Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il ferro
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IL PRIMO ATTO

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IL PRIMO ATTO

 

Al piano terreno d'una vecchia villa toscana, in altri tempi costrutta a emulare la magnificenza medicea e la copia d'acque e di cipressi tiburtina, appare una sala rotonda, arieggiante quella dal Sanzio disegnata per Giulio de' Medici su la pendice del Monte Mario, fatta di due absidi laterali a pilastri e a nicchie, collegate qui dall'architrave d'una larga apertura rettangolare onde si scopre un vestibolo a tre arcate in vista d'un giardino simmetrico.

Nel mezzo di ciascun semicerchio è una porta nobile ma non grande. Nel centro del diametro, a sinistra, un piedestallo di cipollino sostiene una statua dell'Abondanza nella maniera del Tribolo, mentre a destra l'altro simile piedestallo regge il torso consunto d'una Musa tunicata e cinta che nessuno attributo distingue.

Dietro gli allori che tonduti a foggia di palla sorgono dai grandi orci invetriati fra pilastro e colonna, il giardino si mostra co' suoi spartimenti orlati di bossolo, senza screzii di fiori, esatto come un'opera di tarsìa, chiuso intorno da altissime siepi di càrpini. Una fontana senz'acqua, in forma di navicella, arieggiante quella aldobrandina, sta dinanzi al portichetto, rempiuta di terriccio ove s'appiglia il giaggiolo giallo e la rosa scempia tra la mal'erba.

È un pomeriggio torbido della fine d'aprile. Già spiove, dopo l'acquata. Uno sprazzo di sole indora in sommo le lunghe mura bronzine che fa la verdura perenne.

 

 

 

Mortella è sola, pensierosa, inquieta. Movendosi per la sala, s'è soffermata dinanzi al piedestallo del Torso. Udendo una chiara voce che di fuori la chiama a nome, si scuote e si volge. Lesta e vivace come un uccello, una fanciulla sale i gradini ed entra nel vestibolo, affannata e ridente, vestita di bianco e di nerazzurro con grazia.

 

La voce.

 

Mortella, Mortella, sei ?

 

Mortella.

 

Oh, la Rondine!

 

Le va incontro, rischiarata.

 

Di dove vieni, Gentucca? Entra! Entra!

 

La Rondine.

 

Non ho più fiato. Non mi baciare. T'infradici. Son tutta molle. Che scroscio d'acqua! M'ha presa al cancello. Avevo un bel correre sotto le pergole e su per le terrazze...

 

Mortella.

 

Come sei fresca! Sai d'acquazzone, di bossolo e di mughetto. E il cuore ti batte in gola, Rondinina. Riprendi fiato. Vieni. Pòsati.

 

La Rondine.

 

Ah, non posso. Son corsa su per un attimo, soltanto per guardarmi un momento ne' tuoi occhi. Ho lasciato giù Enzo, sai.

 

Mortella.

 

Enzo è venuto?

 

La Rondine.

 

Sì, stamattina.

 

Mortella.

 

Per ciò scoppii d'allegrezza e sembra che mi sguisci di mano. Ti tengo per le ali.

 

La tiene per gli omeri, quasi la scrolla. Poi le parla più basso, con la voce alterata, con una sorta di salvatichezza improvvisa, che sùbito cede.

 

Sei felice? sei felice?

 

La Rondine.

 

Ah, Mortella, Mortella!

 

Mortella.

 

Sei felice? Ora hai il sangue del viso trasparente come quando si guarda una mano contro il sole.

 

La Rondine.

 

Sei tu bella. Non t'ho mai vista così.

 

Mortella.

 

Come puoi dir questo, Rondinina?

 

La Rondine.

 

Forse è la luce. Oggi c'è non so che altra luce. Non vedi? Pare che tutto cambii. Ora scopro che hai le sopracciglia più folte. Si congiungono quasi. Come ti sei fatta seria, sparvieretta! Ora si direbbe che tu abbi voglia di piangere.

 

Mortella.

 

Voglia di partire, di partire!

 

La Rondine.

 

Già?

 

Mortella.

 

Tu e il tuo fidanzato dove andate stasera?

 

La Rondine.

 

Oh, non lontano!

 

Sospira.

 

Mortella.

 

Io vorrei scalzarmi, e andarmene sola per certe viottole che non ho rivedute ancóra, camminare lungo una siepe dove sia rimasto a rasciugare un bucato di poveri, fare una carezza a un bambino sperso, ascoltare la campana d'una pieve, il verso d'un chiù, il fischio d'un treno, il cigolìo d'un baroccio, non ricordarmi più del mio nome, fermarmi a chiedere un bicchier d'acqua in un casale dove la vecchia accenda in punto la lucerna, e poi più in cadere con la faccia contro terra...

 

La Rondine.

 

O malinconia! Perché, Mortina? E io che ti credevo tanto contenta d'essere rivenuta alla Guinigia, dopo questi tre anni!

 

Mortella.

 

Tu sei piccola, Gentucca: tu sei una rondinella bianca e nera. Tu hai il tuo piccolo cuore gonfio di primavera. Respiri come in una storia inventata. Non capisci. Io parlo della vita.

 

La Rondine.

 

Oh!

 

Mortella.

 

In questi tre anni io mi sono tanto mutata che mi par quasi di portare un altro sangue. Tu non sei mutata affatto, e quasi non ti riconosco.

 

La Rondine.

 

Veramente!

 

Mortella.

 

Tu non puoi capire, Gentucca.

 

La Rondine.

 

In fondo, sono più ocherella che rondine. Lo confesso. E poi tu lo dici chiaro. Ma insomma non sei contenta, ora, d'esser qui, di ritrovarti nella vecchia Guinigia tornata ai Guinigi, di non saper più in mano d'estranei la casa dove nascesti, dove t'è morto il tuo padre, e di rivivere qui tutti i tuoi ricordi, i nostri ricordi anche?

 

Mortella.

 

I nostri... Ti rammenti di quell'imagine di Gesù che aveva la povera Miss Turner, con quegli occhi che da prima parevano chiusi, pieni d'ombra, e poi a poco a poco - non si sapeva come - s'aprivano e ci fissavano con uno sguardo insostenibile? Ogni volta tu sobbalzavi, gridavi di spavento e ti voltavi dall'altra parte.

 

La Rondine.

 

È vero.

 

Mortella.

 

Ritrovo qui certi ricordi scurì che pare aprano gli occhi allo stesso modo, e mi sembra d'aver qualcosa da gridare allora.

 

La Rondine.

 

Come sei!

 

Sembra un poco sbigottita.

 

Mortella.

 

Allo stesso modo qui si sono riaperte le porte, si sono spalancate le finestre; e s'aspetta qualcuno. Le tende sbattono, i mobili scricchiano; e in ogni angolo qualcosa travaglia e si prepara.

 

La Rondine.

 

Che voce t'è venuta!

 

Mortella.

 

Forse ho in me una voce che non è la mia. Io stessa non la conosco. E ogni parola in ogni voce cangia di senso, di peso e di destino. Non sai tu che la Guinigia non fu riscattata se non per l'amore d'una voce? Mia cognata si risolse a ricomperarla perchè mio fratello pensava sempre a quel vecchio organo dei Serassi che è nella Cappella, a quel vecchio sollevatore e consolatore della sua adolescenza. Era la sua gran passione. Te ne ricordi? Ci mettevamo tutt'e due dentro il confessionale, a sentirlo sonare fughe mottetti ricercate del Frescobaldi, per ore ed ore.

 

La Rondine.

 

Me ne ricordo. A volte si tremava nell'ossa. S'aveva freddo alla nuca, non so perché, come nel vento dei monti. La vetrata ci pareva di ghiaccio blu.

 

Mortella.

 

Tu sai che mio padre è sepolto , sotto la cantoria.

 

La Rondine.

 

Dio l'abbia in pace.

 

Mortella.

