pietre del lastrico?

Eravamo omai a piè della scala. E il mio compagno mi disse:

Cerca di nascondergli, se puoi, la tua pena. Il suo primo sguardo è insostenibile. Egli è ansioso di leggere nel viso degli amici la condanna. È molto tempo che non lo rivedi?

Salendo le scale, evocavo la sua figura nel ricordo dell’ultima sera lieta alla sua mensa. Nessuno sapeva con arte più varia e più franca presiedere a un convito in onore delle buone lettere. Nella scelta dei commensali egli osservava l’antico precetto: «Non meno delle Grazie, non più delle Muse.» E squisitissimo egli era tanto nel comporre gli umori degli ospiti eletti quanto nel disporre la successione dei vini ottimi.

Alla sua destra quella sera sedeva Arrigo Boito, con quel suo viso impenetrabile soffuso d’una doratura sparente, con que’ suoi chiari occhi stranieri in cui sembrano avvicendarsi il sogno e il rigore di una razza barbara originaria, resi ancor più remoti dal cristallo che li acuisce: il maestro di tutte le corde, occulto, pieno di segreti, che facilmente gioca e non rivela mai il gioco difficilissimo a cui sembra di continuo intento il suo spirito; dedito a un ozio senza riposo perché sa con che lenta sapienza il tempo formi il diamante nel cuore della roccia.

Sedeva alla sua sinistra un giovane, Luigi Barzini, con l’attitudine di un messaggero che sia per rialzarsi mentre non è ancor quieta nella sua persona l’agitazione della corsa recente. – O entrata nei folti porti oleosi ove fluttua l’odore dei continenti e delle schiatte, quando al crepuscolo s’accendono i fuochi dei fari e le orge delle ciurme! O febbri delle metropoli violente, pianto e sangue delle catàstrofi, rimbombo del cannone su i mari notturni ove il mostro d’acciaio s’inabissa gittando il grido del coraggio all’immortalità delle stelle! – Pieno di spettacoli indimenticabili il giovane parlava di rado, quasi timido dinanzi alla tavola ornata di violette. Era per una breve ora; aveva lasciato le sue valige nell’anticamera, pronto a ripartire verso l’estremità della terra.

E il buon Sileno calvo e barbato, volgendosi ora all’uno ora all’altro commensale affettuosamente, pareva esercitare a un tempo – come sempre soleva – la duplice virtù del suo gran cuore: fedele a tutto il passato, fidente in tutto l’avvenire.

Ed ecco, in cima della scala, a un tratto «il fantasma della voce» mi tocca. Non contengo il sussulto. Il morituro è in piedi su la soglia della sua porta!

Da altri fu detto com’egli avesse facile il pianto, negli ultimi mesi del suo soffrire, e lamentevole talvolta l’accoramento. Io per me non voglio serbare di lui nella mia memoria se non la bella tranquillità virile ch’egli mi mostrò in quel breve colloquio risollevando la sua statura e il suo pensiero. Gli piacque che io credessi di visitare il suo spirito vigile, non il suo corpo stanco.

Mi prese per mano, mi condusse con passo fermo nella sua biblioteca, fra i suoi libri; mi fece sedere presso la sua tavola da lavoro; occupò la sua sedia consueta dinanzi alla custodia di cuoio, dinanzi alle sue carte, alle sue penne. Gli scaffali di legno scuro, i dorsi allineati dei volumi e l’ombra certa del sepolcro erano sfondo alla sua testa ancóra possente. Una tinta indefinibile, qualcosa come un lividore dorato, era sparsa su la sua faccia; e in quella stessa tinta inumidita parevano nuotare i suoi occhi divenuti più cavi e più grandi. Un rossore malsano, fatto di sottili venature, accendeva i pomelli. La bocca aveva perduto la fermezza e l’esattezza primiere: ammollita, fra la barba un poco incolta, non modulava la voce se non con fatica palese, abbandonandosi di tratto in tratto a cadenze neglette. La camicia era aperta su la gola, non dava alcun impedimento al respiro; ma egli a intervalli con un gesto istintivo, portandovi la mano pallida per allargarla, scopriva il sommo del petto villoso, le pieghe della floscezza intorno al collo, il moto interrotto dell’ansima. E nulla mi pareva più triste.

Nondimeno, signoreggiando la mia commozione, gli parlavo delle cose più da lui amate. Come il discorso volse sul modo tenuto da Alberto Franchetti nell’intonare un mio poema tragico, egli disse interrompendo:

Dove ho letto che ogni malattia è un problema musicale? Forse è vero. Il mio sta per essere sciolto.

Come sentì nelle mie parole il rammarico – che sempre mi punge – di non poter comporre per la mia poesia la mia musica, di non poter trattare la metrica e l’orchestra a un tempo, egli disse:

Credi tu che si debba augurare la riapparizione dei poeti-musici?

Risposi:

La triade geometrica delle arti, che si manifestano nello spazio, già tende a ricomporsi. In nessun altro stato come nel democratico si moltiplica il numero degli edifizii publici. I palagi e i teatri del popolo gareggeranno con le vecchie cattedrali. L’architettura la scultura la pittura si ricongiungeranno in armonie durevoli. La ricerca faticosa dei nuovi temi decorativi n’è un indizio manifesto. Su la scena dovrà necessariamente ricomporsi la triade aritmetica delle arti, che si manifestano nel tempo. L’opera-ballo è un mostro grossolano, già putrefatto, destinato a scomparire. Quale forma semplice e complessa nascerà dalla musica dalla danza e dalla poesia? Taluno oggi la intravede, senza raggiungerla. Ma è certo che non potrà essere il risultato di una collaborazione ineguale. Il genio d’un solo artista, sapiente nell’arte triplice, potrà crearla attingendo la sua ispirazione alle più vive fonti popolari. Gli spettacoli publici, nello stato democratico, assumeranno di nuovo il carattere di un culto festivo.

