Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il ferro
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IL SECONDO ATTO

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IL SECONDO ATTO

 

Appare la camera di Mortella, tutta imbiancata di calcina tra modanature semplici di pietra serena, sotto le vecchie travi del palco dipinte toscanamente a disegni minuti in rosso, in nero, in verde.

Nella parete destra è praticato un vano, chiuso da cortine di broccatello verde e bianco, ov'è il suo letto di fanciulla.

Nella parete a riscontro, un vano della stessa ampiezza sfonda in una loggetta chiusa da vetri quadri in piombi per ove passa la luce del giorno inverdita dal fogliame dei grandi lecci.

Nella terza parete alcuni gradini, compresi entro la grossezza del muro, salgono a una larga vetrata che su una loggetta scoperta - albeggiante quella di Paolo V nella villa frascatana di Mondragone - cinta di balaustri e protetta da una pergola d'assi foltissima di glicini in fiore, per ove si può da una scala esterna discendere nel sottoposto ortopenso.

Sopra gli scaffali bassi, pieni di libri, sono disposti lungo il muro vasi di maiolica, cofanetti di legno e di cuoio, stampe in cornice, una pace di niello, qualche statuetta religiosa, qualche madonna, qualche santa in tavoletta d'oro. Un gravicembalo a due tastiere, d'un color chiaro d'avorio ornato di tenui ghirlande, è in un canto della camera con un quaderno di musica sul leggìo. Il medesimo broccatello verdebianco si sbiadisce su le seggiole, su le poltrone, nelle tende, nella portiera dell'unica porta.

È un pomeriggio di maggio. Il sole, traversando i grappoli spessi di glicini, fa una luce d'ametista come se accendesse la tonaca paonazza d'una Martire nella vetrata d'una cappella. Quel riflesso violetto mescendosi al verdognolo che viene dalla parte del lecceto, tutta la stanza è immersa in un chiarore stranamente misto, che nell'ombra degli angoli tiene del livido.

La Rondine sta per entrare, dalla parte della loggetta. Tenendo ancóra una mano alla vetrata che si richiude e reggendo con l'altra un fresco viluppo di vitalbe che le fioriscono il petto fin sotto il mento, ella dal gradino si sporge verso la cameriera che le va incontro con cautela per non fare strepito.

 

La Rondine.

 

Non è ?

 

La Salvestra.

 

Riposa.

 

La Rondine.

 

Dove?

 

La Salvestra.

 

, sul suo lettino.

 

La Rondine.

 

Da quanto?

 

La Salvestra.

 

Da un'oretta.

 

La Rondine.

 

Non si sentiva bene?

 

La Salvestra.

 

Non si sente mai bene. Anche stanotte non ha dormito mai. Dio mio santo! L'ho sentita smaniare fino all'alba.

 

La Rondine.

 

Il dottore è venuto?

 

La Salvestra.

 

Sì, signorina. Stamani le ha trovato un po' di febbre.

 

La Rondine.

 

Poco poco?

 

La Salvestra.

 

Qualche decimo. Non è quella, di sicuro, che le il delirio.

 

La Rondine.

 

Ma che dite, Salvestra? Ha delirato?

 

Scende gli altri gradini, sollecita, e s'appressa.

 

La Salvestra.

 

Non è che un'idea, signorina. La chiamano delirio.

 

La Rondine.

 

Sempre il padre?

 

La Salvestra.

 

Sempre. È un'idea che non l'ha lasciata mai. Anche prima di tornar qui, non faceva che rimuginarla. Io lo so. Non me ne scordo dei giorni neri che ci toccò passare quando la signora Costanza si rimaritò col signor Gherardo.

 

La Rondine.

 

Io, per me, Salvestra, mi ci perdo. C'è qualcosa.

 

La Salvestra.

 

Certo che c'è qualcosa.

 

La Rondine.

 

Ma che cosa?

 

La Salvestra.

 

Che vuole che le dica, signorina?

 

La Rondine.

 

Quell'odio contro il padrigno...

 

La Salvestra.

 

È odio vecchio.

 

La Rondine.

 

Ma non era così, prima. Che può averle fatto?

 

La Salvestra.

 

E che si può sapere?

 

La Rondine.

 

Come? Credevo che sapeste tutto.

 

La Salvestra.

 

Nulla di nulla.

 

La Rondine.

 

Che disgrazia!

 

La Salvestra.

 

Non si confida. E sa com'è testereccia! Si tiene tutti i suoi pensieri nel suo capino ostinato e, quasi non fossero abbastanza chiusi, me li fa serrare intorno con quella treccia più ritorta d'una corda stramba.

 

La Rondine.

 

Le s'addice molto, veramente.

 

La Salvestra.

 

Ne convengo. Ma ora, la mattina e la sera, quando la pettino, non parla più. Prima, mi ricordo, canterellava dentro i capelli, come in una gabbia di vinco bruno. Ora sta tutta muta, sotto; e pensa, e rimùgina. Anche quando qualche volta mi par di farle male col pettine fitto, non si risente. E le confesso che provo una certa soggezione, non so che apprensione, nel ravviarla, tanto certe volte mi par di mettere le mani nella sua doglia viva.

 

La Rondine.

 

Ah, vivi son di certo i suoi capelli come se si rammentassero d'essere stati serpi...

 

La Salvestra.

 

Serpi?

 

La Rondine.

 

Serpicine senza denti, Salvestra, biscioline senza capocoda, che non fanno nessun male. Ma non è vero che, quando non sono ben serrati in treccia, sembra che si divincolino? Vorrei bene averli così, io, perché uno me li incantasse con un sufoletto, la sera.

 

La Salvestra.

 

Ecco, una ha sempre un pensiero, e l'altra ha sempre un altro pensiero. Felice lei, signorina, che ha già trovato l'incantatore!

 

La Rondine.

 

Son diventata rossa?

 

Graziosamente ella abbandona il viluppo delle vitalbe per guardarsi in uno specchietto ch'ella ha dentro una scatola di smalto insieme con un po' di cipria e col piumino. Ne profitta rapidamente per incipriarsi il naso.

 

La Salvestra.

 

Non ci si bada. È tempo di ciliege.

 

La Rondine.

 

Sentite, Salvestra. Bisogna fare qualcosa.

 

La Salvestra.

 

Sentiamo.

 

La Rondine.

 

Non vi sembra che patisca come chi sia in mal d'amore... senz'amore?

 

La Salvestra.

 

Quando si patisce, gli è tutt'uno.

 

La Rondine.

 

Ah no.

 

La Salvestra.

 

E che direbbe di fare?

 

La Rondine.

 

Tutto farei, tutto farei per guarire la mia Mortina. Credo che le darei anche la mia felicità, se si potesse. Ma non si può, giacché ha nome e cognome e veste panni. Credo che, se fossi veramente una rondine, partirei per andare a cercarle quegli che non si conosce e che sempre s'aspetta, quegli che a me, prima che fosse venuto, mi pareva abitasse in quel punto del cielo dorato di dove le rondini arrivano, certe sere, a un tratto gridando su noi con un lampo così bianco che si pensa: «Oh, certo, non può essere che lui capace di aggiungere un'ala ai piedi degli uccelli!».

 

La Salvestra.

 

Dio le conservi i bei sogni! Ma, se pur venisse, non sarebbe forse il benvenuto.

 

La Rondine.

 

Non verrebbe, se non fosse aspettato.

 

La Salvestra.

 

Ma non si sa quel che s'aspetta.

 

La Rondine.

 

Non s'aspetta che l'amore.

 

La Salvestra.

 

E arriva il dolore. Beata lei, beata lei che fa il saggio del miele e non si dubita del cotogno!

 

Gentucca sobbalza, credendo udire una voce di dentro le cortine.

 

La Rondine.

 

Salvestra! Non avete sentito? Si sveglia?

 

La donna, in punta di piedi, rattenendo il fiato, va a origliare.

 

La Salvestra.

 

Riposa ancóra. Spesso si lagna nel sonno, qualche volta parla. Parla da sé, sola, anche quando è sveglia, quando è chiusa in camera, durante il giorno. La sento, e credo che ci sia qualcuno. Entro, e la trovo sola, che cammina su e giù, a capo chino. Iersera non mangiò, non si coricò. Sentii che faceva le volte, sino a tardi. Non so che avesse. Non l'avevo mai veduta tanto scura. Era come una che torni dallo stare in guato...

 

La Rondine.

 

Di dove tornava?

 

La Salvestra.

 

Dal parco. Non so che cerchi. Pare che faccia la posta. Ora porta quasi sempre i sandali allacciati, che non staccheggiano. Scende da una terrazza all'altra in un lampo, sgattaiola lungo i muri, sguiscia dietro i càrpini, fruga per ogni dove, come quando - se ne ricorda? - loro due davano la caccia ai ricci...

 

Gentucca l'interrompe con una vivacità infantile.

 

La Rondine.

 

Ah, Salvestra, sapete, quella tartaruga...

 

La Salvestra.

 

Quale tartaruga?

 

La Rondine.

 

Vi dirò poi. Continuate, continuate. Ma perché fa così? Che credete?

 

La Salvestra.

 

Non so. La disgrazia è che sempre l'hanno tenuta come una bambina semplice, senza farne caso, senza usare prudenza, anche a quell'epoca. Miss Turner non la capiva punto. E io dico che non c'è al mondo una che abbia più sentimento di lei per vedere, per scoprire, per indovinare. Le basta di fiutar l'aria, per conoscere di che si tratta. Con lei non c'è nulla da nascondere. Pare che entri nell'anima di chiunque. A me mi fa paura quando mi fissa. Mi trema il cuore dentro.

