Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il ferro
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IL TERZO ATTO

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IL TERZO ATTO

 

Appare una terrazza quadrata di pietra bigia, cinta di balaustri, priva di vasi e di statue; che guarda a piombo su l'antico cipresseto. Per tre gradini vi si sale da un ripiano che mette a destra sopra una branca di scala discendente nella terrazza sottoposta, e a sinistra sopra un'altra branca saliente alla terrazza superiore che si scorge nel cielo protesa in guisa d'un'alta prua. Una grande arcata collega le due porte aperte su l'una e l'altra scala, tutte di pietra gli stipiti gli architravi i limitari, semplici e sode, non ornate se non d'una fascia sola, con un che della nuda forma dorica.

Si vede pel vano dell'arcata sfondare l'aria del vespro, ove la selva dei cipressi più e più s'infosca digradando come le canne d'uno smisurato organo di bronzo. Per entro alle masse cupe della fronda i rami secolari sono più aggrovigliati che le infime radici. Il fuoco del tramonto vi penetra in modo misterioso arrossando il groviglio interno così che sembra una bragia coperta da una tonaca di metallo.

La pietra è silenziosa e deserta. S'ode la voce di Mortella giù per la scala che discende dalla terrazza di sopra.

 

La voce di Mortella.

 

Addio, addio, Rondine! Addio, Gentucca!

 

S'ode la voce della Rondine rispondere di giù, chiara e fresca, mentre Mortella varca la soglia, traversa il ripiano, sale i tre gradi, corre alla balaustra e si sporge per salutare anche una volta. Ha la sua veste bianca e i suoi sandali.

 

La voce della Rondine.

 

Buona sera, Mortella! A domattina, a domattina, per tempo! Sarò per l'ora della messa. Ti porterò i gigli dell'Olmatello: un gran fascio.

 

Mortella.

 

Addio, cara cara la mia Gentucca! Sii felice, sii felice! Non ti dimenticare della tua Mortina.

 

La voce della Rondine.

 

Buona sera! Buona notte! Dormi, dormi bene, stanotte. Va presto a letto. Voglio che tu dorma. Intendi!

 

Mortella.

 

Dormirò, dormirò.

 

La voce della Rondine.

 

E svégliati con un viso «fatto d'una rosa».

 

Mortella.

 

Mi sveglierò, mi sveglierò.

 

La voce della Rondine.

 

Non ti vedo più. Spòrgiti.

 

Mortella.

 

Addio.

 

La voce della Rondine.

 

Ah! Mortella, Mortella! Guarda, guarda il buono augurio! Alza il capo. C'è un filo di luna nuova alla tua sinistra: la luna a manca!

 

Mortella leva il capo e guarda verso quella parte del cielo ove s'inarca il novilunio di giugno.

 

Buona sera! Buona sera!

 

La voce s'allontana. Mortella si sporge ancor più e s'accommiata.

 

Mortella.

 

Addio! Addio!

 

In questo punto la madre appare alla porta della branca che monta dalla terrazza di sotto. È ansante e sconvolta, quasi irriconoscibile, tanto la disperazione la sfigura.

 

Costanza.

 

Mortella!

 

La figlia sobbalza alla voce improvvisa, e si volge. La madre si slancia verso di lei.

 

Ti trovo finalmente! Perché sei fuggita? perché m'hai lasciata così? T'ho cercata da per tutto. Mi sono trascinata da per tutto. Non so come non sia morta di schianto. Figlia, figlia, aiutami, che non ne posso più!

 

Ella s'abbandona sul sedile di pietra, come in punto di venir meno.

 

Mortella.

 

Ah, mamma, perché vuoi essermi tremenda fino all'ultimo? Come ti posso aiutare? che cosa ancóra ti posso dire? Sono fuggita, sì, perchè so resistere a tutto e non resisto alla tua presenza. Dal giorno che ho pensato contro di te, mi sono recisa da te. Ora il dubbio è divenuto certezza. E tu non ti discolpi. E sono io che debbo fuggirti e tu m'insegui; mentre, se io fossi in te, vorrei già trovarmi alla fine del mondo.