 

Il giorno che rientrammo qui, dopo tutte le cose tristi che sai e che non sai, Bandino non si teneva dall'impazienza. Sandro il fattore andava innanzi ad aprire gli usci. Non si guardava nulla. Ci s'affrettava. Si riconosceva ogni stanza all'odore, o al pavimento, o all'aria più fredda più calda, o a una soglia, a uno scalino. Quando s'entrò nella Cappella, io andai a gittarmi su la lapide ma Bandino salì subito all'organo. Sentivo sopra di me scricchiolare il legno, ronfare i mantici, gemere i registri; e pure non sapevo se la voce dovesse venire dall'alto o di sotterra, tanta era l'angoscia del mio cuore. Gli attimi parevano eterni. Mi veniva l'ansia di gridare: «Parla! Parla!». Ah, non ti so dire. Certo le dita di mio fratello vacillavano, e il suo petto era senza respiro. Allora fu, d'improvviso, come una lacerazione.... Non era la voce attesa, era un'altra! Anche l'anima dell'organo era sconvolta, sfuggiva, non obbediva più. Singhiozzavo sola su la pietra, e udivo mio fratello singhiozzare contro la tastiera; e non v'era più che quel pianto, dove s'era già pianto.

 

La Rondine.

 

Mortina, Mortina, come sei triste! Quasi più che quando partivi. Che hai? che hai? Ti passerà. È vero che aspetti qui tua madre? che vi riconciliate con lei... e con suo marito? Perdonami se m'ardisco di domandartelo.

 

Mortella.

 

Bandino vorrebbe... Credo. Non so.

 

Si scurisce in viso e si acciglia, per un attimo.

 

Io, per me, non ho voglia se non di prendere una via, una via qualunque, che conduca in qualche parte dove...

 

La Rondine.

 

Dove ti venga incontro il tuo amore e ti comandi: «Vieni con me». Oh, dimmelo. Confidati. Ti senti così perché sei innamorata?

 

Mortella.

 

Gentucca pazza!

 

La Rondine.

 

Non me lo vuoi dire? Hai dovuto lasciare qualcuno, laggiù? Ne soffri? È questo il tuo male?

 

Mortella.

 

Che pazzia!

 

La Rondine.

 

Veramente, non ami? Non hai amato mai, da che non t'ho più veduta? Dimmelo, a me sola. Confìdati.

 

Mortella.

 

Che è l'amore? Dimmelo tu. Io non lo so.

 

La Rondine.

 

Che altro c'è nel mondo? Ma tu lo sai. Almeno l'amore di Giana e di Bandino non lo vedesti nascere? non l'hai ora sotto gli occhi ogni giorno?

 

Mortella.

 

Quel che è troppo vicino, non si vede. E poi Giana...

 

La Rondine.

 

Giana...

 

Mortella.

 

È nata di notte. È buia, chiusa. Non ci si scorge nulla, non ci si scopre nulla di chiaro, nulla di sicuro. Non si sa. Certe volte, quando arriva, sembra che abbia lasciato a mezzo un'opera d'incanti o la trama d'una congiura o un gioco pericolosissimo o una ricerca d'alchimia. Ti piace Giana?

 

La Rondine.

 

Io non me l'imagino che in bautta. I suoi occhi lunghi guatano come di dietro alla mascherina di raso bianco.

 

Mortella.

 

E il bello è che non sai se sotto il dòmino nasconda un'arma insidiosa, una piaga brucente o la lanterna d'Aladino.

 

La Rondine.

 

E se nascondesse le tre cose insieme?

 

Mortella.

 

Sarebbe anche più bello.

 

La Rondine.

 

Ma vi volete bene.

 

Mortella.

 

Molto. M'incanta.

 

La Rondine.

 

Ora lasciami andare, Mortella. Enzo m'aspetta.

 

La compagna la trattiene, con una maniera misteriosa, acuta e molle a volta a volta, sorridente e irridente.

 

Mortella.

 

T'aspetta alla fontana della Navicella, o per la scala dei Delfini, o dentro una nicchia di càrpini. La Guinigia dev'esser dolce a chi ama. Tu non m'hai ancor detto che sia l'amore. Bene, dimmelo, Gentucca, tu che lo sai. Enzo è , non se ne va. Dianzi tu parlavi con me e non ascoltavi che lui. Pare tu lo senta con quella gota ch'è volta dalla parte del giardino. Hai tutta l'anima su quella mezza faccia. Sei una pèsca partitoia, come dicono a Siena: una pèsca spicca, divisa in due da sé. Lo senti con quella gota e con quella spalla; e il cuore ti batte a destra, ora. Sei tu che arrossisci, o è l'aria?

 

La Rondine.

 

Mortella!

 

Ella si copre di rossore. Con una grazia vergognosa, prende la mano della compagna e se la preme contro quella gota.

 

Mortella.

 

Dimmi dunque che è, Gentucca.

 

La Rondine.

 

Ora te lo dico.

 

Ella pensa e s'indugia.

 

Mortella.

 

Ebbene?

 

La Rondine.

 

Non mi vien detto nulla.

 

Ha un tono di lagno e il delizioso colore della sua ingenuità sensitiva, mentre cerca le parole con l'aria d'una educanda impacciata innanzi all'esaminante.

 

Mortella.

 

Ora hai il viso fatto d'una rosa.

 

La Rondine.

 

Ah, ecco. Mi sveglio, e sento che il mio viso è fatto d'una rosa e che la mattina quasi è meno nuova di me.

 

Mortella.

 

E poi?

 

La Rondine.

 

Poi mi metto a sedere sul letto, e sto , proprio come al principio d'una storia inventata; e soltanto il pensare che i giorni son cresciuti di cinque ore mi l'allegrezza di non morir più; e mi pare che la mia vita mi fugga non so dove e che me ne venga continuamente una più dolce e più forte, non so di dove, e che l'anima mi si cambii in un'altra che è più mia della mia; e ho voglia, voglia di qualche cosa, e non so di che: e non ho nessun gusto in bocca ma conosco che v'è un sapore in me più buono che il sapore dell'aria e di tutte le cose buone del mondo...

 

Ella s'interrompe, socchiudendo le palpebre, in uno smarrimento puerile.

 

Mortella.

 

E allora?

 

La Rondine.

 

Allora...

 

Rapida, a fior di labbra.

 

mi bacio le braccia.

 

Mortella.

 

Oh piccola! Ma ci deve pur essere un'altra specie d'amore.

 

Giana Guinigi entra.

 

 

Giana.

 

Ah, ah, le donzelle ragionano d'amore.

 

Le compagne ridono, come in vena di celia.

 

La Rondine.

 

È Mortella che mi fa l'esame e distingue.

 

Mortella.

 

Sappi, Giana, che la Rondinella non soltanto è innamorata daddovero, come direbbe la Menica, ma è anche promessa sposa, e il fidanzato l'aspetta giù intagliando col suo bravo coltellino i due nomi nel pedale d'un eterno leccio.

 

La Rondine.

 

Non è vero niente.

 

Giana.

 

Eppure il cielo è color di rosa.

 

La Rondine.

 

Se mai, dopo l'acquata, non m'aspetta, ahimé, che una risciacquata della genitrice. Me ne rivólo al nido. Addio, addio.

 

Leggera e celere, traversa il portichetto, scende i gradini, volge il capo grazioso.

 

Mortella.

 

Torna presto, Gentucca.

 

La Rondine.

 

Addio.

 

Le due cognate la seguono con gli occhi pei viottoli di bossolo.

 

Giana.

 

A rivederci.

 

Il cielo è tutto rosato sopra le fitte muraglie di càrpini.

 

Che fresca e gentile creatura, veramente! Quando ha voltato il capo, non pareva che avesse all'angolo della bocca un filo di felicità come un uccello porta nel becco una pagliuzza o un crino?

 

Giana mette un braccio intorno alla cintola di Mortella che ancóra guarda l'aria ovsparita la sua compagna e ancóra alza la mano come se la scorgesse all'estremità della terrazza e la risalutasse.

 

Mortella.

 

Felicità! Felicità!

 

Ella sospira la parola quasi dentro di sé, come sospesa al limite della contrada imaginaria ove Gentucca va a vivere la sua favola breve. Giana la chiama, come per dirle qualcosa di grave, esitando.

 

Giana.

 

Mortella...

 

Mortella.

 

Non ho mai patito la primavera come quest'anno. E tu, Giana? È forse la Guinigia che si rincarna in quella piccola selvaggia che fui... La mattina quando mi stiro, nel dormiveglia, mi pare che ho un braccio lungo come una scalinata di pietra e l'altro come un viale di bossolo, e che in una mano laggiù ho una dea vestita di borraccina e nell'altra una vasca piena di nannùferi.