 

La Rondine.

 

E a me? Mi vien quasi fatto di coprirlo come quando si para il lume con una mano, perché non lo veda ardere d'allegrezza. Ho quasi vergogna d'esser felice davanti a lei. Mi piacerebbe d'aver sempre gli occhi rossi arrivando e di poterle dire: «Sai, m'hanno fatto piangere, anche me».

 

La Salvestra.

 

Ma non piange mica. Magari piangesse! Lo dice anche il dottore. Dio, Dio buono, aiutateci a passare questi due giorni. Ah, son lunghi!

 

La Rondine.

 

I giorni son cresciuti di sei ore, Salvestra.

 

Un involontario guizzo di gioia passa nelle sue parole.

 

La Salvestra.

 

Oggi è l'antivigilia del Corpus Domini.

 

La Rondine.

 

È vero.

 

La Salvestra.

 

Domattina si dice la messa di requie nella Cappella.

 

La Rondine.

 

Ah, è vero. L'anniversario!

 

La Salvestra.

 

Non so come si farà.

 

La Rondine.

 

Assisteranno tutti?

 

La Salvestra.

 

Che la buon'anima faccia nascere un bene, oggi. Sa che cosa ha consigliato il dottore?

 

La Rondine.

 

Che cosa?

 

La Salvestra.

 

Che il signor Gherardo venga e le parli e ragioni con lei e le dimostri il vero e cerchi di persuaderla, di toglierle l'idea, di guarirla dalla mania, di rappacificarla insomma. Dice che questo è il mezzo da tentare, ora che il male fa crisi. Hanno tenuto un consiglio, con la signora Costanza. Pare che il signor Gherardo sia pronto, oggi stesso, prima di sera. Bisogna pur uscire da questo inferno coperto. Ma io ho una grande inquietudine. E il dottore lo vedo troppo serio. Ier l'altro la signorina lo trattenne più d'un'ora, a parlare a parlare. E lui, quando uscì, era molto accigliato.

 

La Rondine.

 

È il Securani, quello stesso che curò il padre?

 

La Salvestra.

 

Quello. Ora pare che si faccia questa prova, come Dio vuole.

 

La Rondine.

 

E Dio faccia la grazia! Credo anch'io, Salvestra, che un bene ne possa venire. E ho visto or ora un segno di buon augurio.

 

La Salvestra.

 

Che segno?

 

La Rondine.

 

Quella vecchia testuggine, sapete, con la scaglia tutta sbocconcellata, che chiamavamo Ninicchia, tanto affezionata a Mortella che la credeva perduta perché non s'era più fatta viva...

 

La Salvestra.

 

Ebbene?

 

La Rondine.

 

È ricomparsa! Mentre mi sforzavo di staccare questi tralci dal leccio del Conte, mi son sentita tirare appena appena per l'orlo della gonna come da un gattino timido. Mi son voltata. Era lei, ai miei piedi, sul musco, che tentennava quel suo capo novo come quel d'una serpe che avesse allora allora gettata la buccia.

 

La Salvestra.

 

Veramente la tirava per l'orlo?

 

La Rondine.

 

Ma sì, vi dico. Può essere che m'abbia presa per un cesto di lattuga. L'ho sollevata con le due mani, l'ho messa su una bella pietra al sole, e le ho detto: «Restate , Ninicchia, senza muovervi; ché fra poco vi conduco qui la Fata Mortella». Deve aver capito.

 

S'interrompe; e tende l'orecchio verso le cortine, palpitando.

 

Si sveglia? Non ha sospirato?

 

La Salvestra.

 

Sembra che dorma profondo.

 

La Rondine.

 

Bisogna che finisca il suo sonno. Si sveglierà tutta fresca, e disposta a lasciarsi guarire. Che si può fare, Salvestra? Pregare? Non c'è qualche incanto?

 

La Salvestra.

 

Se c'è, e ci bisogna un cuore da pestare, ecco il mio.

 

Nella sua voce sommessa trema una devozione senza limiti.

 

La Rondine.

 

Siete buona. Lo so. Com'è dolce di sentir parlare l'amore così! Vegliatela sempre. Ora le lascio qui le vitalbe, qui, - non le mettete da parte, vi prego! - che, uscendo dalle cortine, c'entri dentro e ci si senta impigliata e dia in un riso e dica: «È Gentucca».

 

Ella depone il viluppo sul tappeto, davanti alle cortine. È così tenera che sembra le si inumidisca la parola.

 

Me ne vado e poi torno. Torno verso sera. Ah, ma vorrei vederla un attimo, gettarle soltanto un'occhiata! Un attimo solo, metto il viso tra le cortine, Salvestra, e la guardo. Piano, piano. Trattengo il respiro.

 

La donna fa un gesto di consentimento commosso. Infinitamente cauta, Gentucca separa un poco le cortine con le dita e sporge la faccia verso l'interno. È grande silenzio, come quando l'angoscia umana sale a poco a poco sino all'altezza del ciglio e trabocca. Di subito ella si volge, con le mani alla gola come per soffocare il singhiozzo che la vince. Non può: rompe in pianto. Nell'allontanarsi fuggendo, ella medesima mette i piedi entro il viluppo e lo sparpaglia e trascina. Rimonta i gradini della terrazza, scompare nella luce dei glicini.

 

La voce di Mortella.

 

Salvestra! Salvestra!

 

La Salvestra.

 

Eccomi, sono qui, sono qui, signorina.

 

La voce di Mortella.

 

Ah, chi m'ha legata?

 

È una voce di sgomento, una voce d'ambascia, ancóra appresa nel buio del sonno.

 

La Salvestra.

 

Non mi sono mossa, non mi sono mossa.

 

La voce di Mortella.

 

Ah, chi piangeva su me?

 

Ella esala un anelito, quasi che per levarsi faccia lo sforzo di rompere un legame che l'annodi. E appare tra le due cortine trasognata, con la fronte stillante di sudore.

 

Chi singhiozzava? Io stessa? Di'.

 

La Salvestra.

 

No, signorina. Ha sognato.

 

Mortella.

 

E questi fiori? Di'. C'è stata Gentucca? È venuta la Rondine?

 

La Salvestra.

 

Or ora.

 

Mortella.

 

È andata via? Ah, richiamala, richiamala!

 

Ella cammina su per la striscia delle vitalbe sparpagliate.

 

È passata di ? È lei che ha lasciato dietro di sé questa traccia? Richiamala! Oh piccola!

 

La donna sale alla loggetta.

 

La Salvestra.

 

Ha detto che torna, che torna verso sera. Non s'inquieti.

 

Sparisce per la scala che su l'ortopenso.

 

Mortella.

 

Non sarà troppo tardi, verso sera? È la vigilia, è la vigilia! Volevo dirle addio, rivedermi in lei quale già fui, dire addio a me, a me, a quella sua Mortina dolce.

 

L'ambascia ancóra l'aggrava. Par che ancóra ella trasogni. Si china a districare l'un de' malleoli da un tralcio di vitalba seguace.

 

Eri tu che mi legavi, Gentucca?

 

Tra il volto curvo e il grembo piegato, la sua voce ha una risonanza singolare, quasi argentina, simile a una nota d'infanzia; poi subito si rincupisce.

 

Non mi potevo muovere quando mi sono svegliata. Ero tutta annodata. Perché? E chi piangeva?

 

Vacilla e si tocca le tempie con le dita smarritamente.

 

Ma se non fosse che la febbre? No, non ho più febbre. Non ne devo avere. Non devo avere che coraggio, coraggio, coraggio...

 

Si riscuote e si risolleva. La donna ritorna indietro, ripassa per la terrazza dei glicini, ridiscende nella camera.

 

La Salvestra.

 

Non m'è riuscito di raggiungerla, né di richiamarla. Era già sparita.

 

Mortella.

 

Vola. Lo so.

 

La parola s'illumina d'un sorriso tenue e tenero.

 

La Salvestra.

 

Ma torna, ma torna.

 

Mortella.

 

Dimmi, Salvestra. Era lei che piangeva?

 

La Salvestra.

 

No, signorina.

 

Mortella.

 

E chi dunque?

 

La Salvestra.

 

Le assicuro. Anzi era allegra. Era venuta a portarle una gran notizia!

 

Mortella.

 

Una gran notizia?

 

La Salvestra.

 

La tartaruga, quella che chiamavano Ninicchia, è ricomparsa. L'ha ritrovata dianzi sotto il leccio del Conte.

 

Mortella.

 

È vero?

 

Anche una volta, in un movimento spontaneo di giovinezza ariosa, si mostra la compagna di Gentucca, l'amica della Rondine.

 

La Salvestra.

 

Sì, proprio vero. Sentirà il racconto!

 

Mortella.

 

Ma chi piangeva? M'è parso d'essere stata svegliata come da un gran singhiozzo.

 

La Salvestra.

 

Era un sogno, creda.

 

Mortella.

 

Non è venuto altri? Mia madre?

 

La Salvestra.

 

Non ancóra, signorina. Come si sente?

 

Mortella.

 

Bene.

 

La Salvestra.

 

Quella febbretta è caduta, le sembra?

 

Mortella.

 

Sì.

 

La Salvestra.

 

Non si sente più bruciare?

 

Mortella.

 

No.

 

La Salvestra.

 

Ha la fronte un po' sudaticcia. Desidera qualche cosa?