 

Costanza.

 

Alla fine di tutto io sono, né vivamorta. E io, che t'ho messa al mondo, ora concepisco l'inconcepibile: il bene di non essere nata, la felicità del non essere. Se ti cerco, se t'inseguo, è soltanto per dirti che quel che tu pensi contro di me è peggio del tradimento, peggio dell'assassinio....

 

Mortella.

 

Povera! Povera!

 

Costanza.

 

Non avevo compreso. La prima volta, , nella tua camera, dianzi, quando ti supplicavo di non lo vedere, di non gli parlare, veramente non avevo compreso. Te lo giuro. Mi dicevi: «È vero, quel che tu sembri ora?». Non sapevo che, non imaginavo che. Ero fuori di me, ero vuotata dalla vertigine. Ti vedevo sfigurata come in un sogno di paura e di ruina. Vedevo muovere le labbra; e le parole che udivo erano senza senso. Già tutta la mia vita era fissa nello spavento della divinazione, ma riconoscere questa nuova atrocità non potevo. Te lo giuro. Non avevo compreso; né la seconda volta, or ora. Ero quasi tramortita dal colpo, annientata, a terra. Le parole che tu m'hai gridate, io le ho udite come in un turbine, come in un tuono. Che potevo rispondere? Sei fuggita, forse per non calpestarmi....

 

Mortella.

 

Ah, risparmiami!

 

Costanza.

 

Mi sono rialzata, son tornata in me (l'eccesso del dolore sembra interrompere il dolore); e ho riudito dentro di me le parole buie, e un lampo m'ha percossa. Ho compreso.... Tu m'accusi di essere la sua complice, d'aver conosciuto e secondato il suo disegno, d'averlo aiutato a uccidere....

 

Mortella.

 

Non posso ascoltarti. Se séguiti, mi lascio cader giù.

 

Costanza.

 

No. M'ascolterai. M'accusi di questo? È questo che pensi? è questo che dici?

 

Mortella.

 

Sì.

 

La madre vacilla come se, colpita sotto la mammella, fosse per rovesciarsi su le lastre. Mortella fa l'atto istintivo di sorreggerla; ma esita vedendo che non cade, e non la tocca. La voce della madre è simile a quella ch'esce dalla gola arida dei feriti coraggiosi cui l'animo tien luogo di soffio.

 

Costanza.

 

Lo vedo. Non è dubbio in te, omai è certezza. Non si tratta che d'uccidere, qui. Mi guardavi come chi giudica la forza del colpo, e credevi ch'io stessi per cadere, ma ti trattenevi dall'avvicinarti e dal toccarmi, tanto per te sono impura e infetta.

 

Mortella.

 

Mio Dio, mio Dio, ma che vuoi dunque ch'io faccia? Vuoi che ti chieda perdono? vuoi che ti baci le mani? Io sono in un mondo e voi siete in un altro? C'è una verità o non c'è? È vero o non è vero quel che fu commesso? Qualche ora fa, un assassinio vile era trasmutato in un sacrifizio eroico. Ed ecco, tu mi rimproveri di non averti presa fra le mie braccia teneramente!

 

Costanza.

 

No, no, t'inganni. Non tento di salvarmi, non voglio essere salvata. Non vedrò la luce di domani. Non penso che la mia miseria potrebbe sopportarla, come tu non pensi che il tuo odio possa renderti quel che hai perduto. Non sono all'orlo del buio ma già dentro, più della metà. Ascoltami, poiché la vita t'è venuta a traverso il mio povero corpo, a traverso la mia carne straziata. Il mio corpo non conta più, è già steso a terra. Mi sollevo dalla mia carne come dalla bara. L'anima mia intiera è davanti a te, e nulla più ti nasconde. Te lo dico: quel che tu pensi non l'ho fatto. Sono una sciagurata, un'insensata; ho in me e dietro di me tutte le sciagure e tutti gli errori; ma non mi sono macchiata di quella infamia.