 

Giana.

 

Mortella...

 

Mortella.

 

Pensa: i giorni son cresciuti di cinque ore, e fra qualche settimana ci si vedrà chiaro sino alle nove di sera! Guarda il colore del cielo. È troppo dolce. Ora d'un tratto il giorno si stacca e casca come un frutto troppo dolce, ruzzola ai piedi di Gentucca che lo raccoglie e lo morde e ne lascia mezzo a lui...

 

Giana.

 

Ascolta, Mortella. Bisogna che te lo dica: tua madre è venuta.

 

La sognante si scuote a un tratto e si scioglie dal braccio della cognata, non contenendo il suo sgomento e la sua agitazione.

 

 

Mortella.

 

Che dici? Chi è venuta?

 

Giana.

 

Tua madre.

 

Mortella.

 

Mia madre?

 

Giana.

 

Sì.

 

Mortella.

 

Quando?

 

Giana.

 

Or ora.

 

Mortella.

 

All'improvviso?

 

Giana.

 

È certo una sorpresa che ci fa Bandino, per forzare gl'indugi. So che le è andato incontro alle Tre Torri e l'ha condotta qui egli stesso.

 

Mortella.

 

Sola?

 

Giana.

 

Non credo.

 

Mortella.

 

Con quell'uomo?

 

Giana.

 

Non l'ho veduta ancóra, né ho veduto lui. Bandino è salito a cercarmi, ed era in una tale angoscia che m'ha fatto pietà. Tu sai come si smarrisca facilmente dinanzi all'atto compiuto. M'ha supplicato di venire ad avvertirti.

 

Mortella.

 

Ma l'Ismèra?

 

Giana.

 

Non ho capito bene. Bandino eludeva le domande, balbettava. Però non mi par dubbio che sia venuto anche il tuo patrigno, giacché il punto da vincere per tua madre era d'esser ricevuta qui con suo marito.

 

Mortella.

 

E credi ch'egli sia entrato in casa?

 

Giana.

 

Se non è già in casa, è nelle vicinanze. Lo sapremo subito. Si tratta di una sorpresa, ti dico. Tua madre, d'accordo con Bandino, viene in persona a perorare la causa, a strappare il consenso.

 

Mortella.

 

Ma è incredibile questo.

 

Giana.

 

Bisognava aspettarselo. Tuo fratello non vede che per gli occhi di lei, non può rassegnarsi a viverne lontano. Pare un bambino non ancóra svezzato. Tutto questo tempo, non ha fatto che sospirare e rammaricarsi. Tu lo sai. Ora, giacché la rovina è riparata e il vecchio focolare è riacceso, a tutt'e due sembra venuta l'ora di ricostituire la santa famiglia.

 

Mortella.

 

E tu consenti? La fortuna è tua. Non sei tu la padrona qui?

 

Giana.

 

Hai il tono crudo. Un'estranea piuttosto.

 

Mortella.

 

Il mio presentimento m'ingannava forse? Non m'inganna mai. Avevo lasciato il mio cuore qui, il mio cuore in lutto e la mia vita vera, ma nel fondo io non desideravo di venire a ritrovarli, per paura di fallare o prima o poi contro l'uno e contro l'altra. La cenere che m'è cara non soffre d'essere smossa. Per ciò io non t'ho sollecitata, non t'ho spinta a ridarci queste mura che non sembrano alzate se non per ricevere un ospite senza misericordia. Lo schianto era avvenuto, il distacco era stato sofferto, il passato aveva già preso il suo aspetto fisso, e l'enigma era rimasto scolpito nella pietra.

 

Giana.

 

Ma tuo fratello non pensava ad altro. Sapevo bene che il ricupero era come una convenzione tacita nel contratto di nozze: era più che un desiderio, più che una promessa. Tu lo sai. Dicevi dianzi che la Guinigia ti sembra a volte immedesimata con te, incarnata in te. Bandino, che è una creatura fatta di musica, pareva aver lasciato qui la sua risonanza e non poterla ritrovare se non qui dov'è nato e dov'ha sognato. Per tutti voi la Guinigia è una specie di sostanza misteriosa, non so, quasi una figura della vostra sorte. Riconducendo qui Bandino, avevo il sentimento di restituirlo a sé medesimo. E alla mia condiscendenza si mescolava non so che voglia di novità, non so che speranza di rinfrescare il mio amore, di vedere aumentata la sua bellezza. Tu comprendi.

 

Mortella.

 

Comprendo. Ma la bellezza non basta più. Giana, puoi credere che io osi rinfacciarti la tua generosità? Non hai restituito anche me a me medesima? Tutto il tempo passato altrove, dopo la morte di mio padre, dopo la rovina, dopo l'orrore, mi sembra oggi senza viso, carne un'effigie cancellata ch'io non abbia conosciuta mai, ch'io non sappia riconoscere. Se non fossi rientrata qui, sarei forse entrata in un convento; ma qui è come se io mi fossi monacata, come se avessi fatto i miei voti. Non mi sono mai sentita così profondamente sola, né così viva. Sola con Dio sarei stata nella clausura; e qui sono sola con un'ombra. E la mia memoria mi crea la mia vita devota. E non soltanto io mi ricordo, ma uno si ricorda in me. Siamo due a vivere e a ricordarci.

 

Giana.

 

Mi sgomenti. La vita è tutta fatta di dimenticanza.

 

Mortella.

 

Non è vero.

 

Giana.

 

Tu hai l'avidità di soffrire, di tormentarti.

 

Mortella.

 

No. Ma che colpa ho io se mi fu data una pena da serbare, una piaga da portare nel fianco?

 

Giana.

 

Làsciati guarire.

 

Mortella.

 

Da chi? Le mie lagrime e il mio sangue aspettano.

 

Giana.

 

Dalla vita stessa, dall'inatteso, dall'incognito.

 

Mortella.

 

Da quello che sta per varcare la soglia?

 

Giana.

 

Chi sa! Bisogna di continuo offrirsi al destino.

 

Mortella.

 

Il mio destino io lo serro contro me per soffocarlo.

 

Giana.

 

Non bastano due braccia.

 

Mortella.

 

Ma un cuore basta.

 

Giana.

 

Per sanguinare.

 

Mortella.

 

Posso lasciarlo sanguinare lungo tempo, prima che ne coli l'ultima goccia.

 

Giana.

 

Sei malata di primavera. Conosco questo male.

 

Mortella.

 

Il mio male è d'una stagione che non conosci.

 

Giana.

 

Tu stessa non sai quel che intendi né quel che vuoi.

 

Mortella.

 

Voglio ardarmene.

 

Giana.

 

Che pazzia!

 

Mortella.

 

Non resto qui.

 

Giana.

 

Ma almeno aspetta. Vediamo.

 

Mortella.

 

Vedere, vedere, è proprio quel che non voglio.

 

Giana.

 

Ma perché?

 

Mortella.

 

Non senti? Pare che tutta la casa trattenga il respiro. Non respira più. Non senti? E stasera la sua anima rinata non si radunerà intorno alle lampade accese; resterà nell'ombra degli angoli. Giana, Giana, ti lascio l'ospite. A te lo lascio, e a mio fratello che sa la dimenticanza. Io me ne vado. Per stasera chiederò ricovero alla Rondine. Poi correrò alla mia vocazione.

 

Giana.

 

Che vuoi fare, Mortella?

 

Mortella.

 

Chiamami piuttosto Mortina omai, come fa la Rondine quando è tenera, e non sa perché.

 

Giana.

 

Sei strana.

 

Mortella.

 

Sapresti tu cadere con la faccia contro terra?

 

Giana.

 

Sei come fuori di te.

 

Mortella.

 

Sì, è vero: fuori di me e di tutto.

 

Giana.

 

Ma parla almeno. Che sai?

 

Mortella.

 

Non so nulla, e indovino tutto.

 

Giana.

 

Da che ti viene questo rancore implacabile?

 

Mortella.

 

Domandalo all'ospite prossimo.

 

Giana.

 

Ho veduta una volta tua madre, in chiesa, il giorno delle nozze. Ma non ho mai veduto l'uomo.

 

Mortella.

 

Lo vedrai.

 

Giana.

 

Non era l'amico prediletto di tuo padre?

 

Mortella.