 

Mortella prende una fiala d'essenza, ne versa nel fazzoletto, lo fiuta, si terge la fronte, il collo sotto l'orecchio.

 

 

Mortella.

 

Ho sentito battere all'uscio.

 

La voce di Giana.

 

Mortella, sei ? Si può entrare?

 

La Salvestra.

 

Si sente male? Com'è diventata pallida!

 

Mortella.

 

Taci. Va. Non venire, se non ti chiamo.

 

Fa un passo verso l'uscio dominandosi

 

Entra, entra, Giana.

 

La cognata entra. Si guardano forzando il sorriso del saluto e dell'accoglienza, che per alcuni attimi persiste su i loro volti come qualcosa che vi sia appesa e possa rimanervi indefinitamente se si trascuri di staccarla. Un'aura ostile sembra quasi formarsi dai due respiri.

 

Giana.

 

Come ti senti?

 

Mortella.

 

Bene. Grazie. Ho dormito un'ora. Il sonno pazienza.

 

Giana.

 

Sei più tranquilla?

 

Mortella.

 

Sono tranquilla. Vedi. Gentucca m'ha fiorita la stanza, avanti il tempo. Puoi avvicinarti, sederti. Non sono in vena di stravaganze. Non sono affatto pericolosa. Bisogna perdonarmi. Iersera c'era afa di temporale nell'aria. Non so che m'aveva presa. Ma è certo che oggi devo guarire di questa benedetta mania. Basta dirmelo, basta volerlo. Mi dispongo a tornare in pace. Dopo domani è il Corpus Domini. Vorrei dare un pane a un povero.

 

Giana.

 

Hai una strana luce qui.

 

Mortella.

 

Una luce di naufragio, come nel quadrato d'un vascello colato a picco. Non ti piace? Sembra fatta per te che sei così ondeggiante.

 

Giana.

 

Ironia?

 

Mortella.

 

No. Ti ammiro. Lo sai. Quando ti muovi, m'incanti. Quando entravi, al movimento parevi che entrassi in un gorgo.

 

Giana.

 

Bene, mia cara. Vuoi che parliamo un poco, seriamente?

 

Mortella.

 

Parliamo.

 

Giana.

 

Seriamente e apertamente, come due sorelle leali?

 

Mortella.

 

«Lealtà passa tutto e con verta fa frutto» è uno dei nostri più antichi motti.

 

Giana.

 

Torna al proposito. Ascolta, Mortella. Consentimi d'affrontare la cosa con franchezza. È il mio dovere omai. Sono io che ho accolto qui tua madre e il tuo padrigno; sono io che t'ho trattenuta qui, che t'ho impedito d'andartene e di fare una follia inutile; sono io che in queste settimane ho vigilato per evitare ogni urto increscioso, ogni eccesso odioso. Non ho dunque dubitato di addossarmi un carico, per quel che accade, per quel che può accadere; né mi sottraggo.

 

Mortella.

 

È giusto.

 

Giana.

 

Comprendo e rispetto la tua passione sacra. C'è stata sempre intorno a te, palese o dissimulata, un'aria di compatimento.

 

Mortella.

 

Ah, credi?

 

Giana.

 

Non t'offendo. Voglio dire che il tuo dolore e gli atti del tuo dolore sembrano talvolta aver qualcosa di maniaco, qualcosa di delirante. Io stessa talvolta ti ho trattata come una piccola inferma. Nessuno ha mai voluto andare al fondo della tua pena. D'altronde, tu ti sei chiusa, ti sei messa in disparte a covare il tuo male. E c'è nella tua natura una fierezza e un disdegno che non conciliano la confidenza. Non hai un poco allontanato da te perfino tuo fratello?

 

Mortella.

 

Povero Bandino!

 

Giana.

 

Ma io quest'angoscia che t'opprime non la considero come una malattia, come una mania inguaribile. Parlo anzi alla tua ragione, invoco la tua ragione.

 

Mortella.

 

Povera ragione!

 

Giana.

 

Hai tanto scavato in te che è andata al fondo.

 

Mortella.

 

È il suo luogo.

 

Giana.

 

Bene. È il suo luogo, e il luogo della causa. V'è una causa.

 

Mortella.

 

La causa pende.

 

Giana.

 

Ancóra enigmi! Sorge da tutta te un'accusa, la figura d'un'accusa.

 

Mortella.

 

Più d'una, forse.

 

Giana.

 

E v'è una prova, dunque.

 

Mortella.

 

V'è un mondo ove la prova non ha significatoesistenza.

 

Giana.

 

Non nel nostro.

 

Mortella.

 

Non nel vostro.

 

Giana.

 

Bisogna dunque che tu esca dall'occulto. Non puoi più prolungare la reticenza. Non t'è più lecito di tacere, di sfuggire...

 

Mortella.

 

Non sfuggo.

 

Giana.

 

Bene. Bisogna dunque che finalmente si venga al giudizio, da coscienza a coscienza. Non è possibile, né per te, né per tua madre, né per l'accusato, né per me stessa che vi ospito - e lo dico non per far pesare la parola, ma semplicemente perché porto il nome di Bandino, perché mi chiamo Giana Guinigi e conduco la casa e ho qualche anno più di te - non è possibile trascinare senza fine questa miseria.

 

Mortella.

 

È giusto. Oggi è la vigilia.

 

Giana.

 

Il tuo padrigno, in una condizione tanto difficile, non poteva mostrare più tatto, più delicatezza, più longanimità. Lo devi riconoscere.

 

Mortella.

 

È pieghevole, anche lui, certo.

 

Giana.

 

A tutti i tuoi sgarbi ha sempre risposto con la più indulgente bontà. Non ha lasciato passare mai una stilla della sua amarezza né in una parola né in un sorriso. Veramente, l'ho ammirato; e troppe volte mi son sentita a disagio, come in fallo d'ospitalità. Ora, te lo confesso, questo disagio m'è divenuto intollerabile. L'afflizione di tua madre mi abbatte.

 

Mortella.

 

Povera mamma!

 

Ella è abbandonata su una poltrona, raccolta in sé, quasi che il ribrezzo della febbre la riprenda, poggiata la gota a un braccio, guardando di sotto alle palpebre che battono come se la pupilla fosse ferita a ogni momento. Le sue brevi parole hanno un suono indefinibile, che non è d'ironia, che non è di pietà; sembrano venire da quel luogo profondo «dove non si sente neppur battere il cuore».

La cognata, per andare sino al termine, non vi s'arresta, non le interpreta. Parla, parla, in una specie di vertigine fredda; e la sua voce si falsa, ed ella medesima ne sente la falsità ma non può rimetterla nel tono giusto.

 

Giana.

 

Comprendo e rispetto il tuo sentimento, lo ripeto, in quel che v'è di fedele e d'inaccessibile. Comprendo che il tuo ritorno nella casa della tua memoria l'abbia esaltato, e che all'approssimarsi dell'anniversario doloroso ti sanguini il cuore. Ma ho vinto l'esitazione perché mi sembra che appunto in rispetto di quella memoria, appunto in suffragio di quell'anima, si debba superare questo male.

 

Mortella.

 

Sì, sì.

 

Ora ha una voce da nulla, una voce di piccolo essere schiacciato che non sa più respirare: qualcosa come quel soffio d'assentimento inconsapevole ch'esce dalle labbra della gente disperata dinanzi alla consolazione vana, al consiglio non compreso, al rimprovero non udito. È , su la poltrona, rannicchiata, quasi senza forma, come una cosa a nulla, come una veste smessa.

 

Giana.

 

Ti domando dunque di confermarmi il tuo consenso al colloquio necessario che deve dissipare ogni ombra, che deve sciogliere ogni nodo. Non si può tener prigione la vita in una rete d'enigmi, né tenerla sospesa sopra il fascino d'uno specchio appannato. È vero? Siamo d'accordo?

 

Mortella.

 

Sì, sì.

 

Giana.

 

C'è oggi, mi pare, una presenza che non ci opprime, come tu pretendi, ma ci soccorre, c'incoraggia, ci sollecita. Se quell'anima abita ancóra la casa, come tu credi, non può non compiangere questo stato continuo d'inquietudine, d'inimicizia, d'angoscia. Ho udito parlare della sua infinita bontà da quel medesimo che i tuoi sospetti vorrebbero far colpevole...

 

Mortella.

 

Oh Dio!

 

È come il lamento fioco di chi agonizza, di chi si sente abbandonare dalla forza e da ogni soccorso umano.

 

Giana.

 

Se il rassegnarti alfine alle esigenze della vita, alle convenienze della vita comune è pel tuo cuore un sacrificio, fa il sacrifizio alla memoria di quella bontà. Pensa. È domani il terzo anniversario. Saremo tutti , riuniti, in una preghiera unanime. E poi sarà la pace, sarà l'armonia nella casa rinnovata, sarà una vita nuova anche per te che ti consumi, per tuo fratello che si snerva...

 

Mortella.

 

Oh Dio, Dio!

 

Si solleva lentamente, col viso scomposto, con gli occhi sbarrati e fissi davanti a sé, reggendosi le tempie con le due mani, tenuta da un orrore che par entrato nel luogo delle sue ossa.

 

Che ho fatto? Che sono divenuta? Perché ho dovuto conoscere anche questo?

 

Giana.

 

Mortella!

 

Mortella.

 

Non sono ancóra stroncata abbastanza, rotta, calpesta? Non basta ancóra? Nessun respiro, nessuna tregua, nessun riparo, nessun aiuto: niente. E questa atrocità è la vita, la vita che pareva così fresca in me, la vita che ho tanto rimpianta per uno che l'ha perduta, per uno che non l'ha più!