 

Mortella.

 

Che prima di morire mi sia dato di crederti! È la mia preghiera ultima.

 

Costanza.

 

Credimi, credimi. Non senti la mia voce? Per un attimo, cessa di serrare il tuo cuore, rompi la durezza che lo fascia, per un attimo! Prendo su me tutto, e non quello. Ho peccato di passione ma non di nequizia. Se mi sono perduta davanti a te, non mi sono perduta davanti a me stessa. La tua accusa coperta e palese, da prima l'ho creduta una follia, una forma di delirio. E poi ho cominciato a tremare, senza osare di fissarla. Ed ecco, a un tratto, ne muoio. Ma ho tutto ignorato. Non ebbi alcun sospetto allora, né poi. Nulla mi fu confidatoconfessato. E che cosa, in quel tempo triste, poteva essermi apposta, se la mia sollecitudine non venne mai meno, se la mia assistenza non si rilasciò un'ora, se volli compiere il mio dovere fino all'estremo?

 

Mortella.

 

Ah, non dir questo, non lo dire. Altrimenti, come ti crederò? Come ora ti posso credere, se mostri d'aver perduta la memoria di tutto quel che fu male?

 

Costanza.

 

In che mancai allora?

 

Mortella.

 

Tanto sei smemorata! E mi domandi un atto di fede? Ti prego, ti prego: lasciami alla mia sera. Lasciami serbare il mio silenzio, col pugno su la bocca.

 

Costanza.

 

Non si può. Quest'ora non tornerà mai più.

 

Mortella.

 

M'ero purificata. Non vedi? Ho la mia veste bianca, e un comandamento dentro di me, a cui devo obbedire. Avevo ripetuta la parola santa: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice». Bisogna dunque che lo beva?

 

Costanza.

 

E bisogna che io beva la mia parte: tutta la feccia.

 

Mortella.

 

Sia. Troppo grandi occhi tu m'hai fatti, e hai trascurato di mettere nel mio sangue la smemoraggine. Già, nel difenderti, tu avevi tentato di dimostrarti irreprensibile prima della sventura, fedele a lui vivente se pur infedele alla sua memoria. Ora tenti di nuovo, povera, dopo aver detto che l'anima tua intiera è davanti a me!

 

La madre si smarrisce, si perde, agitata da un tremito che la dissolve. La voce le manca.

Costanza.

 

Non è così?

 

Mortella.

 

Ho respirato il fuoco. M'hai fatto respirare un orribile fuoco.

 

Costanza.

 

Dio, Dio!

 

Mortella.

 

Credi tu, o vuoi ch'io creda, ch'egli volgesse il viso contro il muro, senza vedere, senza sapere, ignaro di tutto? Ma il più leggero dei tuoi passi intorno al suo letto lo faceva soffrire peggio che se tu avessi camminato sul suo petto con piedi di bronzo.

 

Costanza.

 

Ah, che ho fatto!

 

Mortella.

 

Anche prima, anche prima che la malattia lo inchiodasse nel letto, certe sere, quando era solo con me, all'improvviso mi stringeva tra le sue braccia con una disperazione che faceva per me la notte su tutta la terra e oscurava tutto l'avvenire. Non parlava ma stringeva più forte. E sentivo cadere le sue lacrime sul mio capo... Ah, un anno di vita miserabile non m'avrebbe maturata come ciascuna di quelle. Rientrando a casa con lui, mi pareva di tornare dal fondo del dolore, sfiorita, senza più giovinezza. Che altra ghirlanda avrei potuto portare, dopo? Sono qui, quelle lacrime, sono qui dentro, tutte, indurite, divenute diamanti che tagliano.

 

Costanza.

 

Non sapevo, non sapevo...

 

Mortella.

 

Non sapevi ch'egli t'amava, che tanto t'amava? che aveva messo in te le radici della sua vita? che ti considerava come la sua compagna e come la sua creatura, come la sua opera e come il suo premio?

 

Costanza.

 

Ah, cessa!