 

Tanto che sposò la vedova per serbare di lui un ricordo vivente.

 

Giana.

 

Troppo sei amara. Non gli perdoni d'averla consolata?

 

Mortella.

 

Non senti che questa parola tronca la vita? Più crudele sei che non io amara.

 

Giana.

 

Ma com'è egli?

 

Mortella.

 

Dolce.

 

Ella ha proferito questa parola con un accento singolare d'ironia, di repulsione e di mistero. Ora le due cognate sono più da presso, parlano a voce più bassa, con un misto di confidenza e di diffidenza, con qualche esitazione davanti a certe domande, a certe risposte, con qualche pausa oscura, con qualche improvviso palpito, quasi spiandosi talora di sotto alle palpebre.

 

Giana.

 

Come?

 

Mortella.

 

Come chi troppo medita e non fa il male se non per tentar sé stesso e per essere un altro.

 

Giana.

 

Ah, so la specie.

 

Mortella.

 

Sembrava alzato sopra ogni cosa e capace d'ogni cosa.

 

Giana.

 

Anche bella?

 

Mortella.

 

Forse. Conduceva i sogni.

 

Giana.

 

Te ne dava?

 

Mortella.

 

Sapeva disarmare la forza e addormentarla.

 

Giana.

 

Con mani magnetiche?

 

Mortella.

 

Con mani di donna.

 

Giana.

 

Belle?

 

Mortella.

 

Mani d'avvelenatrice.

 

Giana.

 

Ah!

 

Una lieve pausa.

 

Come sono?

 

Mortella.

 

Non hai notata quella stampa che ho nella mia camera?

 

Giana.

 

Quale?

 

Mortella.

 

Quella dove la duchessa di Bisceglie si lava le mani.

 

Giana.

 

Non ricordo.

 

Mortella.

 

Si lava le mani in un bacile, con le braccia nude sino al gomito, dopo aver preparato per Alfonso l'acquetta perugina. Dietro la testa di lei si vede riflesso in uno specchio tondo il marito malato (troppo giovine, troppo gracile, troppo bello, come Bandino) che è fatto passeggiare con le grucce perché il moto accresca l'effetto del tossico.

 

Giana.

 

Sei strana, Mortella.

 

Mortella.

 

M'imagino d'aver veduto in uno specchio quelle altre due mani, fuori delle maniche rimboccate, lavarsi in una bacinella col medesimo gesto, così agevoli, così bianche.

 

Giana.

 

Mi sgomenti. Troppo sei strana.

 

Mortella.

 

È un sogno che ho fatto.

 

Giana.

 

Più ti guardo, meno ti scopro.

 

Mortella.

 

Eppure son meno buia di te.

 

Giana.

 

Ma forse meno distante da me ch'io non sia da me stessa.

 

Mortella.

 

Tu sei una donna.

 

Giana.

 

Tu hai preso il velo.

 

Mortella.

 

Il passato è il mio chiostro.

 

Giana.

 

Quando ero come te, ero una specie di creatura insensata che si sbigottiva e tremava dei suoi propri sogni credendo che dell'infezione d'un solo si potesse infermare e perire.

 

Mortella.

 

Il mio è in quello specchio che t'ho detto.

 

Giana.

 

E dov'è lo specchio?

 

Mortella.

 

In fondo al corridoio vetrato, su una parete della sala gialla, di contro all'uscio socchiuso della camera attigua dov'è un letto deserto fra uno scaffale di libri e un inginocchiatoio liscio, che stiantano quando qualcuno apre le persiane della finestra senza tende...

 

Ha parlato con una voce quasi interiore, eguale, fissando lo sguardo dinanzi a sé.

 

Giana.

 

Così parlano le veggenti.

 

Mortella.

 

Infatti veggo.

 

Giana.

 

Sembri malata, piccola dolce.

 

Mortella.

 

Non sono dolce io. Perché m'accarezzi?

 

Giana.

 

M'intenerisci. Lasciami mettere le dita nei tuoi capelli, per trovare il tuo male.

 

Mortella.

 

Io lascio le mie mani giù. Vedi.

 

Giana.

 

Tu diffidi di me, e forse mi detesti. Lo sento. Ma io ti voglio bene, e m'affliggo di saperti infelice.

 

Mortella.

 

Se ti riuscisse di trovare il mio male, tu ci ficcheresti le unghie dentro per irritarlo.

 

Giana.

 

Credi?

 

Mortella.

 

Ti sento già sveglia, vigilante. Hai le narici inquiete come se fiutassi nell'aria quell'odore amaro che deve piacerti.

 

Giana.

 

Tutta la Guinigia ha questo odore amaro.

 

Mortella.

 

Dove fu pianto, si piangerà.

 

Entra Bandino, angosciato e supplichevole.

 

Bandino.

 

Ebbene? Aspettavo che tu risalissi, Giana. Ero in gran pena. Che dice Mortella?

 

Giana.

 

Guardala.

 

Bandino.

 

Ah, niente di buono. Sorellina, sorellina selvaggia, perché sei tanto accigliata? Come puoi essere così dura, tu che sei così tenera quando vuoi? Ti supplico, ti supplico.

 

Mortella.

 

Tutto è già detto.

 

Bandino.

 

Vuoi che m'inginocchi?

 

Giana si siede, curvandosi innanzi, poggiando il mento sul dorso della mano, il gomito sul ginocchio; e rimane fissa, col suo pensiero attivo dietro la sua fronte impenetrabile.

 

Mortella.

 

No, Bandino. Non mi parlare come a una bimba capricciosa. E tu stesso parla come un uomo. Lascia per un poco la tua grazia. Non si tratta di farmi sorridere; e, veramente, i sotterfugi sono da ragazzi. Sei tu che hai accompagnata la mamma qui, senz'avvertire nessuno.

 

Bandino.

 

Pensavo che la sorpresa non ti sarebbe tanto sgradita.

 

Mortella.

 

Non ti servire delle solite formole. Non è proprio il caso. Non si tratta di convenienza o di consuetudine. La verità non cambia, per lo meno la mia.

 

Bandino.

 

Ma non si tratta neppure di un'estranea. Si tratta di mia madre, che è anche la tua.

 

Mortella.

 

E di suo marito, credo.

 

Bandino.

 

Ma...

 

Mortella.

 

Rispondi franco. Hai condotto qui anche lui?

 

Bandino.

 

Non in casa ancóra.

 

Mortella.

 

E dove? Perché ti pèriti? S'aspetta la notte per introdurlo di nascosto nella casa ch'egli conosce tanto bene? C'è ancóra troppa luce? E quale camera gli assegni? Quella laggiù, in fondo al corridoio vetrato? Mi sembra d'aver sentito che l'uscio s'è aperto da sé, che le persiane si sono spalancate da sé, che qualcuno ha sprimacciato le materasse e sbacchettato la coltre.

 

Bandino.

 

Mortella, Mortella!

 

Mortella.

 

Non è vero? Dici che non è vero? Eppure ho sentito tutta la notte sbacchettare come alle Tenebre della Settimana Santa. Tu no?

 

Bandino.

 

Ah, demente!

 

Mortella.

 

Avresti avuto paura.

 

Bandino.

 

Ma che vuoi dunque? Dillo: che cosa si deve fare per placarti?

 

Mortella.

 

Non ti disperare così. Io non ho nulla da volere, nulla da imporre. Io non son nulla. C'è qui Giana. Non siete tutti d'accordo? Io voglio umiliarmi: vi chieggo perdono d'avere una memoria tanto tenace. Non minaccio di mettermi a traverso la soglia per impedire l'ingresso o per farmi passar sopra. L'ho già detto. Me ne vado. Vi tolgo l'ingombro. La fine del giorno è bella, e c'è laggiù qualche viottola che non ho riveduta ancora...

 

Bandino.

 

Che demenza è la tua? Ricusi anche di vedere tua madre, lei soltanto? Ti sembra di non averla fatta piangere ancóra abbastanza?

 

Mortella.

 

È vero: sono la figlia malvagia. Tu sei il figliuolo esemplare.

 

Ora la chiusa ambascia le fiacca la voce anche nell'ironia.

 

Bandino.

 

Memoria per memoria, la mia rimonta più lontano. L'amore non giudica. Io non oserei giudicarla, né dire una parola dubbia contro qualunque de' suoi atti. Se la guardo, il cuore mi si fonde.