 

Giana.

 

Mortella!

 

Mortella.

 

Ah, ho freddo. Non aver paura se mi metto a battere i denti. Che cosa si può fare? Non aver paura se ti guardo con questi occhi. Non li so più chiudere. Bisogna che qualcuno me li suggelli.

 

Giana.

 

Che hai? Che hai ora?

 

Mortella.

 

Vivo: questo ho: sono viva. E se un'altra mai conoscesse qualcosa di simile a quel che io ho conosciuto, certo morrebbe, certo renderebbe l'anima senza sangue e senza parola. Ma io vivo, e non ho più nulla di ciò che fa vivere una povera creatura. Non ho più nulla da credere, nulla da sperare, nulla da salvare. E, fin per credere che sono in terra, bisognerà che io la morda, la terra, che io me n'empia la bocca, che io la mastichi...

 

Giana.

 

Ma che hai? T'è entrata la febbre? Vaneggi?

 

Mortella.

 

Ah, no, non mi toccare. Ma nascondimi quei fiori, nascondimi quelle foglie...

 

Giana.

 

Sei pazza. Comincio a credere anch'io che sei veramente pazza, Mortella.

 

Mortella.

 

Ebbene, io ti dico una cosa incredibile. Non sono ancóra pazza. Guardami.

 

S'è levata in piedi, dominando il suo sgomento, soccorsa da una improvvisa onda di forza. Contro a lei la cognata è già un'avversaria senza maschera.

 

Giana.

 

Ti guardo.

 

Mortella.

 

Alzo la testa, bisogna che io alzi bene la testa per non curvarmi a un tratto come una piccola vecchia senza età e senza nome. Ora so che in uno sguardo umano si può vivere vent'anni, cinquant'anni, un tempo d'ignominia indefinito...

 

Giana.

 

Ma che intendi dire? Io non sono longanime come Gherardo Ismera. Sappilo. Io affronto le piccole vecchie camuffate da sfingi minacciose, e le domo.

 

Mortella.

 

Con che? con la menzogna a due facce, che sembra essere e non è?

 

Giana.

 

Le domo, ti dico.

 

Mortella.

 

Con che? con l'ipocrisia accorta che fa le sue miscele di bene e di male, di falsità e di verità, di veleno e d'unguento, per eccitare sé e per intormentire gli altri?

 

Giana.

 

Ah, che mi fanno gli altri? e che m'importa degli altri? Ti proibisco...

 

Mortella.

 

Che cosa? di scandalizzarmi che la causa del marito di mia madre sia oggi perorata dalla nuora con una eloquenza che sa quasi di pulpito e odora quasi di santità?

 

Giana.

 

Che insolenza! Come osi parlare di veleno tu che ne schizzi a ogni momento e contro tutti, tu che sei pronta sempre a mordere la mano che ti accarezza?

 

Mortella.

 

«Perché mi accarezzi?» Questa è una domanda che tu hai udita da me più d'una volta. E io ho sempre lasciato le mie mani giù, penzoloni. Ho diffidato sempre.

 

Giana.

 

Non ti vantare della tua ingratitudine e della tua malvagità. Ho sopportato tutti i tuoi capricci e tutte le tue stranezze con una buona grazia che non meritavi. T'ho lasciata provare e riprovare la mia pazienza con eccessi intollerabili. Ora basta. Sei tu che mi costringi a ricordarmi che v'è, di nome e di fatto, una padrona qui.

 

Mortella.

 

Come chi compera, non come chi impone, non come chi dispone. E tu non condurrai domattina per la mano il tuo pellegrino penitente a inginocchiarsi su la lapide, a camminare sul morto con i ginocchi mutati in calcagna divote. No.

 

Giana.

 

Ti prego, ti prego; non mi trascinare a dire e a fare quel che poi a tutt'e due troppo rincrescerebbe. Non mi conosci. Bada. Quando prendo nel mio pugno la mia volontà, sono come quei rissatori che non ripongono il ferro se non hanno colpito a fondo.

 

Mortella.

 

Ferro per ferro, son pronta a misurarmi, pronta a tutto. Guardami. V'è un giudice più alto di me, che non son nulla ma non mai serva dovunque e comunque tu sii padrona. V'è un giudice più santo di me; e hai osato invocarlo per coprire una cosa inconfessabile.

 

Giana.

 

Hai il colore della morte. Muori del tuo veleno.

 

Mortella.

 

Sì, sono tutta di gelo. Ma so che non si può morire d'orrore, giacché sono in piedi. Hai osato offrire in suffragio di quell'anima una nuova ignominia dell'ospite spietato!

 

Giana.

 

Che altro vuoi ora insinuare?

 

Mortella.

 

La pace, l'armonia, la vita nuova per tener caldo all'onta!

 

Giana.

 

Ti debbo scrollare, dunque? ti debbo tirar per forza dalla gola quest'altra malvagità?

 

Furente, ella fa l'atto di prendere per le spalle la cognata che si scosta, bianca piuttosto come una larva che come una creatura.

 

Mortella.

 

Non mi toccare. Bada! Toccheresti la morte.

 

Giana.

 

Di' tutto, dunque. Parla! Voglio.

 

Mortella.

 

Mi reggo la mascella, non il cuore. Con l'ospite...

 

La voce le si dirompe nel gran tremito.

 

Giana.

 

Ebbene?

 

Mortella.

 

Con l'ospite non è di nuovo entrato un amante?

 

Ha parlato basso, con una voce dirotta dal tremore dei denti. Anche l'altra si sbianca, ma tutto il rilievo della sua bellezza s'indura come il volto del tiranno che non può colpire perché non ha sotto la manoarmecarnefice. Entrambe riempiono d'ansito la pausa.

 

Giana.

 

È una domanda perfida? è un sospetto? un laccio teso?

 

Mortella.

 

Una certezza.

 

Giana.

 

Certezza di quel mondo ove la prova non esiste e non conta?

 

Mortella.

 

Ah, ti basti che so, ti basti che ho udito, ti basti che ho veduto.

 

Giana.

 

Dove? come?

 

È protesa verso l'accusatrice, che non la guarda più, fissa allo spettacolo della sua propria miseria.

 

Mortella.

 

Orrore! Orrore! La vita sofferta ritorna, ripete sé stessa, imita i suoi stessi spaventi? Il destino atroce recita la stessa parte due volte? Tutto sarà come fu? Ma chi mi può rispondere una parola, prima che io muoia?

 

Giana.

 

Rispondi ora a me. Dove? come?

 

Mortella.

 

E un giorno mi pareva d'esser vicina al segreto dell'amore!

 

Giana.

 

Dove? come?

 

Mortella.

 

Ah, non il tuo, non il tuo.

 

Giana.

 

Rispondi. Voglio.

 

Imperiosa, l'incalza, l'afferra per i polsi.

 

Mortella.

 

Tutto ho udito, tutto ho veduto.

 

Giana.

 

Come? dove? Non sai. Ti smarrisci. Allucinata sempre, ubriaca d'infamie sognate.

 

Mortella.

 

Lasciami! Ho ribrezzo di te, di me anche. Ho spiato, ho seguìto, ho ascoltato. So tutti i luoghi nascosti, conosco tutti gli angoli, tutte le ombre. Iersera... Ah, lasciami!

 

Giana.

 

No. Di'. Vergógnati.

 

Mortella.

 

Dov'eri iersera con lui? In fondo alla scala dei Delfini, lungo il muro delle Cariatidi...

 

Giana.

 

Vergógnati.

 

Mortella.

 

Sì, mi vergogno. Questo avete fatto di me. Ho spavento del sangue che mi rimane. Si giunge a questo, si conosce questo, si diventa così; e non si finisce mai di morire!

 

Giana.

 

Hai sognato, hai sognato. Intendi?

 

Mortella.

 

Lasciami!

 

Giana.

 

Hai sognato, hai delirato, malvagia folle. E tu mi giurerai...

 

Mortella.

 

Lasciami! Lasciami!

 

Sono a viso a viso, alito contro alito, come in una lotta selvaggia. Mortella si svincola.

 

Ecco Bandino.

 

Il fratello entra. Giana si scrolla e rovescia indietro il capo, con un piccolo riso convulso nei denti splendidi.

 

Bandino.

 

Che c'è? Che avete? Giana! Mortella! Che c'è?

 

Mortella.

 

Nulla, nulla, Bandino. Non ti sbigottire. Giana voleva a forza che io andassi con lei per farmi incontrare col signor Ismera, e tentava di trascinarmi... Io non volevo.

 

Bandino.

 

Non avevi già consentito?

 

Mortella.

 

Sì. Ma perché devo andare a cercarlo? Preferisco riceverlo qui, come ho già detto a nostra madre, tanto più che veramente non mi sento ancora bene ed è meglio che non mi stanchi.

 

Bandino.

 

Certo, sorellina. Hai ragione. Non ti pare, Giana, amor mio?

 

Giana.

 

Ma sì, ma sì. Non insisto. Non facevo mica sul serio... Facevo per gioco.

 

Mortella.

 

Tu sai, Bandino: le piace di giocare e d'aizzare...

 

Il giovine guarda la sua donna innamoratamente.

 

 

Bandino.

 

Come sei strana in questa luce!

 

Mortella.

 

Non è vero?

 

Giana.

 

Strana in che?

 

Bandino.

 

Se Riccardo Wagner ti vedesse ora, riconoscerebbe il viso vivo d'una di quelle Figlie del Reno che nuotano nella sua musica.