 

Mortella.

 

Non sapevi che t'amava come oggi mio fratello ama la sua donna? Perché mio fratello, tuo figlio, l'ama la sua donna, senza rimedio. , nella mia stanza, prima che tu entrassi, ho sentito tremare il suo cuore sgomento sotto l'ombra che gli facevo per provarlo. «Ah, no, no!» balbettava, sconvolto. «Sparirei, morirei». E quel che fu fatto contro il suo padre, sarà fatto contro di lui. Tu l'hai preparato, tu l'hai voluto.

 

Costanza.

 

Non è vero, non è vero! Non può esser vero anche questo. Dio, Dio, che farò? Morire non basta.

 

Mortella.

 

No, non basta.

 

Costanza.

 

Figlia atroce, creatura di spasimo, quanto urlai, quanto mi travagliai per metterti al mondo! E mi sembra di partorirti un'altra volta dal mio terrore.

 

Mortella.

 

S'è vista una madre cullare una bara.

 

Costanza.

 

Ma nessuna portare un cuore più peso. Tu sei stata in me, hai vissuto in me, più profonda del cuore, più dolce del latte. Ti sentivo palpitare a quando a quando, come la vena della felicità, stando seduta, senza pensieri, quasi assopita, col sole su i cigli... Sei uscita da me, hai pianto, hai sorriso. Il segno del mio legame tu l'hai: è indelebile. E ora sei , quella stessa, quella della mia carne; sei , grande, oscura, ostile, carica di destino, piena di cose orrende, piena di cose che tu sai e io non so, più esperta di me, perfino più triste di me, forse, ora che sono diventata vecchia all'improvviso, ora che non ho più nulla, ora che nessuno m'ama più, ora che ho fatto questo male... Figlia, figlia, dimmi che non è vero!

 

Mortella.

 

Ancóra vuoi chiudere gli occhi! Ancóra vuoi essere illusa e risparmiata! Tutto devi sapere.

 

Costanza.

 

Tu ne sei certa? Di che cosa sei certa? fino a che punto?

 

Le parole le bruciano le labbra. Insofferente, Mortella si copre la faccia con le mani.

 

Sì, perché tu mi parli così, perché io osi interrogarti, bisogna bene che tu ti sia recisa da me, che non vi sia più legame, né più ritegno, né alcuna cosa intatta, né alcuna cosa pura, e che al rossore della vergogna non manchi se non il sangue... Ma dimmi!

 

Mortella.

 

Dio guarisca i miei occhi prima di chiudermeli.

 

Costanza.

 

Ma è possibile questo? Se ho voluto ravvicinarmi, se ho supplicato, se mi sono umiliata, l'ho fatto per la speranza di riprenderti e per il bene di mio figlio, per l'amore del mio figlio buono, del mio figlio dolce, di quello che non m'ha mai dato una pena, che non m'ha disconosciuta mai, che non ha mai dubitato di me. Ed ecco, io, io stessa, gli porto la sciagura nella casa ricuperata, io stessa gli getto la mala sorte, gli conduco il nemico, lo legato al nemico.... Ah, è possibile questo? Dimmi, dimmi. Io sono perduta, tu ti perdi; ma bisogna che io salvi mio figlio, che tu salvi tuo fratello. Io e te non vogliamo dar tutto per lui?

 

S'ode improvviso salire dalla profondità della cappella un preludio d'organo. Una commozione straordinaria illumina la faccia della vendicatrice,

 

Mortella.

 

Ascolta! Ascolta!

 

I grandi accordi sembrano salire su per gli antichi cipressi frementi dalle radici alle cime.

 

Chi parla? Di chi è questa voce? Mi passa per le ossa.

 

Costanza.

 

Sono tutta di gelo.

 

Nel cielo mistico del vespro l'armonia solenne sembra ingrandire la potenza degli alberi funebri. Tutta la selva digradante si leva come una implorazione verso il presentimento della prima stella.

 

Mortella.