Egli disse:

Io penso che tu t’illuda. La separazione delle arti ritmiche, cominciata già nell’evo classico, quando al cantore dalla pèttide successe il rapsodo col suo bastone, mi sembra irrimediabile. Noi andiamo verso la fine del canto. La più animosa poesia umana nel futuro sarà, come l’inno delle Furie e delle Parche, senza lira. La più profonda musica sarà senza parole.

Eppure la poesia, quella che vuol comprendere più d’anima e più d’universo, oggi soffre della sua angustia metrica e cerca ansiosamente di rompere i vincoli secolari. Troppo le usate forme son povere di ritmo e irrigidite.

Se io leggo in silenzio, se io recito ad alta voce la canzone del Petrarca Di pensiero in pensier, di monte in monte, o il Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia, il mio bisogno musicale è pienamente appagato da tanta melodia e non cerca oltre.

Ma se tu paragoni la più ricca stanza d’una canzone petrarchesca, perfetta nella sua fronte e nella sua sìrima, nei suoi piedi nelle sue volte e nella sua chiave, se tu la paragoni a una strofe logaedica di Pindaro o a uno stasimon eschilèo, ti appare tutta la diversità che corre tra la dura constrizione del rimatore e la libera creazione ritmica del cantore. La strofe greca è una creatura vivente in cui pulsa la più sensibile vita che sia mai apparsa nell’aria. È difficile dir quale, tra le cose naturali, la eguagli nell’infinita delicatezza ed esattezza della contestura. La misteriosa compenetrazione dei ritmi fluidi ti fa pensare talvolta al miracolo dell’arcobaleno, dove tu non sai scorgere il passaggio dall’uno all’altro colore se bene tu senta nel tuo occhio la molteplicità della gioia. La stanza, al confronto, pur quella che a Dante intonava il Casella, non è se non un organo meccanico duramente articolato.

Egli scosse il capo, e incominciò:

Di pensiero in pensier, di monte in monte

mi guida Amor; ch’ogni segnato calle

provo contrario a la tranquilla vita.

Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte,

se ’n fra duo poggi siede ombrosa valle,

ivi s’acqueta l’alma sbigottita;

e, com’Amor l’envita,

or ride or piange, or teme or s’assecura…

S’era abbandonato alla spalliera della sedia, aveva arrovesciato un poco indietro il capo, come per secondare l’onda della melodia, e in quell’attitudine la nuca pareva adagiarsi sopra la zona dell’ombra come sopra un origliere di velluto. Rimanevano nel chiarore il collo senile, il sommo del petto, le mani molli e gialligne, le pieghe dell’ampia veste bruna che avvolgeva la sua corpulenza disfatta, tutta la preda pesante della tomba; e le carte non più empiute di sogni, e i fusti delle penne inutili serrati come le asticciuole dei dardi nella faretra, e una bella rosa che per me celava tra i petali il piccolo teschio d’avorio come quella cui l’ignoto Gentiluomo dipinto da Lorenzo Lotto tiene fra le dita inanellate.

Per alti monti e per selve aspre trovo

qualche riposo: ogni abitato loco

è nemico mortal de gli occhi miei.

A ciascun passo nasce un pensier novo

de la mia donna…

Come di sillaba in sillaba la sua voce si affievoliva, parevami ch’egli si allontanasse a poco a poco e che, passato già di con la fronte, fosse per scomparire intero.

D’improvviso l’uscio s’aperse in fondo alla stanza, e qualcuno entrò senza rumore.

Sussultammo. Il verso si ruppe nella bocca del morituro, ma non so che lume di bontà tremolò per entro a quell’ombra: era il sorriso superstite.

Non la visitatrice invisibile entrava, ma la compagna devota. E chi mai un passo tanto leggero alla donna che cammina verso l’infermo suo caro?

Ella gli portava l’alimento infantile: un uovo tiepido, una tazza di latte. Posò il vassoio su la tavola, dinanzi a lui. Incoraggiò lo svogliato ponendogli una mano su la spalla, con un gesto quasi materno.

Allora tutta la devastazione della malattia apparve, tutta la miseria della carne stracca, tutta la tristezza dell’uomo diminuito. Si curvò egli divenuto opaco, quasi che il lume del suo spirito si fosse spento nel suo petto oppresso, quasi che l’ultimo baleno della poesia si fosse dileguato dalla sua fronte nuda. Si curvò; e, ahimè, più non fu egli se non il povero animale umano bisognoso di sostentarsi. Il labbro inferiore gli pendeva umidiccio, e le dita gli tremavano intorno alla bocca piena; e non s’udiva, nella stanza severa di libri e d’imagini e di ricordi, non s’udiva se non il sibilo dei sorsi intermessi, l’ànsito dello sforzo lento, mentre qualche stilla di latte qualche filo d’albume colavano giù per la barba canuta.

Immobili su le sedie, intentissimi, con l’angoscia alla gola, con nella schiena il terrore del destino minaccioso che stava anche a noi sopra, guardavamo in silenzio colui che nutriva il sepolcro.

Prima d’asciugarsi la bocca nauseata, egli alzò verso di noi gli occhi solitarii. Senza muoverci, senza versare una lacrima ma dentro dirottamente piangendo, gli dicemmo addio nel nostro cuore inerme.

Settembre 1906. Nella Versilia.




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