 

Giana.

 

Voglinda? Flossilde?

 

I nomi delle Ondine sembrano quasi fatti minacciosi dal suo riso tagliente.

 

Bandino.

 

Tutt'e tre.

 

Mortella.

 

E anche l'Oro.

 

Giana.

 

Addio, Mortella, a più tardi!

 

Mortella.

 

Nella vita nuova.

 

Botta e risposta sembrano avere ancóra un tintinno d'armi.

 

Bandino.

 

Te ne vai, Giana? Resta ancóra un poco! Non senti come questa camera è dolce? Mi piace tanto. Non si sa se abbia muri o fronde, cortine o erbe marine.

 

Giana.

 

Bimbo, bimbo, ora non è più tempo d'indugiarsi. La vita precipita.

 

Bandino.

 

Vieni, verso le sette, giù nella Cappella. Sonerò il Ricercare su l'organo. Ma vorrei vederti anche prima. Dove vai?

 

Giana.

 

Non so.

 

La segue con gli occhi mentre ella esce col suo passo ondeggiante. La sorella lo prende per la mano.

 

Mortella.

 

Come l'ami!

 

Bandino.

 

Ah, non posso dire s'io ne goda o ne soffra. Vedi. Perché quell'ondeggiamento del suo corpo su que' suoi piedi flessibili qualche volta mi può far tanto male? Quando la considero, sento che la sua bellezza m'adombra ma non ne ho riposo. M'affatica e m'affanna, come se per non perderla io dovessi compirla e non sapessi in che modo.

 

Mortella.

 

Tanto l'ami?

 

Ella si lascia cadere su i cuscini, senza abbandonare la mano; ed egli le si siede ai piedi. Ella lo interroga con un'ansia mal frenata.

 

Dimmi.

 

Bandino.

 

L'amo, sorellina, ma anche te molto.

 

Mortella.

 

Non potresti vivere senza di lei? Dimmi.

 

Bandino.

 

Sei gelosa?

 

Mortella.

 

Non t'imagini la tua vita in un altro modo, ridivenuta solitaria, restituita alla musica e alla malinconia?

 

Bandino.

 

Ma perché?

Mortella.

 

Se se n'andasse, se partisse, mettiamo,

 

Bandino.

 

Perché? Come potrebbe?

 

Mortella.

 

Non ti sembra estranea, distante?

 

Bandino.

 

La serro tra le mie braccia.

 

Mortella.

 

È sterile.

 

Bandino.

 

Ma che dici? E ne arrossisci.

 

Mortella.

 

Se morisse, mettiamo.

 

Bandino.

 

Ah, no, no! Sparirei, morirei.

 

Mortella.

 

Così l'ami?

Bandino.

 

Non esser gelosa. Così.

 

Mortella.

 

Hai ragione. Voler amare significa prepararsi alla morte. Così anche è il mio amore. E ho compassione di te. Ah, perché la tua mano non ha forza abbastanza?

 

Gli palpa la mano.

 

Bandino.

 

Non senti? L'ho di ferro articolato come una manopola.

 

Mortella.

 

Per la tastiera.

 

Bandino.

 

Ma di che parli insomma?

 

Egli è agitato e impaziente, sotto i fantasmi inafferrabili ch'ella sembra creare soffiando nei brandelli della sua propria anima.

 

Mortella.

 

Ho una notizia, una cara notizia per te. Ho riveduto il nostro padre. Mi sono assopita per qualche minuto, con la testa su le sue ginocchia. Quanto ti somigliava! La tua voce è chiara, la sua era velata, ma la stessa. E non aveva se non un pizzico di cenere su le tempie.

 

Bandino.

 

Vuoi farmi piangere?

 

Mortella.

 

No, fratello, no. Neppure una goccia, neppure una. M'ha parlato anzi di te così: «Tu credi che sia debole? Ma non ti ricordi come si faceva forte quando voleva portarmi dal letto su la poltrona o dalla poltrona sul letto, mentre Gherardo in un canto, voltato di schiena, disinfettava la siringa per l'iniezione? Diceva: - Piano, piano, babbo. Mettimi questo braccio intorno al collo, appòggiati bene su la mia spalla. Non aver paura. Lasciati pur andare con tutto il tuo peso. Ti reggo, ti reggo benissimo. Non aver paura di serrarmi la nuca; lascia penzolare le gambe. Abbandònati. Ecco, ti sollevo, ti porto. Sei più leggero di ieri».

 

Bandino.

 

Sorella mia, perché mi strazii?

Mortella.

 

Sì, chiamami così. Non voglio da te altro nome. Il mio, voglio che sia dimenticato. Fratello mio dolce! Il cuore mi trabocca se ti chiamo così. Fratello! Tu sei il mio fratello.

 

Bandino.

 

Non hai dunque più rancore contro di me? Mi perdoni?

 

Mortella.

 

Prendiamoci per le mani. Anche tu, se t'ho detto qualche parola amara, anche tu perdonami.

 

Bandino.

 

Ah, mi pareva d'averti perduta, e ti ritrovo!

 

Mortella.

 

Devi ritrovarmi. Non dubitarne. Sii certo che ti attendo.

 

Bandino.

 

Dove?

Mortella.

 

Non posso dirtelo ancóra. Se tu lo sapessi, forse correresti prima di me. E bisogna che io ti risparmii.

 

Bandino.

 

Sorella, povera sorella, perché ti smarrisci?

 

Mortella.

 

Credi che vaneggio? Ma ho qui un pensiero più diritto d'una lama nuda, più acuto d'un coltello. Se gli dovessi assimigliare qualcosa, gli assimiglierei quella misericordia dal manico d'oro, quella di Francesco Guinigi il Ghibellino, che nostro padre aveva tanto in pregio.

 

Bandino.

 

Chi può avercela rubata?

 

Mortella.

 

Io lo so.

 

Bandino.

 

Fosse vero! Che darei per riaverla!

Mortella.

 

Che ne faresti? Sapresti servirtene all'occasione?

 

Bandino.

 

È una reliquia.

 

Mortella.

 

Non vi sono reliquie che uccidono? Più tardi, con te, voglio entrare in quella stanza, voglio toccare con te tutte le reliquie e inginocchiarmi con te sul suo inginocchiatoio, fratello e sorella, accosto accosto. Vuoi?

 

Bandino.

 

Sì.

 

Mortella.

 

, soltanto ho potuto fissare il pensiero che mi veniva dal mio abisso e decidere quel che è giusto.

 

Bandino.

 

Che cosa?

 

Mortella.

 

Qualcosa si deve fare.

Bandino.

 

Che cosa?

 

Egli è tremante d'angoscia e anelante.

 

Mortella.

Tal cosa che bisogni o farla o patirla.

 

Bandino.

 

Ah, sorella, sorella, tu mi spaventi. Credevo che tutto fosse finito.

 

Mortella.

 

Così mi risponderesti se ti chiamassi, se ti gettassi il mio grido?

 

Bandino.

 

Temo di comprendere. Mi perdo.

 

Mortella.

 

Temi! Sempre la stessa parola. Chi ci mise al mondo, si sbagliò. Sei tu che hai un'anima di fanciulla, e io ho il cuore maschio.

 

Bandino.

 

Che vuoi da me? Parla.

Si leva in piedi, sbiancato, fremente. Anch'ella si leva, sul punto d'essere trascinata dalla sua passione. In quel punto, sollevando la portiera, la madre si mostra.

 

Mortella.

 

No. Bisogna che io ti risparmi. Io posso quel che tu non potresti. Ma la vita non ti risparmierà. Guarda. Ecco nostra madre. Ringraziala.

 

Bandino.

 

Mamma, Mortella non sta ancóra bene.

 

Costanza.

 

Venivo a chiedere...

 

Mortella.

 

È l'ora? Il signor Ismera è dietro la porta? Entri.

 

Bandino.

 

Mamma, Mortella è ancóra agitata.

 

Mortella.

 

Non gli credere. Sono riposata. Ho dormito. Sto meglio. Non ho più febbre. Bisogna troncare gli indugi. Giana dice che la vita precipita.

 

Il fratello ha uno scatto d'insofferenza.

 

Bandino.

 

Bene, bene. Sia. Così non si può più vivere.

 

Mortella.

 

Il signor Ismera è ?

 

Costanza.

 

Non è . Aspetta d'essere avvisato.

 

Ella parla con una voce tarda e affranta, con qualcosa di contratto e d'intento nel viso, come se portasse dentro di sé il fascino d'un invincibile terrore.

 

Mortella.

 

Bandino, vuoi andare ad avvisarlo? Vuoi condurlo tu stesso?

 

Bandino.

 

Bene. Sia. Vado.

 

Esce, a capo chino, corrucciato.

Mortella.

 

Veramente avresti dovuto tu condurmelo, mamma, giacché t'è imposto il cómpito di assecondare il destino.

 

Costanza.

 

Figlia, figlia, non so più se sia bene, non so se sia male. Non so quel che dev'esser fatto, non so quel che dev'essere impedito. Ho pregato Dio, ho frugato il mio cuore in tutti i versi, ho cercato di districare la mia volontà dal viluppo dei dubbi mortali, di tutto il mio sangue che mi faceva velo, mi sono vuotata come il ferito per terra si vuota di sangue, quasi ogni mattina mi sono svegliata di soprassalto credendomi caduta in fondo a non so che ruina da non so che altezza e alla sera più d'una volta m'è parso d'esser ricaduta con gli occhi aperti ancor giù, ancor più basso. Figlia, figlia, e niente mi vale, e niente mi conta! Vedi, non devo avere negli occhi che lo sguardo fisso dello spavento, lo sguardo di chi non può se non riconoscere l'atrocità della forza che lo schiaccia senza scampo.