 

Una cosa sola vive, nella sera, una sola: quella tomba. Non è una pietra, è uno spirito. Non senti come ne tremano i cipressi, come ne tremano le lastre dove posiamo i piedi?

 

Costanza.

 

Che luce hai nella faccia! Com'è bianca la tua veste! Mortella! Sacrificami.

 

Ella va verso la figlia come per offerirsi.

 

Mortella.

 

No, non voglio che tu mi tocchi.

 

Costanza.

 

Ti giuro, ti giuro che non sono quella che ti sembro.

 

Mortella.

 

Va a pregare.

 

Costanza.

 

Te lo giuro: non sapevo, no, non sapevo di aver dato la mia anima a un assassino.

 

Mortella.

 

Lasciami. Non posso perdere la mia sera. Lasciami sola. È tempo. Va a pregare.

 

Il preludio cessa. Il rombo dell'ultimo accordo si prolunga su per i cipressi. Poi si fa alto silenzio.

 

Costanza.

 

D'ogni male mi tengo colpevole, pronta a espiare in ogni modo, e con tutta me e per vita e per morte e oltre; ma dell'infamia che mi apponi sono monda. Vieni, vieni. Te lo dirà colui che ha ucciso.

 

Mortella.

 

Non mi toccare. Lasciami. Non voglio più nulla udire, più nulla sapere.

 

Costanza.

 

Bisogna che tu venga con me, che tu lo cerchi con me, che tu non ti ricusi alla verità.

 

Mortella.

 

Non credo, non posso più credere. Tutto è inganno, tutto è menzogna. Lasciami! Lasciami sola! Perché mi profani?

 

La madre, nel contrasto, sente sotto la sua mano la durezza di un'arme corta e sottile, nascosta nelle pieghe della veste bianca, entro la cintura.

 

Costanza.

 

Che hai qui?

 

Mortella.

 

Ora mi frughi? Non voglio.

 

Ella si dibatte, e respinge le mani insistenti.

 

Costanza.

 

Mortella, Mortella, che hai qui? che nascondi?

 

Mortella.

 

Non voglio essere frugata. Lasciami. Bada! Non mi spingere all'estremo.

 

Ma la madre non desiste. Ha già messa la mano su l'arme, e cerca di strapparla via.

 

Costanza.

 

Ah, è lo stiletto, è la misericordia! Perché lo porti addosso? che vuoi fare? Dammelo!

 

Mortella.

 

No, no! Bada!

 

Costanza.

 

Dammelo, Mortella!

 

Mortella.

 

No!

 

Lottano, anelanti, l'una strozzata dall'ambascia, l'altra dall'ira.

 

Lascialo, o ti mordo la mano, o non so quel che faccio. Ah!

 

La madre è riuscita a strapparle l'arme; e balza indietro, tenendola serrata nel pugno. Entrambe ansano; ma la figlia è sfigurata da un'ira selvaggia, addossata alla balaustra, tutta bianca sul nero dei cipressi.

 

Costanza.

 

Figlia, figlia, che volevi fare?

 

Ella le parla sommessa, con le mascelle malferme, atterrita dall'aspetto di quella furia vertiginosa.

 

Mortella.

 

Se sùbito non mi rendi quell'arme, mi getto di sotto, a capofitto. Pòsala, e va via.

 

Ella ponta le due mani su la pietra della balaustra e s'inarca indietro, verso il vuoto, pronta al salto, con una risoluzione così violenta nella minaccia e nell'atto che la madre si piega, tende verso di lei la mano, fa qualche passo curva, come strisciando su le lastre, e posa la misericordia dall'impugnatura d'oro che brilla. Non ha ancora ritratta la mano e non s'è rialzata ancóra, né la figlia ha mutato attitudine, quando s'ode un passo alla soglia della porta destra, e appare Gherardo Ismera.

Sembra ch'egli venga in cerca di qualcuno; e da prima non s'accorge della presenza di Costanza e di Mortella su la terrazza già tutta occupata dall'ombra folta dei cipressi. Chiama a voce bassa, esitando.

