Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le faville del maglio
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DELLA DECIMA MUSA E DELLA SINFONIA DECIMA

DELL’AMORE E DELLA MORTE E DEL MIRACOLO

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DELL’AMORE E DELLA MORTE
E DEL MIRACOLO

Maggio 1905 in Firenze.

Giorni indicibili di potenza e di miseria, al capezzale d’una creatura malata del più feroce male che possa devastare una carne vivente. Non respiro se non l’odore della dissoluzione. La pena abbrevia le ore e le allunga indefinitamente. Di continuo le voci della campagna e della città agitano il cuore inquieto. Ecco: le campane di Firenze, lo scroscio della pioggia su gli alberi, il latrato dei cani, il canto degli uccelli, il singhiozzare disperato di una bambina nei campi e la voce irata della sua madre; un trillo nella fronda rasente la finestra; un trillo nell’aria, sotto le nuvole argentine.

Nella notte lo sgocciolìo della cannella, che ha cinque o sei note lente, mi fa pensare a quell’organino di vetro veduto un giorno nel Museo di Murano; il quale sonava così lentamente che non si poteva quasi cogliere la melodia. Tormento del non ritrovare quell’arietta, il cui ricordo è suscitato dalle gocciole notturne.

I soldati passano all’alba nella Via Bolognese, schiamazzando e cantando; poi segue lo scalpito della cavalleria. I carretti scendono stridendo.

Il principiare dello scampanìo da lontano, nell’aria umida rigata dalla pioggia scrosciante, è simile al primo accordo di un organo; poi si muta e si fa metallico.

Il fischio del vapore talvolta è simile al suono delle sirene su l’acqua, all’entrata dei porti nebbiosi.

La direttrice, alta smilza dura, fasciata nell’abito di tela bianca, ha un viso di prete protestante, dagli occhiali d’oro, ma con non so che di luminoso nel sorriso senza grazia. L’infermiera ha i capelli rossi, il viso rosso di lentiggini, le mani rosse, corrose dal sublimato. Il dottore ha un sorriso fisso, non so che perpetua obliquità del labbro, una specie di smorfia rassicurante che non mi rassicura ma mi atterrisce come l’espressione immobile delle figure di cera nei musei orrendi.

Giugno.

Non so quale ebrezza di volontà m’infiammi e moltiplichi le mie forze. I medici sono attoniti della mia resistenza. Da sei settimane veglio tutte le notti. Per la terza volta ho tenuto nelle mie mani le mani della vittima mentre la sua anima si profondava nel buio, sotto la maschera del cloroformio; e m’è parso d’assistere a tre agonie; e ho udito salire da ciascuna parole inaudite, parole che non possono esser dette se non alla soglia della morte e che la memoria non può ritenere perché, se le ritenesse, dimenticherebbe tutto il resto.

Tre volte il corpo insensibile fu portato al macello. E io conoscevo il lettuccio del supplizio, l’ordegno articolato che doveva divaricare le povere membra; e conoscevo tutti i ferri taglienti e tutte le fasce. E ogni volta il chirurgo mi guardò nelle pupille e mi disse: «Raccogliete le vostre forze. Non so se risaliremo.» E ogni volta attesi in piedi, diritto su le mie gambe di sasso, trasformando il dolore in vóto e in volontà di vita. E ogni volta mi sembrò di ricevere su me il sangue corrotto e di restituirlo alle vene della povera creatura purificato. E ogni volta fui il testimonio d’una resurrezione. Ogni volta io vidi Euridice ritornare dal buio e dall’eternità con un sorriso più divino.

Sorriso del risveglio sanguinoso! Come mai dal ferro, dal taglio, dallo strazio, da tanto orrore poteva nascere quell’attimo di luce ineffabile? Il più fulgido sorriso di donna bella, al paragone, è una contrattura ignobile, un lezio carnale.

Certo io son fortunato nel mio martirio e nel mio errore. Ho veduto quel che forse nessun altro uomo vide mai: ho veduto sorridere una creatura umana che aveva posato i suoi piedi leggeri su gli asfodeli eterni.

Chi ha detto tre volte addio ed è ritornato, non può dire addio per la quarta volta.

Agosto.

Ho vinto. La convalescenza comincia. Vive, vivrà. In quella sera d’afa e di lampi muti, il commiato era in fondo agli occhi dei medici. Essi evitavano di guardarmi. Uno, il più illustre, uscendo dalla stanza ove l’odore della dissoluzione si faceva intollerabile, mormorò: «Soltanto il miracolo potrebbe…»

Credo nel miracolo. Credo nella preghiera? Una buona sorella mi aveva scritto: – Non dubito che la vostra anima sia capace d’una preghiera sincera. Vi sovviene delle parole di Cristo? «Quel che voi domanderete al Padre nel nome mio, vi sarà datoSeguite il consiglio divino, e son persuasa che ne proverete la virtù. «Nel nome mio…» Penso che questo significhi: «Nel nome della bontà, dell’Amore.» –

Domandai nel nome della Volontà, e mi fu dato; nel nome della Volontà d’amore, e mi fu risposto. Con una miracolosa trasfusione di vita, io vinsi la morte.

Mi ricordo. Agli estremi, uno dei medici fece l’analisi del sangue che non era più rosso ma appena appena roseo come la più pallida delle rose d’inverno.

Ancóra mi ricordo. A un tratto, nel delirio dell’anemia la moribonda (una sovrana bellezza splendeva nella sua faccia trasparente affondata entro i capelli che il sudore dello spasimo aveva fatti più scuri) la moribonda incominciò a cantare un canto sommesso, una melodia senza parole o forse di parole sconosciute, una infinita e tenue musica ch’io non percepii co’ miei orecchi ma col sommo dell’anima: un aereo canto, non modulato dalle bianche labbra, simile forse a quello non mai udito dagli uomini ma sol dalle stelle, simile a quello dei cigni iperborei su i fiumi senza sponde. E quel suono era certo di dalla vita ma non nella morte.

E io, pieno di meraviglia sacra e di speranza sovrumana, mi inginocchiai. Né so se in atto io piegassi le ossa dei miei ginocchi sul pavimento, perché avevo smarrito il senso del mio corpo, divenuto anch’io un puro spirito, congiunto a quella improvvisa bellezza. Né altro so.

«E però dissi io: ciò che io ho avuto da Me medesimo, io ho manifestato a voi. D’ogni cosa n’è cagione l’Amore




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