Che ho fatto? Che cosa accade? che altra sciagura si prepara? che desolazione si rinnova? che abominazione ritorna? Non so più, non distinguo più. Non so quel che farò per tentare di salvarmi. Non so quel che farò per finire di perdermi. Sono presa al petto, sono presa al capo, tutta un dolore, trafitta dai miei stessi gridi che ricaccio dentro serrando i denti, messa in brandelli e viva come una preda lasciata dalla bestia già sazia. T'invoco, t'imploro; e che parole vorrei intendere da te, che aiuto potrei da te ricevere, non lo so neppur concepire.

 

Mortella.

 

Mamma, davanti a te, in questo momento non posso che rimanere silenziosa.

 

Costanza.

 

Tremo, non sto in piedi, mi pare che le ossa mi si disgiungano. Non puoi capire. S'egli ora entra qui, se resta con te, se vi parlate, non credo, non credo che potrò sopportare l'attesa. Il cuore mi si schianterà. Non puoi capire. È peggio, è assai peggio che quando bambina ti dovettero operare e udivo bollire nel mio cervello l'acqua in cui si sterilizzavano i ferri del chirurgo, e il tettuccio di tortura era con i suoi congegni e le sue ruote, e il tuo povero piccolo viso già spariva sotto la maschera di garza... Tu non ti ricordi, tu non sai. Ma è peggio, è peggio.

 

Mortella.

 

Come? Perché? Non sta per entrare qui l'ospite senza macchia che mi dimostrerà la mia ingiustizia e mi costringerà a chinare la fronte, forse a cadere in ginocchio, forse a baciargli le mani? Non eri sicura di questo? Non ne sei più sicura? Non me lo mandi qui a un colloquio di assoluzione e di pace?

 

Costanza.

 

Ah, non ragiono, non ragiono. Tremo. Non so che viso ho; ma tutta la mia vita in me è bianca di terrore. E come non ho più lacrime, credo che non ho più sangue. Ti prego, ti prego! Non lo vedere, non gli parlare. Rinunzia. Ti supplico! Abbi pietà di me.

 

Mortella.

 

Ma chi me l'ha proposto? Ma chi me l'ha chiesto, anzi imposto?

 

Costanza.

 

Mi ricredo, mi pento. Sono un'insensata. Siamo tutti insensati. No, non bisogna. Che bene ne può venire? Basta guardarti. Basta respirare quest'aria, respirare questa luce, sentirti vivere, sentir vivere queste cose intorno a te. No, non è possibile. Ti supplico. Me ne vado. Lo porterò via. Non ci vedrai più, né me, né lui. Stanotte stessa partirò, lo farò partire. Prima dell'alba saremo lontani, al confine del mondo. Te lo giuro.

 

Mortella.

 

Mamma!

 

La sua voce, il suo aspetto rivelano un tal crollo di tutto l'essere, che la madre ne ha un gran sussulto come d'un altro spavento impreveduto, come d'un altro mostro indistinto che le si drizzi davanti e sia per afferrarla.

 

Costanza.

 

Che è?

 

Mortella.

 

È vero dunque?

 

Costanza.

 

Che cosa?

 

Mortella.

 

Quel che ho pensato contro di te, quel che penso contro di te, quel che tu sembri ora?

 

Costanza.

 

Che sembro?

 

Mortella.

 

Quel che confessi ora?

 

Costanza.

 

Che confesso?

 

Mortella.

 

Ah, è orribile.

 

Bandino solleva la portiera, e il padrigno entra nella stanza con lui. Per un istante, si trovano l'uno a fianco dell'altro. Costanza si volge come a un'apparizione che la impietri. Non parla più, sembra che non respiri più. La figlia abbassa la voce.

 

Guardali.

 

Gherardo Ismera.

 

Grazie, Mortella, d'avermi permesso di farvi questa visita. Come state?

 

Mortella.

 

Bene, molto bene. Venite avanti, venite avanti. Sedetevi.

 

L'uomo fa l'atto di avvicinarsi.

 

A rivederci, mamma. A rivederci, Bandino.

 

Il giovine s'accosta alla madre e la conduce verso la porta. Mentre egli solleva la portiera, ella si volge a guardare suo marito e sua figlia che restano in piedi l'uno di fronte all'altra; e vede che Mortella sorride. La portiera ricade. I due sono soli.

 

Gherardo Ismera.

 

State dunque bene, ora?

 

Mortella.

 

Bene, molto bene, padre d'anima. Ringrazio la vita. Avvicinatevi. Non abbiate paura di calpestare i fiori.

 

Gherardo Ismera.

 

Ho sempre cercato di non calpestarne.

 

Mortella.

 

Ah, veramente? Sì, lo so. È la piccola Gentucca, la Rondine, che m'ha giuncata la stanza come si fa per le feste grandi in chiesa. Ecco, in fatti, una gran bella giornata.

 

Ella non si diparte dal tono del motteggio. Qualcosa d'acuto e d'acerbo è in lei, qualcosa di agile e di vigile, che le l'aspetto d'una persecutrice incalzante.

 

Gherardo Ismera.

 

Molto augurata, molto attesa da me, cara Mortella. Non so dirvi come io sia felice di potermi ravvicinare a voi che foste per tanto tempo la mia piccola amica selvaggia e tenera, la piccola Grazia dei giardini pensili, che condusse verso di me qualcuna delle più fresche ore di mia vita.

 

Egli è guardingo come qualcuno che saggia i suoi modi, non sapendo ancóra quale gli valga; ma tiene la sua voce nel tono più naturale.

 

Mortella.

 

Sono la stessa ancóra? Mi ravvisate? Forse mi rimane una gocciola di rugiada nel cavo di ciascuna mano. Sono la stessa?

 

Gherardo Ismera.

 

Proprio la stessa, in questo chiarore singolare che mi ricorda la luce inverdita dai velarii di capelvenere nella grotta di Pane, laggiù, dove ascoltavamo gemere in tutti i toni le cento candele delle stalattiti. Ve ne ricordate?

 

Mortella.

 

Che memoria! È strana questa luce. Oggi non c'è stato uno che non abbia detto entrando: «Che strana luce!». Siamo nella profondità, siamo nel gorgo. Forse, senza saperlo, somigliamo le cose che inghiotte il mare: il rottame e l'annegato.

 

Ella sembra avere alla commessura delle labbra una sorta di sorriso inestinguibile che al suo motteggio qualcosa di spettrale.

 

Gherardo Ismera.

 

Vorrei aiutarvi a scacciare dal vostro spirito ogni imagine triste, vorrei tentare di guarirvi, cara Mortella.

 

Mortella.

 

Lo so, lo so. Ho un certo sorriso nella bocca, che deve somigliare una povera nottola crocifissa sopra una porta sgangherata. L'ho. Lo sento. È . Non lo posso schiodare. Vi fa compassione. Vi fa credere che io sia mentecatta.

 

Gherardo Ismera.

 

No, no. Che dite mai? È un sorriso molto dolce, un sorriso di bambina smarrita.

 

Mortella.

 

Veramente?

 

Gherardo Ismera.

 

M'intenerisce.

 

Mortella.

 

Ah! Credevo che vi sbigottisse un poco, che ve ne ricordasse un altro...

 

Gherardo Ismera.

 

Quale?

 

Mortella.

 

Quello per cui l'amico vostro incominciò a morire.

 

Gherardo Ismera.

 

L'amico mio?

 

Mortella.

 

Sì, l'amico vostro: mio padre. Non era il vostro compagno di giovinezza, il diletto? l'unico fratello dell'anima vostra?

 

Gherardo Ismera.

 

Certamente.

 

Mortella.

 

Come! Non avete nella voce una vampa d'amore? Non avete un sospiro di rimpianto?

 

Gherardo Ismera.

 

Perché dovrei menomare, con una dimostrazione che non mi conviene, un sentimento da me custodito intatto? Quale amore sopporta d'esser misurato?

 

Mortella.

 

Non è una sua parola? Mi sembra di riconoscerla.

 

Gherardo Ismera.

 

Forse.

 

Mortella.

 

Gli ho anche udito dire: «L'amicizia è un dono di vita che si fa in piedi per riceverlo in ginocchio».

 

Gherardo Ismera.

 

N'era ben degno.

 

Mortella.

 

Ma in ginocchio non si riceve anche il colpo di grazia?

 

Gherardo Ismera.

 

Mortella, voglio parlarvi...

 

Mortella.

 

Sì, parlatemi di lui. Voglio udirvi parlare di lui, e specialmente di quell'ultimo sorriso che gli metteste negli angoli della bocca, sopra le mascelle serrate che non poté disserrare più... Guardatemi, guardatemi. Lo imito, senza volere.

 

Ella è così intieramente posseduta dall'imagine paterna, che per alcuni attimi la figura della convulsione mortale sembra riespressa dal suo gioco terribile.

 

Gherardo Ismera.

 

Ma che demenza è la vostra?

 

Mortella.

 

Anche voi, anche voi, senza volere, l'imitate nel sonno.

 

Gherardo Ismera.

 

Che démone v'ha presa? Cessate, Mortella.

 

Mortella.

 

Vi ho visto dormire! E credevo che non dormiste più, che in fondo a qualche corridoio bianco aveste ucciso il sonno, come il sire di Glamis, come il sire di Cawdor.