 

Gherardo Ismera.

 

Giana! Giana!

 

Rapidissima, la donna si risolleva e mette il piede su l'arme rimasta a terra, nascondendola. Così, diritta, attende in silenzio.

Gherardo Ismera s'avanza, sta per salire i gradi; e ancora lo scuro della sera l'inganna, che egli ripete per la terza volta il nome.

 

Giana!

 

Scorgendo la donna su la terrazza, ha un sussulto improvviso e si arresta.

 

Costanza.

 

Non è Giana qui. Sono io qui, e c'è mia figlia. Stavamo per venire a cercarti.

 

Gherardo Ismera.

 

Eccomi.

 

Egli ha già raccolte le sue forze, sapendo che l'ora dell'ultimo combattimento è venuta.

 

Costanza.

 

Dio vuole che mia figlia mi sia testimone in quest'ora. Dio vuole che l'ombra copra un poco quest'orrore e mi veli un viso inumano che certo non avrei potuto fissare alla luce del giorno senza averne gli occhi abbuiati e il cuore spento.

 

Non v'è alcuna violenza nella sua voce, ma una gravità che sembra dare a ogni parola un peso di sangue e di lacrime.

 

Gherardo Ismera.

 

Anch'io ho temuto, se bene tanto più forte. Anch'io ho tremato di pietà e - lo confesso - ho tentato di differire. Né m'attendevo questa testimone a un colloquio supremo che la passione filiale non può sopportareintendere. Sottomettermi a un giudice, qualunque sia, non posso. L'ho già detto. Ma tu non giudicherai. Non si giudica il destino che ci martella e ci foggia. L'albero non giudica il fuoco che lo arde. E, se un atto terribile fu commesso, tu anche eri curvata sotto la necessità che lo volle.

 

Costanza.

 

Nessuna parola dubbia, nessuna parola ambigua. La verità, la verità nuda! Sono accusata anch'io. Dinanzi a quegli occhi fissi che ci guardano dal fondo dell'eterno, io sono la complice: ho aiutato a uccidere, ho sorretto la mano micidiale, ho vissuto a fianco dell'uccisore, l'ho ricondotto qui per rinnovare l'infamia, gli ho messo nelle branche un'altra preda, ho preparata un'altra rovina; È questa l'accusa. La ripetono quegli occhi inesorabili. Se mi vale l'aver data tutta me stessa senza misura e senza pausa, se mi vale tanta cecità nel credere, tanto ardore nell'obbedire, tanto sforzo nel superarmi, se mi vale l'aver amato e servito l'amore di dalla speranza e dalla disperazione, se mi vale infine questo annientamento fulmineo di tutto ciò che fu la mia ragione di vivere e di tremare, ti domando di dire la verità dinanzi a questa testimone del mio sangue e del mio spirito.

 

Gherardo Ismera.

 

Mia povera donna, quest'ombra non basta. Anche la notte sarebbe troppo chiara. E che altro vorrei fare, che altro potrei, se non velarmi la faccia ed entrare nel silenzio che tutto assolve e tutto cancella? V'è un'anima che non potrà mai discoprirsi, un segreto che non può esser dato e ricevuto se non da pari a pari, un potere più antico della Necessità e del Tempo, e anche qualcosa del domani non nato. Ora non sopporto l'agonia ma affretto il trapasso. Che volete fare di me per placarvi? Mortella, com'è bianca la tua veste su la soglia della tua sera. Me l'avevi promessa.

 

Dalla cappella profonda sorge di nuovo l'armonia dell'organo e, come condotta dal fremito dei cipressi, spazia di cima in cima per l'azzurro violaceo del vespro.

 

Costanza.

 

Ascolta. Ora anch'io lo so, anch'io lo sento. Una sola cosa vive: quel sepolcro, laggiù, che si riapre. Ora lo so: dov'è il sepolcro, è la resurrezione. Il padre e il figlio sono laggiù, una sola vita in ogni

accordo, una sola tristezza in ogni armonia; e l'uno palpita nell'altro, l'uno si rivela nell'altro. Sento fremere la pietra sotto i miei piedi. E guarda, guarda che chiarore in quel viso muto! Che hai fatto? Come hai ucciso? Perché hai ucciso? Parla!