 

Mortella.

 

Il mio si serra.

 

Bandino.

 

Vuoi insomma impedirle di vivere?

 

Mortella.

 

Ma io ho vissuto e vivo nella morte, e non sapevo che fosse tanto profonda.

 

Bandino.

 

Bambina! Tu che condanni e colpisci, che sai tu dunque della vita? È ben più profonda ancóra, e più difficile.

 

Mortella.

 

Non più d'un Corale, non più d'una Fuga, per te. Ecco che tu riesci a farmi sorridere, e mi togli ogni tentazione di gridare. In quel tuo vecchio organo restaurato non hai «per la gravità» che giochi di flauto. Forse dovrai aggiungere un registro. Dio ti guardi, fratello mio bendato, e Giana ti conduca per mano nei nostri viali che odorano d'amaro sempre. Io voglio pregare per te. Voglio esser sola per avere compassione di me alfine, e anche di te, anche di nostra madre disconosciuta, anche del pellegrino penitente...

 

Ecco che la madre appare all'uscio, pallidissima. Giana la vede prima degli altri e si alza facendo qualche passo verso di lei in atto di accoglienza.

 

Giana.

 

Signora...

 

Bandino sobbalza e si volge.

 

Bandino.

 

Oh, mamma!

 

Egli le va incontro affettuosamente.

 

Vieni, vieni. Di': ti senti un poco meglio?

 

Mortella resta in piedi, senza fare un passo, contenendo la commozione che si rivela in un tremito visibile.

 

Giana.

 

È sofferente, signora? La prego, si segga.

 

Costanza.

 

Grazie. Domando perdono. Non è che una visita molto breve.

 

Giana.

 

Mi rincrescerebbe.

 

La sua cortesia è misurata e guardinga. Ma le tre creature del medesimo sangue sembrano avvolte da un turbine di dolore che d'attimo in attimo s'acceleri. Quelle prime parole scambiate sono vuote d'ogni vita, destituìte d'ogni peso, incerte; ma ora la bocca della madre pare gonfiarsi come le vene del cuore per colorare di tutta sé la dimanda ch'ella rivolge alla figlia immobile.

 

Costanza.

 

Non mi abbracci, Mortella?

 

Mortella.

 

Mamma, perdonami se ti faccio pena. Darei tutto per sottrarmi a questo momento.

 

Ella è sbiancata, vacillante; e il suo povero mento trema a ogni sillaba proferita. La madre l'avviluppa dal capo ai piedi in uno sguardo che le scoppia dalla pupilla come la potenza d'una fonte che, smarrita sotterra, sia di sùbito ritrovata e riaperta.

 

Costanza.

 

 

Non vuoi?

 

Mortella.

 

Forse entrando hai sentito qualcuna delle mie parole.

 

Costanza.

 

Non ho sentito che i colpi del mio cuore, figlia.

 

Mortella.

 

Il mio non lo reggo più, tanto è pesante.

 

Costanza.

 

Ma come sei cresciuta! Lascia che ti guardi. Mi sembra che non ti ho fatta così.

 

S'avvicina e la considera, con un'attenzione trepidante.

 

Tanto sei mutata in questi pochi anni! Ma sei bella, sei forse più bella. Hai gli occhi più grandi, molto più grandi. Allora l'iride intorno alla pupilla ti brillava come la scaglia di ferro intorno alla calamita. C'è troppa tristezza, troppa; e la volontà di non piangere, e l'ostinazione di soffrire. Non ti voltare. Guardami. Ti si sono infoltite le sopracciglia. Ti si sono scuriti i capelli. Non li portavi così allora. Ah, riconosco quel ritroso che avevi su la tempia destra. Ti tieni diritta in un altro modo, hai un altro modo di stare in piedi... C'è in te una forza che non t'ho fatta. Hai diciannove anni! Ed è come se per diciannove anni non t'avessi conosciuta. Lascia ch'io ti riprenda in me, ch'io ti porti ancóra! Mortella!

 

Le sue braccia si tendono in un gesto irresistibile.

 

Mortella.

 

No, mamma, non bisogna.

 

Costanza.

 

Non bisogna?

 

Mortella.

Ho pensato contro di te.

 

Costanza.

 

Mi rinneghi?

 

Mortella.

 

Oh, compiangimi. Non so, non so più. Soffro.

 

Costanza.

 

Non voglio più che tu soffra. Non ho che tenerezza per te. Son qui per riaverti.

 

Mortella.

 

Tutto di te mi fa male.

 

Costanza.

 

O povera, povera! Come questa parola ha potuto staccarsi dal tuo cuore umano?

 

Mortella.

 

Bisogna che il coraggio di dirla io l'abbia trovato in una profondità dove non si sente neppure battere il cuore, mamma.

 

Costanza.

 

Che voce! Non è quella che t'ho fatta. Dove si forma? Più giù del cuore, lo so: di sotto alla radice contorta della vita, a quella che non si può strappare senza che tutto smotti. Sa più di sangue che di pianto. Ma è pur sempre il nostro stesso sangue che più s'esaspera contro di noi e più ci travaglia.

 

Mortella.

 

Ti prego, ti supplico. Permettimi di andar via. Temo che a un tratto mi manchi la forza di soffocare quel che mi si rivolta, quel che mi urla dentro.

 

Costanza.

 

Bene, lacerami. Ti porto come una cicatrice che duole; ma lacerami, straziami un'altra volta, se dev'essere che tu mi nasca un'altra volta dal mio peggior dolore.

 

Mortella.

 

Dal mio, dal mio sono rinata, dal mio; e come, e con che anima, tu non lo sai.

 

Costanza.

Cotest'anima è il mio sgomento.

 

Mortella.

Se lo sapessi...

Costanza.

 

Bene, ch'io lo sappia. Sono venuta qui per ascoltare, per essere interrogata, per rispondere. Sono qui perché mi sieno palesati i miei falli, perché mi sia mostrata la mia onta a viso a viso. Non ho più orgoglio. Vedi: non ho esitato davanti all'umiliazione di apparire come un'intrusa, come un'importuna.

 

Bandino.

 

Mamma!

 

Costanza.

 

È così. Non ero annunziata, non aspettata, non desiderata se non da questo povero figliuolo che tuttavia si ricorda d'aver dormito su le mie ginocchia.

 

Bandino.

 

Di questo e d'ogni altra cosa buona, e di niente altro, in quest'ora e sempre.

 

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Egli è in piedi, un poco indietro, appoggiato allo spigolo d'una tavola, trascolorato sotto le continue onde di commozione che lo scrollano. A quella testimonianza di fede, la mare fugacemente si reca la mano alla fronte, al petto, ai due lati, e infine alle labbra; poi la distende verso il figlio e si volge verso lui irradiata per un attimo, sembrando avere unito il segno della croce al segno del bacio.

La nuora s'è fatta in disparte, verso il vestibolo. Sta seduta presso la cassa d'un alloro tagliato in forma di palla, e guarda a quando a quando il tramonto violaceo fumare sul giardino quadrato ove le mura bronzine dei carpini e dei tassi vanno sempre più annerandosi.

 

Costanza.

 

Ecco, da lui ricevo il condóno se sono in colpa. Non mi respinge; mi accetta, mi assolve. E la sua compagna, per voler essere d'un sentimento e d'un pensiero con lui, sembra che con lui consenta. Non ho più orgoglio. Lo vedi. L'orgoglio non mi tien luogo di vita; e io non so più vivere in questa pena che ha l'aspetto della vergogna, in questa specie di proscrizione spietata che mi separa dall'anima mia stessa. Ora tu sei che mi sbandisci, tu sola. Te sola vedo levata contro di me, armata contro di me, ostinata nel rinnegarmi...

 

Mortella.

 

Oh, non dire così!

 

Costanza.

 

Potrei dire: «Che il sangue parli al sangue». Invece non parlo come una madre ma come una donna. Ci vuole una potenza terribile per essere madre. Parlo come una povera donna a te che hai il viso d'una creatura piena di passione e di conoscenza, quel viso che un tempo era fino al mento nei capelli lisci, appena una mandorla tenera nel suo guscio socchiuso, qui, fra le mie due mani...

 

Mortella.

 

Ho adorato ogni vena delle tue mani. Lo sai.