 

Gherardo Ismera.

 

Perché sfuggite? Venite qui, Mortella. Lasciatevi prendere per le mani.

 

Com'egli le si appressa, ella si allontana, si sottrae, implacabile e inafferrabile.

 

Mortella.

 

Non vi affaticate. Già ansate un poco, e avete le labbra grige come se aveste mangiato la cenere. Se qualcuno entrasse, penserebbe che facciamo i ragazzi, che giochiamo a bomba.

 

Gherardo Ismera.

 

Non giocate più a questo gioco lugubre. Basta. Siete voi che vi nutrite di cenere.

 

Mortella.

 

Bene. Siamo due, saremo due. State tranquillo, sedetevi. Non v'importa di sapere quel che dal fondo viene a galla sul vostro viso, nel sonno?

 

Gherardo Ismera.

 

Dove mi avete visto dormire?

 

Mortella.

 

Sedetevi. Ve lo dirò. Laggiù, sul sedile di pietra, presso la tavola dell'oriuolo a sole, nell'ora calda, nell'ora del pisolo. Siete stanco, stanco per aver preso troppo, per voler ancóra tutto prendere; siete stremato, e non volete confessarlo. Quando siete solo, v'accasciate súbito. Vi spiavo.

 

Gherardo Ismera.

 

Ah, fate questo?

 

Mortella.

 

Credevo che aspettaste qualche preda. Ma tardava. L'ombra del vostro capo s'allungava sul quadrante solare che non ha più il suo stilo. Pencolando un poco a destra e un poco a sinistra, pareva che segnasse un'ora di qua e un'ora di . Tutte feriscono, una sola uccide: lo sapete.

Finalmente il capo si chinò, si fermò; e l'ombra segnò l'ora che non dimentico. Eravate assopito. Vi spiavo. Eravate in balìa di me. Mi ricordo d'aver veduto una volta rimontare d'un tratto a galla un palombaro che aveva perduto i suoi calzari di piombo: una specie di mostro grondante. Così qualcuno è risalito nel vostro sonno, all'improvviso: quell'altro uomo, quel mostro che v'abita. Era spaventevole. E non m'era nuovo: lo conoscevo!

 

Egli tenta di dissipare l'incanto con uno scoppio d'ilarità fittizia.

 

Gherardo Ismera.

 

Oh, che brutta storia! In cambio di tante belle storie che vi ho raccontate ai bei tempi! Siete ingrata, Mortella. Ma voglio essere il vostro medico come a quei tempi ero il vostro interprete. Bisogna che io risani la vostra imaginazione con una cura solare. Vi vedo supina per ore ed ore su la tavola scottante di quel vecchio oriuolo inerme.

 

Mortella.

 

Come ridete male!

 

Gherardo Ismera.

 

Come rimpiango il vostro sorriso d'allora! Non era crocifisso. Basta, via. Datemi le mani, perché io vi esorcizzi.

 

Mortella.

 

Nella mia imaginazione ho troncate le vostre e le ho conservate in fondo a uno specchio come nel ghiaccio.

 

Gherardo Ismera.

 

So anche quest'altra storia.

 

Mortella.

 

Sapete dunque che la faccia di quell'altro, quella grinta senza colore, io la conobbi chinata su quelle due mani che preparavano la siringa per la puntura cotidiana prescritta al paziente?

 

Gherardo Ismera.

 

Mortella, non abbiamo testimoni che giustifichino la vostra eccitazione vana. Non c'è nessuno qui, davanti, a cui dobbiate conservare l'attitudine crudele che, per un pervertimento non del tutto nuovo, avete imposta a voi stessa. Non vi ostinate a falsare la vostra anima, che era tanto sincera. Consideratemi come un medico sagace e tuttavia come un amico affettuoso. Siamo soli, siamo noi due soli.

 

Mortella.

 

Credete che siamo noi due soli?

 

Gherardo Ismera.

 

Sembra.

 

Mortella.

 

Non l'avete veduto entrare?

 

Gherardo Ismera.

 

Non continuate a giocare coi miei nervi.

 

Mortella.

 

Era al vostro fianco. Non era mio fratello, era lui. Ho detto a mia madre: «Guardali!». Non avete inteso? La stessa forza del tradimento aveva rincatenato l'ospite all'ospite.

 

Gherardo Ismera.

 

Non andate troppo oltre.

 

Mortella.

 

È , seduto, con quella fronte di luce su tutta quella tristezza che incava le sue gote, che affina il suo mento. Non vi voltate. È .

 

Ella ha veramente il battito dell'allucinazione nelle palpebre, e la voce della sua fede crea l'apparizione nell'ombra glauca e bassa.

 

Gherardo Ismera.

 

Ah, vi compiange.

 

Mortella.

 

In piedi vi aveva fatto quel dono di vita. Per affrettare la fine dell'uomo messo in croce, gli rompevano i ginocchi. Così egli non s'alza più.

 

Gherardo Ismera.

 

Tacete. Siete odiosa.

 

Mortella.

 

Non vi vale coprirvi gli occhi. Dev'essere rimasto seduto così anche nella vostra memoria, ma con quel sorriso atroce che gli avete scolpito nelle mascelle di pietra, , come una statua d'Egina. Vi guarda. È lucido. Comprende. Sa. È certo.

Gherardo Ismera.

 

Ma tacete, ma tacete! O vi schianto.

 

Fuori di sé, egli balza e minaccia. Implacabile, l'altra riempie d'agonia Paria che lo soffoca.

 

Mortella.

 

No! Ora un sussulto gli getta la testa indietro, e un altro, e un altro. È irrigidito, inchiodato su le reni. Si solleva, s'inarca, ricade. Il respiro non passa più a traverso i denti stretti. Il cuore sobbalza, non batte più, è vuotato. L'avete ucciso! Gherardo Ismera, l'avete ucciso.

 

Fuori di sé, tutto bianco e tremante, egli si scaglia contro l'accusatrice, l'afferra pei polsi e la scrolla brutalmente.

 

Gherardo Ismera.

 

Tacete! Tacete! Non voglio più udire le vostre infamie. La vostra demenza non merita che il bavaglio. La vostra furia non merita che la segregazione. Io e vostra, madre abbiamo ancóra autorità bastevole per imporre il provvedimento necessario. Non v'è altro mezzo di ricondurre alla ragione una sciagurata e feroce calunniatrice, nemica di tutti e di sé, indegna ornai di compassione. Avete inteso? Vi comando il silenzio.

 

Ella si svincola selvaggiamente.

 

Mortella.

 

M'avete quasi slogato i polsi. Siete vile. Ma non credete ch'io mi svenga. Siete perduto. Non potrete più riprendere la maschera del tentatore sapiente. Avete omai la faccia dell'altro, sino all'ora della morte: la faccia dell'assassino.

 

Gherardo Ismera.

 

Ma, o insensata, dov'è per voi la prova, la larva d'una prova? Un'ombra d'indizio almeno!

 

Mortella.

 

Una testimonianza.

 

Gherardo Ismera.

 

Quella del vostro delirio?

 

Mortella.

 

Quella della mia anima bastava a me. Di dentro, dal profondo, con l'anima sveglia, col solo mio dolore, avevo scoperta la verità intiera.

 

Gherardo Ismera.

 

Sognato un sogno criminoso.

 

Mortella.

 

E qui, nella casa, fin dalla prima sera del ritorno, tutta l'aria era chiara di quella verità, chiara dal fondo della tomba al colmo del tetto, come per un annunzio di resurrezione.

 

Gherardo Ismera.

 

E basta?

 

Mortella.

 

Non basta. Quando l'azione s'è levata come se fosse stata allora allora commessa, un testimone inoppugnabile l'ha riconosciuta.

 

Gherardo Ismera.

 

Un nuovo fantasma?

 

Mortella.

 

Una carne viva, una coscienza viva, che per un senso d'umanità aveva attenuata la certezza in sospetto per poter serbare il segreto ed evitare l'orrore d'una denunzia. Io l'ho cercata, l'ho frugata, l'ho forzata a rispondere, a testimoniare, a confermare la prova interiore con la prova manifesta.

 

Gherardo Ismera.

 

Chi?.

 

Mortella.

 

Lo chiedete? Non credevo che poteste sbiancarvi di più. Il medico, il dottor Securani, Paolo Securani... Qualche ora fa, era qui; e il mio male era il suo male.

 

Egli si lascia cadere su una sedia, come in una specie d'ottenebrazione repentina.

 

Gherardo Ismera.

 

Sì, v'è un contagio del delirio.

 

Mortella.

 

V'è un veleno che resiste al dissolvimento, e che si potrebbe ritrovare intatto, nella cosa senza nome, pur dopo tre anni. È il granello incorruttibile dell'ospitalità. Potrebbe forse ancóra servire... Ci pensate?

 

Egli è assorto, intento al suo intimo travaglio. Ella gli si accosta e un poco si piega verso di lui senza pietà, osservando le mani ch'egli tiene posate su le ginocchia.

 

Non avete più sguardo. I vostri occhi hanno perduto lo sguardo. Così la viltà v'immezzi codeste mani micidiali che vi cadano dai polsi a terra sfatte, con quel disegno ch'io ci leggo, che ora io veggo trasparire palese come le vene...

 

Egli balza in piedi, con un gran fremito riscotendosi e tendendo le pugna chiuse.

 

Gherardo Ismera.

 

Ah, no! Sono ancóra tanto potenti che saprebbero piegare il vostro odio e il vostro orgoglio come già seppero aprire alla vostra ansietà il cammino che doveva condurvi verso voi stessa, in opera di vita, in opera di salute.