 

Egli volge lo sguardo intorno, al cielo, agli alberi, alla pietra, alla creatura impietrita, alla sua donna anelante. La sua voce da principio è lenta, rotta dal soverchio dell'ambascia.

 

Gherardo Ismera.

 

Se il suo spirito è presente, se questa grande cosa che riempie la sera è la sua anima veggente, se la mia stessa ambascia m'avverte ch'egli m'è vicino, gli domando di assolvermi dal fallo che commetto contro di lui rivelando il segreto ch'egli volle suggellare in me col giuramento.

Sì, Mortella, io l'ebbi pel compagno diletto della mia giovinezza, per l'unico fratello dell'anima mia. Il dono di vita, fatto in piedi, fu ricevuto in ginocchio; e la vita fu ringraziata. Capace di tutte le bontà, chi ebbe un cuore più virile? Talvolta la nostra amicizia fu una milizia, e talvolta una creazione. E nessuno dei due misurò quel che diede, quel che ricevette. Mi dia egli ora il coraggio di parlare della cosa tremenda dinanzi alla creatura ch'egli ebbe come il fiore leggero della sua malinconia... È vero, Mortella, nessuno è padrone della sua vita e della sua morte.

Si vive per anni accanto a un essere umano, senza vederlo. Un giorno, ecco che uno alza gli occhi e lo vede. In un attimo, non si sa perché, non si sa come, qualcosa si rompe: una diga fra due acque. E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano. Così fu di noi. Costanza, Costanza, t'ho amata, t'ho amata! Ricordatene.

 

Come radicata pel piede nel sasso costretta a quella spaventosa immobilità, ella è simile ai cipressi che di continuo fremono nella musica sacra e nel vento vespertino.

 

Rivedo i suoi occhi. Mi guardano ancóra. Sono i tuoi, Mortella; si sono riaperti in te. C'è il suo sguardo dietro il tuo sguardo. Che cosa la mia vita poteva nascondergli? Né la sua a me. I nostri silenzii erano più chiari dei nostri pensieri. La fatalità inaspettata e inevitabile ci era sopra. E, come se non fosse abbastanza atroce, la malattia inchiodò la sventura consapevole. Il vento dissipa talvolta anche la nube che abbiamo dentro. L'angoscia lo respira. Ma no: quattro pareti chiusero la lotta. Un'orribile certezza stette sopra un guanciale inerte. E un giorno egli mi disse, fissando in me la sua certezza: «Bisogna che io muoia, o che tu muoia. Quel che è, è irreparabile. Sento che questo male non mi perdona. Ma, perché io ti perdoni, bisogna che tu affretti il destino. Ho, per finirmi, un'arme sicura e bella trasmessami dai miei vecchi. Non mi vale. Bisogna che nessuno sospetti, che nessuno indovini. Fa che stasera la puntura sia mortale... Tu mi devi questo, me lo devi. Per riscattarti, tu non hai che questo prezzo. È il prezzo che t'impongo, da pari a pari. Non ne conosco di più terribile». Ah, che altro può affrontare un cuore d'uomo? e che posso io temere nel mondo e di ? di che cosa posso io tremare?

«Che la tua mano non tremi! Che il tuo polso sia fermo!». Così diceva. E la sua volontà tagliava ogni parola come il diamante invincibile. E, come i suoi occhi erano ne' miei occhi, la sua volontà diveniva la mia volontà e reprimeva in me ogni moto umano, e la compassione di lui e di me, e l'orrore della nostra forza, e la mia vertigine dinanzi al sacrifizio ch'era di dall'amicizia e dall'amore, più alto della vita, più profondo della morte. «Se non vuoi che il mio sangue ricada su te e su quella che t'ama e che tu mi togli, liberami dalla mia disperazione, per una sola stilla. Affretta il destino. È il prezzo del riscatto. Voglio».