 

Costanza.

 

Ora tanto sono contaminate, che non possono più toccarti? Eppure vorrei tenerti come allora, prenderti e tenerti ferma davanti alla mia pena, e dirti: «Eccoti. Finalmente ti ho, ti guardo. Stasera ti ho tratta dal buio che per tanto tempo mi t'ha nascosta. Parlami, senza esitazione, senza compassione. Sono pronta a prendere su me quel che v'ha di peggio. Scoprimi la verità. E poi, se è necessario, addio».

 

Mortella.

 

Ho più paura di guardarti così che di morire. Per restare in piedi davanti a te, per reggermi e per ascoltarti, consumo più forza che non ne abbia consumata in tre anni a sostenere la mia disperazione. Non resisto a quel che ti trema intorno alle labbra mentre ti lagni, non posso veder palpitare il tuo petto senza che la mia volontà si strugga.

 

Costanza.

 

M'ami dunque ancóra?

 

È un grido contenuto, ma partito dalle viscere profonde.

 

Mortella.

 

È il sangue che paventa il sangue, è la carne che teme la carne. Così è, anche se tu non lo dici; ed è una cosa mortale. È orribile sentire che la nostra voce ora passa tra i nostri denti. Se parlo, ferisco. Se interrogo, lacero. Se rispondi, mi strazii.

 

Costanza.

 

Che importa, purché qualcosa si salvi? La forza non è nell'accanimento; la forza è nell'amore. La mia volontà d'amore è tutto. I miei errori non son nulla.

 

Mortella.

 

Dio t'intenda! Che bisogno hai dunque d'essere assolta? Tutto è cancellato, tutto è dimenticato. Nessuna cenere è tanto grave che non possa essere dispersa ai quattro venti. Tu sei salva, sei salva in te, e sei salva nei tuoi prossimi. Non rimane se non il mio male. Io non ho che quello; e perché me lo volete togliere? Non potreste. Nessuno potrebbe. Fa parte ornai delle mie ossa e delle mie vene, è la mia midolla e il mio polso. La prima sera che qui fu riaccesa la prima lampada, io misi la mia mano contro la luce per iscoprirlo a traverso la palma rossa. Era , più mio che l'anima. Avresti potuto leggerlo.

 

Costanza.

 

È disumano il tuo male. Ti piega in due. Sei tanto giovine.

 

Mortella.

 

Giovine sono?

 

Costanza.

 

Tanto viva, e t'affanni sotto un peso lùgubre.

 

Mortella.

 

E chi lo porterebbe se io non lo portassi? Lasciatemi dunque andare, e non vedrete più me, né il carico. Ma, se mi costringete a rimanere, non so quel che farò: so che non potrò fare se non qualcosa di male. Ho abbastanza sofferto per osar tutto.

 

Costanza.

 

Ah, veramente, la mia povera ragione si perde. È dunque una legge di morte che vuoi imporre a chi non è colpevole se non di continuare a vivere? Mi rinfacci l'onta di non essermi immolata sul rogo?

 

Mortella.

 

Non morte, non onta, e neppure tutte queste parole. Non si osa dire ciò che importa. E la coscienza è una piaga che non guarisce mai e che tuttavia lascia vivere. Io ho supplicato perché mi fosse concesso di tacere e di partire. Non domando se non questo. So la mia vita. Considera che io sia già passata dalla parte della notte. Imagina che io vada ai miei sponsali. È d'aprile, e ci saranno le stelle. Ma non mi chiedere quel che non avresti la forza di udire, e non pretendere ch'io getti il mio cuore sotto le calcagna dell'ospite atroce che sta per ritornare.

 

Costanza.

 

Ah, ecco il tuo odio! Ti soffoca.

 

Mortella.

 

No. Lo respiro.

 

Costanza.

 

Che t'ha fatto? Non puoi perdonargli d'avermi stesa la mano quando tutte le sciagure mi serravano ed ero rimasta sola a dibattermi e tu già ingiusta e oscura ti drizzavi contro di me sconvolta!

 

Mortella.

 

Sconvolta, veramente. Tu lo dici. Che ero io divenuta? Non t'accorgevi di me. Eppure avevo già gli occhi grandi e attenti, e la scaglia di ferro nell'iride. Quante cose ti son cadute dalla memoria!

 

Costanza.

 

E a te? e a te?

 

Mortella.

 

Nessuna, nessuna. Di tutto mi ricordo, e non io sola, ma un altro si ricorda in me; e con che tenacia!

 

Costanza.

 

Non ti ricordi dunque che l'adoravi?

 

Mortella.

 

Chi?

 

Costanza.

 

Quegli che detesti.

 

Mortella.

 

Ah, come puoi dir questo?

 

Costanza.

 

Quando parlava, tu pendevi dalle sue labbra. Quando era per giungere, non contenevi la tua impazienza. Spiavi il suo arrivo dal Belvedere. Ti precipitavi per le scalee a incontrarlo.

 

Mortella.

 

Non è vero.

 

Costanza.

 

Sapevi che gli piacevano le violette di marzo, e passavi ore e ore a cercargliene nel lecceto. Glie ne chiudevi tra le pagine dei libri, glie ne posavi sul davanzale, glie ne mettevi sotto il tovagliuolo, perfino dentro i guanti.

 

Mortella.

 

Non è vero, non è vero.

 

Costanza.

 

Come! Tuo fratello è qui che può dirlo. Certo, Bandino si rammenta che ti canzonava per quel tuo intercalare intraposto a ogni specie di discorsi: «E ora, via, mi racconti una bella storia».

 

Ella tenta di raddolcirsi fino a simulare il sorriso d'una volta, quasi speri di disarmarla. Ma la fiamma cupa, che subitamente era salita alla faccia dell'avversaria, si spegne in un pallore d'ira repressa.

 

Mortella.

 

Non è vero. Che fanciullaggini!

 

È , un poco piegata innanzi, palpitante, con un bagliore quasi bieco nell'occhio, con l'aria selvaggia di chi sia per balzare e si trattenga.

Giana s'è alzata, s'è appressata alquanto; e segue con attenzione la vicenda. Qualcosa di ardente e di pugnace sembra aguzzare il suo viso misterioso, quasi che nell'aria ella respiri un rischio incognito.

La sera già cala sul giardino simmetrico ove gli orli di bossolo disegnati sono già neri come una tarsìa di ebano. Si vede sul rigido muro di càrpini persistere una lunga e stretta lama di luce sulfurea. Una nuvola color di piombo pende a mezzo del cielo, gravida di pioggia. L'ombra invade a poco a poco la sala, occupa l'una e l'altra abside, riempie le nicchie.

 

Non ti fidare, mamma. Non varcare il limite. Puoi tendermi un laccio così tristo per cercare di pigliarmi! Come quel povero sorriso deve averti fatto male dentro!

 

Costanza.

 

Per disarmarti, non giova neppure spremersi dal cuore l'ultima goccia di dolcezza.

 

Mortella.

 

Oh, la tua dolcezza! Mi ricolmi le mani di violette perché le tenda, perché ne offra ancóra, perché ne sparga la soglia? Dio guarisca le mie mani! Io non ho voluto dire stasera nessuna parola che potesse tentare l'ombra; e tu non dubiti di tentarla. Ma se, invece dell'ospite che deve rientrare, a un tratto apparisse quello di sotterra?

 

Costanza.

 

Mortella! Mi fai paura.

 

Mortella.

 

Non ti fidare. Non basta non nominarlo, non basta passarlo sotto silenzio, perché non esista, perché non sia presente. Abita ancóra qui, abita qui sempre; e, se tu vieni, non puoi venire se non per visitarlo. Ecco che la sua anima riempie tutto il vuoto.

 

Costanza.

 

Dio mio, Dio mio!

 

Mortella.

 

È un'anima che ha tuttora un viso. Guarda. Ha ripreso il suo viso di carne, la sua bocca di bontà, i suoi occhi di sogno, la sua fronte di poesia. È dietro di te, è vicino a te. Eccolo.

 

Balza verso il fratello tremante, e gli prende il capo fra le mani.

 

Costanza.

 

Ah, non mi spaventare, Mortella. Per pietà! Divento pazza.

 

Indietreggia rabbrividendo, e si volta, bianca di terrore.

 

Mortella.