 

Mortella.

 

Il vinto si risolleva?

 

Gherardo Ismera.

 

Non sono vinto, né ho bisogno di risollevarmi. Non sono mai stato più alto in me: alto abbastanza per la fólgore. E sia! il mio coraggio può guardare la sua azione, senza vacillare e senza impallidire.

 

Mortella.

 

Di più, non avreste potuto, non potreste.

 

Gherardo Ismera.

 

Non parlo del mio viso d'uomo ma del mio coraggio silenzioso a cui avete opposto la vostra agitazione insensata e un fantasma foggiato dalla vostra angoscia che mi turba, in questa camera chiusa che sembra molle di lacrime, che è il luogo stesso del vostro delirio e del vostro martirio, ove non è possibile difendere il cuore dalla compassione o dal rimpianto...

 

Mortella.

 

Non compassione, non rimpianto. Io ho combattuto la buona guerra, senza fiacchezza, senza viltà.

 

Gherardo Ismera.

 

Né io commetterò una viltà contro il mio atto, se ho impallidito dinanzi a una imagine difformata e infamata del mio atto. Credete voi, potete voi credere che io abbia obbedito a un sentimento di paura o di vergogna nel contrastarvi il mio segreto? Credete voi che il mio diniego ostinato, che la mia dissimulazione sorridente, che la mia stessa violenza abbian tentato di coprire una colpa ignominiosa e di sfuggire a un marchio infame? Mi conoscete voi per tale che, dopo aver osato, cerchi di eludere il pericolo con sotterfugi e con astuzie di piccolo malfattore? Sono io quegli che s'affanna a trovare la parola e il gesto abili per mentire a sé stesso e guadagnare l'impunità? M'avete rappresentato qualcuno che mi abita, un altro che si nasconde in me. Non uno ma mille; non un'anima ma mille anime, certo: una somma di forze concordi e discordi, talvolta schiacciante. Tale è l'uomo vivo, tale sono io vivo fra tante larve asservite. E lo guardavo, e lo ascoltavo, quell'altro, quell'estraneo, dianzi, qui, mentre giocava con voi il gioco lugubre, mentre schivava il vostro assalto, si sottraeva alla vostra persecuzione. E lo consideravo con una tristezza ch'era ben più amara del vostro sarcasmo. Che mancava alla sua umiliazione? Gli mancava che voi gli deste una delle vostre vesti e ch'egli singhiozzasse ai vostri piedi come una femminetta colta in fallo! L'assassino che si confessa e si pente nella stanza verginale, con la nuca sotto il calcagno della vendicatrice! Gli somiglio? Ditelo.

 

Mortella.

 

Non meno vile, avete preferito di scrollarmi e di torcermi i polsi.

 

Gherardo Ismera.

 

Sì (perdonatemi, perdonatemi!), per non potere più dominare l'insofferenza di quella tortura inutile, di quel gioco sinistro e vano. Ho sperato di sopraffarvi, di piegarvi, e di salvare ancóra il mio segreto dalla profanazione.

 

Mortella.

 

Dalla profanazione?

 

Gherardo Ismera.

 

Sì. Voi che pretendete d'esservi per vóto assunta in puro spirito e che tuttavia non sapete vedere di dai piccoli segni materiali, voi che rimanete chiusa nel cerchio del vostro specchio rivelatore, voi che rimanete affascinata da due mani pallide e da un viso chino, voi che volete smuovere la cenere fredda per ritrovarvi il granello della prova, conoscete voi la sentenza superba d'un uccisore? «Se questo mio è un delitto, io voglio che tutte le mie virtù s'inginocchino davanti al mio delitto».

 

Mortella.

 

Era una voce d'eroe ribelle.

 

Gherardo Ismera.

 

E che conoscete voi dell'eroismo se non le imagini divulgate, le figure visibili? V'è un altro senso, oltre gli occhi e gli orecchi. La peggiore azione può celare una bellezza profonda. E vi sono sacrifizii insoliti a cui non può accostarsi né la vostra ragione né la vostra fede. Anche nell'amicizia, come nell'amore, il dono di morte può valere il dono di vita. Voi che giudicate, potreste comprendere? Sapreste voi sciogliere il mio enigma come io seppi interpretare i vostri sogni? Povera creatura inconsapevole, intenta a guatare, a spiare per tutte le fenditure della mia anima, a foggiare con ciascuna delle mie parole un ordegno per aprire il mio cuore!

 

Mortella.

 

L'aprirò.

 

Gherardo Ismera.

 

Non basta. Solo potrebbe leggervi chi avesse veramente toccato il fondo della colpa e del dolore, l'apice della volontà e della bellezza.

 

Mortella.

 

Tutto avete sovvertito.

 

Gherardo Ismera.

 

Tutto ho esaltato. Non tentai di creare voi stessa sopra voi stessa?

 

Mortella.

 

Avete pesato sopra di me con tutte le vostre forze perverse.

 

Gherardo Ismera.

 

Se il mio fu un gioco, sembraste portarlo come un'ala.

 

Mortella.

 

Ne ho il segno tristo, e ho pianto invano per cancellarlo.

 

Gherardo Ismera.

 

Nel piangere, quante volte mi domandaste il perché del vostro pianto! Dove sono scorse quelle lacrime da voi sola conosciute, che la piccola Rondine non poté apprendere? Avevate un ardore di martire, dicendomi talvolta: «Non sapete quanto si soffra!». Vi rispondevo: «Lo so». E mi agguagliavo alla vostra angoscia, come colui che per misurare il dolore si coricò su la graticola rovente, a fianco del tormentato. Che fate in cambio, oggi, per me, se non disconoscermi, sfregiarmi, avvilirmi? Stanco sono, voi dite, per aver troppo preso. Più spesso io ho donato, e non ho quel che ho donato.

 

Mortella.

 

Riconosco l'arte del démone astuto. Ma no, non ho pietà di voi, né di me, né d'altri. Per distruggere in me il ricordo di quel che fu, sarei già morta, se non mi fossi imposto il cómpito di vivere per assolvere il mio vóto. Posso mettermi alfine la mia veste bianca. Inutilmente ancóra tentate, a parole, di sovvertire quel che è fermo. Siete convinto, siete confesso, siete giudicato.

 

Gherardo Ismera.

 

No. Io solo posso giudicarmi. Chiunque possegga sé, per essersi conquistato a prezzo di travagli, considera come suo privilegio il diritto di punirsi o di farsi grazia; e non lo concede ad altri. Se tutti i miei atti mi valgono quanto mi costano, nessuno mi vale più di quello che voi svilite. Se guardo dentro di me, nello stesso orrore di me stesso io non mi sento menomato; anzi sento che il mio démone grandeggia dove l'anima mi scava. Vi sono profondità donde nascono stelle.

 

Mortella.

 

Porterò la mia nella mia mano, stasera, come un fuoco bianco. E la vostra?

 

Gherardo Ismera.

 

Attendo che me ne nasca una nuova.

 

Mortella.

 

Da un nuovo orrore? o dalla morte?

 

Gherardo Ismera.

 

Che è la morte? «Credete veramente che si possa morire?». È una vostra antica domanda.

 

Mortella.

 

«Si può uccidere». È la vostra risposta. Ma, se foste prossimo alla morte, potreste ancóra mentire?

 

Gherardo Ismera.

 

Che gioverebbe mentire? E che potrebbe ormai avvenirmi, che già non fosse in me?

 

Mortella.

 

Fate dunque che il vostro coraggio alzi davanti a me l'imagine vera del vostro atto. Perché avete ucciso? Come avete ucciso? Dite. Mondatevi d'ogni menzogna e d'ogni frode, come se la nostra sera fosse venuta e io avessi già per voi la mia veste bianca.

 

Ella è protesa verso di lui, in un fremito d'aspettazione, simile a una fiamma che si travagli. L'uomo sembra per alcuni attimi vacillare all'orlo del suo segreto. Ma si scrolla e ricusa.

 

Gherardo Ismera.

 

No. Questo è il segreto dell'anima. Voglio ancóra restar solo con lui e col mio dispregio, per prepararmi una solitudine più grande e più libera. De' miei legami io non ho fatto le mie radici. Sono il padrone della mia vita e della mia morte.

 

Mortella.

 

Badate. Nessuno è padrone della sua vita e della sua morte.

 

Gherardo Ismera.

 

Che mi vale la vita? e che la morte? O povera! E che cosa mai potrà superare in durezza quel che da me già fu patito?

 

Mortella.

 

Badate. Ho un comandamento dentro di me, a cui devo obbedire. Badate, vi dico.

 

Gherardo Ismera.

 

A che? Ammonirmi non giova, né minacciarmi. La vendetta ha i piedi silenziosi della colomba? Non proteggo le mie spalle, né mi volgo indietro. Né mai degno accertarmi se mi sia a favore il dado tratto. Non mi risparmio, no, né chiedo d'essere risparmiato. Tutto codesto mi par miseria. Ma andate, se è venuta la vostra sera, andate dunque a pregare.

 

Mortella.

 

L'ultima preghiera io l'ho fatta già, su quel sepolcro ardente.

 

Gherardo Ismera.

 

Che l'ardore divampi! Che la fiamma si levi! E sarà la mia prova. Addio.

 

Mentre egli si volge verso la porta sdegnoso e cupo, Mortella alza verso di lui il pugno, con un gesto di promessa e di consacrazione.

 

FINE DEL SECONDO ATTO.


 

 

 


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