Ah, quelle mani d'assassino vile che avete creduto d'intravedere in quello specchio infamante, e quella faccia senza colore china su la frode abominevole! Io ho presa la mia vita, col dolore, con l'amore, con la colpa, col rimorso, col peso di tutti gli anni e di tutti i mali, con la vergogna e con la bellezza, con la menzogna e con la verità; tra queste due mani l'ho presa e l'ho sollevata donde l'anima non può più ritornare. Che volete da me?

 

Protesa, fremente, ardente, Mortella ha seguìto la confessione senza battere le palpebre. Ora si lancia con un grido.

 

Mortella.

 

Ah, un flotto per quella stilla!

 

Si curva e striscia ai piedi della madre, come per raccogliere il ferro. Ma la madre le abbranca il braccio e la tiene, con una forza ineluttabile.

 

Costanza.

 

Figlia, figlia, guarda! Il mio amore, la mia passione, la mia perdizione, tutta me, ecco, te l'offro. E a te, figlio!

 

Fulminea, si piega, toglie di sotto al suo piede l'arme e si getta contro l'uomo per colpirlo.

 

Gherardo Ismera.

 

Chi vendichi?

 

Egli non ha indietreggiato, né ha fatto un sol gesto, ma guarda fiso la sua donna che sotto quello sguardo ha un attimo d'esitanza. Selvaggiamente Mortella l'incalza.

 

Mortella.

 

Uccidi! Uccidi!

 

Costanza.

 

L'amore.

 

Ella ha risposto a voce bassa vibrando il colpo nel petto dell'uomo e lasciandovi il ferro. Balza indietro perdutamente, e lo guarda barcollare.

 

Gherardo Ismera.

 

Amico, fratello, tu mi vedi.

 

Egli trattiene lo spirito nella ferita con uno sforzo sovrumano. La notte dei cipressi è sopra la sua fine. Il rombo dell'organo si propaga alla pietra dov'egli è per piombare.

 

Torno presso di te... Voglio che la mia anima abbia la forza di condurre il mio corpo fino alla tua pietra... Tu lo dicevi: un coraggio di solitario, un coraggio di aquila... Nessuno sa, nessuno comprende... La scintilla d'un dio la cercherò nella tua cenere... Voglio... voglio andare a lui... io solo...

 

Egli si muove, fa qualche passo vacillante, mette il piede su l'orlo del primo gradino. La morte gli annoda le ginocchia, gli lega la lingua. Egli stramazza e rotola fin quasi alla soglia della porta ond'era venuto.

La sua donna è caduta in ginocchio, come falciata dal terrore, incapace di accorrere, incapace fin di trascinarsi.

 

Costanza.

 

Ti amo, ti amo! Verrò dove sarai...

 

Disperatamente ella tende le braccia, poi si rovescia indietro. Mortella si piega su lei, con un movimento divino di pietà e di dolore.

 

Mortella.

 

Madre, madre, bacio la tua mano, bacio questa mano!

 

S'ode per la scala la voce affannosa di Giana Guinigi.

 

La voce di Giana.

 

Mortella! Mortella! Chi ha gridato? Ho sentito gridare. Mortella, dove sei? Chi è ?

 

Mortella corre verso il cadavere. Si toglie dal collo il lungo velo bianco e gli copre il viso. Poi strappa il ferro dalla ferita. Giana appare alla soglia, scorge il corpo attraversato, si curva, lo palpa; ritrae le mani rabbrividendo.

 

Ah, è sangue! Chi l'ha ucciso?

 

Costanza Ismera sorge dal suo tramortimento, simile nell'aspetto a quelle anime che, per rispondere nel di novissimo, ricompongono le loro ossa e le loro carni intorno al loro spavento.

Ma Mortella, tutta bianca, mostrando nel pugno la misericordia insanguinata, grida la sua vendetta.

 

Mortella.

 

Io! Io l'ho ucciso, con questo.

 

EXPLICIT DRAMA.

 


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