 

Eccolo. Guardalo.

 

Il fratello ha barcollato, s'è piegato su le ginocchia.

 

L'hai dimenticato? Riconoscilo. Non è lui vivo?

 

La madre leva le braccia come chi batte l'aria prima di stramazzare.

Il destino stesso potrebbe ingannarcisi.

La madre rompe in singhiozzi e si abbandona perdutamente sul figlio inginocchiato; mentre Mortella si volge coprendosi la faccia con ambo le mani, ma senza piangere.

Con uno sforzo Bandino si alza a sorreggere la dolorosa. Pieno di desolata tenerezza, cingendola col braccio, appressando la gota alla gota, la conduce via pianamente. Giana si avvicina alla cognata, le tocca una spalla, poi la prende ai polsi per scoprirle la faccia.

 

 

Giana.

 

Piangi?

 

Nell'ombra, le palpa con le dita la gota per sentire se le lacrime vi scorrano.

 

Mortella.

 

No, non piango. Bisogna che io serbi la mia faccia al sorriso avvenire. Perdonami, Giana, tutte queste cose penose e odiose. Non ti darò più noia. Sono io che opprimo tutti, che separo tutti. Non c'è posto per me qui. Ecco la sera. Senti? Un'altra acquata, ma più blanda. Ascolta. Piove su i bossoli e su i càrpini. Ora sì che si respira l'odore amaro. E sembra che la primavera si stemperi e il mondo vapori. Come sarebbe allegra la Rondine se mi vedesse arrivare d'improvviso all'Olmatello più fradicia di lei! A che pensi, Notturna?

 

Giana.

 

Penso al tuo enigma, e a quello specchio dove tu scopristi quelle due mani.

 

Mortella.

 

Come io sia partita, va, staccalo dalla parete, prendilo e portalo nella tua camera.

 

Giana.

 

Tutto può diventare strumento di magìa.

 

Mortella.

 

Pazzia e magìa hanno grande somiglianza.

 

Giana.

 

Forse è vero.

 

Mortella.

 

L'una e l'altra fanno escire l'anima di sé stessa.

 

Giana.

 

L'amore anche, il martirio anche.

 

Mortella.

 

E non bisogna piangere. Una lacrima non versata può diventare un pensiero magico che c'illuminerà nella via profonda.

 

Giana.

 

Questo dev'essere vero. Io, quando piangevo, piangevo sempre a capo chino per lasciar gocciolare le lacrime senza che mi rigassero le gote e facessero solco. Ora me le terrò dentro, le nuove, se si formano.

 

Mortella.

 

Così me ne vado senza paura all'ignoto.

 

Giana.

 

Aspettalo, piuttosto.

 

Una pausa. Tutta la casa è silenziosa, come senza respiro. Non s'ode se non il romore eguale della pioggia primaverile sul giardino nerissimo.

Mortella.

 

Ascolta: ti domando d'essere una buona sorella per me, in questo momento, in estremo.

 

Sembra nuovo sopraffatta dalla commozione.

 

Giana.

 

Cara piccola sorella, amo la tua faccia, il tuo soffio, la tua passione, il tuo delirio; e amo anche il tuo destino, se non lo soffochi. Non essere diffidente. Dimmi dunque.

 

Mortella a un tratto sobbalza.

 

Mortella.

 

Giana, Giana! Chi è la?

 

Afferra il braccio della cognata indietreggiando.

 

Giana.

 

Dove? Dio mio! Che vedi?

 

Mortella.

 

Ho veduto qualcosa come un'ombra d'uomo, , dietro la fontana morta.

 

Giana.

 

Non mi far paura. Sei allucinata.

 

Mortella.

 

Ma no, ma no: c'è qualcuno .

 

L'una si serra all'altra, comunicandosi lo sbigottimento.

 

Giana.

 

Chi è ?

 

Gherardo Ismera sale i gradini e apparisce al limitare del vestibolo.

 

Mortella.

 

È un uomo, un uomo vivo.

 

Lo riconosce, e trattiene a stento il grido, distaccandosi da Giana, indietreggiando ancóra.

 

Ah, è lui, è lui!

 

L'ospite si scopre il capo e s'avanza a traverso il vestibolo. È padrone di sé, nella sua semplice cortesia; ma qualche accento della sua voce tradisce il suo turbamento dominato.

 

Gherardo Ismera.

 

Mi perdoni, signora, se entro così. Sono io, Gherardo Ismera. Giravo nel parco, aspettando mia moglie. S'è fatto tardi. È venuto il rovescio. Cercavo d'un domestico. Mi perdoni se mi sono ardito... Posso domandarle se Costanza sia ancóra qui?

 

Scorge Mortella che, diritta nell'ombra, tiene gli occhi sbarrati su lui.

 

Oh, Mortella! La mamma...

 

Udendo da quella voce nominare il suo nome, ella perde ogni dominio di sé. L'interrompe con una violenza subitanea, come forsennata. La collera le strozza la parola. Ella è diritta, con la testa alzata, coi pugni chiusi, fosca e ardente.

 

Mortella.

 

No, no, non voglio! Non voglio che nominiate il mio nome, né l'altro davanti a me. Non voglio che voi abbiate ancóra codesta voce falsa per osare di rivolgervi a me, per tentare di ravvicinarvi. Ancóra una volta ingannerete tutti, e non me. Vi odio, vi odio. Voglio almeno gettarvi in viso, prima d'andarmene, il mio odio e il mio dispregio, con tutte le mie forze. Avete aspettato la notte, prima d'entrare, come se veniste per saccheggiar la casa un'altra volta...

 

Giana.

 

Mortella!

 

Mortella.

 

Non è vero? Guardalo. Guardagli le mani. Da quanto tempo giravate attorno? Le pietre non gridavano? Ma grideranno. Quando ho scoperto la vostra ombra, avevate l'aria di qualcuno che porti una salma... È un peso che doventa ogni giorno più grave, finché schiaccia.

 

Giana.

 

Mortella, ti prego, ti prego. Calmati.

 

Mortella.

 

Siete entrato per sorpresa. Rimarrete. Lo so. So codest'arte. Non iscacciato, ma onorato. Non ve n'andrete più. Mio padre sarà seppellito una seconda volta, e la tavola sarà apparecchiata ogni sera per l'ospite inesorabile.

 

Giana.

 

Ti prego, Mortella! Non è bene...

 

Mortella.

 

Ah, non è bene! Tu mi preghi...

 

Ella s'interrompe un istante e si cangia subitamente. La furia ostile l'abbandona; la voce perde ogni rudezza; la sua stessa persona sembra ripiegarsi. E nondimeno qualcosa di più sinistro le balena fra i cigli.

 

Mio fratello m'implora, mia madre mi supplica. Ecco che la grazia entra in me. Voglio esser docile, quel che si dice «un sennino d'oro».

 

Si ritrae a poco a poco verso l'uscio che è dietro a lei. Il sarcasmo le torce la bocca, ma una espressione indicibilmente infantile contrasta col suo volto convulso.

 

Padre d'anima, stasera troverete sotto il tovagliolo un mazzolino di quelle violette, e forse un altro sotto il capezzale. Sta bene così? Tutto sta molto bene così... E poi mi racconterete ancóra una bella storia.

 

Si trova su la soglia, si dilegua nell'oscurità, simile a una larva.

 

Giana.

 

Veramente, è come forsennata. Mi fa paura. Or ora non aveva un viso di pazza? e il modo, e l'accento, e lo sguardo della manìa?

 

Gherardo Ismera.

 

È una strana creatura, non senza potenza e bellezza. Sarebbe gran peccato se si perdesse. Ma non respira se non nelle finzioni che le nascono dentro, e ognuna in lei pare accompagnata come da un sentimento di necessità. Dal giorno che ho cessato di raccontarle qualche «bella storia», deve averne raccontata una a sé medesima, troppo cupa, e poi dev'essersi messa disperatamente a viverla.

 

Parla con una sorta di malinconia pacata e lucida, con una sicurezza grave, con qualcosa d'un artefice che abbia un suo modo risoluto di prendere la materia della vita e di trattarla da sobrio maestro.

 

Giana.

 

È questa la cagione del suo male?

 

Gherardo Ismera.

 

Per qualche tempo ho seguito con grande attenzione la piccola anima misteriosa. È piena di figure confuse che domandano uno spirito che le distingua. Era allora in lei un bisogno così ardente d'esser compresa e di comprendere, che certe volte il suo fervore somigliava a quegli uccelli che si precipitano contro i cristalli del faro e si rompono le penne senza chiudere gli occhi.

 

Egli è tuttavia in piedi. Giana s'è appoggiata a una spalliera, nella sua attitudine consueta, col mento sul dorso della mano; e sembra tesa a spiarlo da' suoi lunghi occhi di bautta. Come un'arme a un sol taglio, la sua voce ha da una sola banda un sottilissimo filo di derisione.

 

Giana.

 

Voi siete dunque uno che sa leggere anche in un'anima di vergine? O meraviglia! Se penso alla mia d'allora, su l'orlo della vita, la rassomiglio alla farfalla quando beve; che ha le ali rialzate e congiunte dalla parte degli screzii e dei colori come quattro pagine combaciate dalla parte dello scritto.

 

Gherardo Ismera.

 

E dopo?

 

Giana.

 

Dopo, sono diventata farfalla di notte. Giusto appunto, non portano ancóra le lampade! In fondo, credo che Mortella non abbia bisogno se non d'un poco di felicità.

 

Gherardo Ismera.

 

Pur sapendo che manca nella sua mano la linea della felicità, un giorno mi chiese, tutta seria: «Voi credete veramente che si possa morire?».

 

Giana.

 

Lo credete, veramente?

 

Gherardo Ismera.

 

Talvolta certe creature sembrano così remote che potrebbero essere immortali. Qualche mattina, l'aria la conteneva come qualcosa che sia custodita per sempre, come una di quelle api che sono chiuse nell'ambra antica dove hanno assunto una specie di eternità priva di miele. Poi veniva a me con i suoi sogni e i suoi pensieri intricati non meno selvaggiamente dei suoi capelli zeppi di foglie, di paglie e di rovi, tornando dalle sue corse nel parco incolto. E restava in silenzio, come aspettando che io li districassi.

 

Giana.

 

I capelli?

 

Gherardo Ismera.

 

I pensieri.

 

Giana.

 

Avete le mani abili?

 

Gherardo Ismera.

 

Non senza timidezza, signora.

 

Giana.

 

Forse per ciò le facevate male.

 

Gherardo Ismera.

 

«Quanto bene mi fa questo male!» è una parola mistica della sua precocità. Un giorno l'ho udita che diceva a una piccola amica chiamata Gentucca, in tono di gran segreto, mentre i due cuori battevano alla medesima altezza: «Tu insegnami il punto di Venezia e io t'insegnerò a versare certe lacrime che tu non sai».

 

Giana.

 

Oh, cara! Dianzi invece m'insegnava a non le versare.

 

Gherardo Ismera.

 

Cosa molto più difficile, e forse più inebriante. È un insegnamento di martire.

 

Giana.

 

O di maga?

 

Gherardo Ismera.

 

L'una non è nell'altra, per una comune volontà di trascendere la natura e lo spirito? Credo che il martirio è forse la vera vocazione di Mortella. Infatti, ecco ch'ella inventa il suo supplizio, non potendo essere trafitta dalle frecce o lacerata dai denti della ruota.

 

Giana.

 

Diceva dianzi: «Bisogna che io serbi la mia faccia al sorriso avvenire».

 

Gherardo Ismera.

 

È un'altra parola mistica. Ah, ma chi la salverà?

 

Giana.

 

L'amore, forse.

 

Gherardo Ismera.

 

È un cattivo salvatore.

 

Giana rompe la sua attitudine, e pronunzia la parola seguente con una specie di perfidia repentina e celata.

 

Giana.

 

La vendetta.

 

Gherardo Ismera.

 

Non sazia. È quasi sempre vana.

 

La donna si muove, inquieta, piena del suo dèmone, con il metallo della voce appannato dal sogno ma pur sempre affilato dall'ironia.

 

Giana.

 

Il tempo, la solitudine, la demenza, la santità, la morte...

 

Gherardo Ismera.

 

Che grandi cose!

 

Giana.

 

Una vittoria in ginocchio, un di quegli Angeli che si chiamano Ardori.

 

Gherardo Ismera.

 

Che grandi cose ella ardisce nominare, all'appressarsi della notte!

 

La pioggia cessa. La quiete è senza mutamento. Laggiù, lavato, il lembo dell'estremo crepuscolo vérdica lungh'esse le cieche pareti di verdura perenne. Ma l'aria della stanza sembra come agitata da quella evocazione spirituale. Giana si sofferma, e di sùbito si volge come per assalire.

 

Giana.

 

Temete la notte? Ah, vedo: Mortella v'ha un po' sbigottito con le sue evocazioni funebri... Davvero è possibile che sentiate farsi più grave quel certo peso di cui ella vi carica?

 

Gherardo Ismera.

 

È possibile, signora.

 

Giana.

 

Che dite mai?

 

Gherardo Ismera.

 

È un peso di lutto, fatto più grave dai tanti ricordi che ravviva l'aspetto di questi luoghi, di queste cose familiari, in quest'ombra ove mi sembra quasi di cogliere il soffio dell'amico scomparso.... Che diceva dianzi Mortella? Che avevo l'aria di portare una salma...

Sì, è vero. L'ho portato su la mia spalla, l'amico mio; ho attraversato questa sala, quel vestibolo; ho disceso quei gradini; ho camminato fino alla Cappella, per quel viale di bosso che il cuore riconosce all'amarezza. Suo figlio, Bandino, era al mio fianco; e i suoi due buoni servitori sostenevano gli altri due canti della cassa... Ma egli era degno d'esser rapito da quella Vittoria e da quell'Angelo nominati or ora come i messaggeri d'un riscatto miracoloso. Se il pregio d'una vita recisa potesse misurarsi al peso, ah, certo le nostre spalle si sarebbero incurvate, tutte le nostre ossa avrebbero ceduto sotto il carico.

 

Giana.

 

Così non si parla se non di un eroe.

 

Una commozione virile trema nella voce del superstite.

 

Gherardo Ismera.

 

E non era un eroe? Della grande specie solitaria, di quegli che voglion vincere in silenzio una virtù dinanzi a cui possano inginocchiarsi. La Vittoria in ginocchio! Una tale imagine sembra creata dall'ispirazione del suo spirito.

 

Giana.

 

Più che umano, dunque.

 

Gherardo Ismera.

 

Con un esempio più che umano, egli mi mostrò che comandare e obbedire sono le due arti più difficili dell'anima libera.

 

Giana.

 

Quale delle due apprendeste?

 

Gherardo Ismera.

 

Colui che obbedì porta tutto il peso di colui che comandò, ma un tal carico non lo schiaccia.

 

Giana.

 

È l'enigma?

 

Gherardo Ismera.

 

Addio, signora.

 

Giana.

 

È il vostro enigma?

 

Gherardo Ismera.

 

Voglia perdonarmi e credere alla sincerità del mio rammarico. Il caso ha voluto che ogni mia esitazione e apprensione fosse troncata d'un colpo, al primo istante. Nell'entrare, già mi consideravo come un estraneo, quasi come un mendicante. Nell'escire, so d'esser tenuto come un nemico, quasi come un saccheggiatore. Ma non v'è ombra di risentimento in me, e la mia pena è assai tollerabile in paragone d'un'altra ben più grave. Attenderò mia moglie al cancello. Già spiove. Le sarò grato se vorrà farla avvertire. Comunque, io non dimenticherò la fine di questo giorno.

 

Egli s'inchina profondamente, e s'avvia verso il vestibolo. Giana risponde al saluto, senza parola, tenendo le mani dietro il dorso intrecciate. Poi riprende a errare nell'ombra della sala, come stretta da una perplessità ansiosa. Quando il visitatore discende già i gradini, ella si sofferma a guardarlo, fa qualche passo verso il portico. D'improvviso lo richiama.

 

Giana.

 

Signore, La prego: rimanga. È ospite mio.

 

Gherardo Ismera s'arresta nell'ombra, si volta. Un tenue sorriso gli passa negli occhi. Risale i gradini, mentre Giana Guinigi in piedi l'attende.

In quel punto due vecchi servitori taciturni entrano portando le lampade accese.

 

FINE DEL PRIMO ATTO.


 

 

 


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