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Elogio di Enrico Nencioni

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Elogio di Enrico Nencioni

In uno di questi torbidi giorni d’agosto, ad Antignano, presso il Tirreno, s’è spento uno dei più nobili spiriti che abbiano mai proseguito in terra il culto della bontà e della bellezza; è scomparso in silenzio un poeta delicato e forte, casto e ardente, che si chiamava Enrico Nencioni.

Come la sua vitaspecie negli ultimi anni – fu un focolare quasi segreto a cui non si scaldavano se non i prossimi, così la sua morte sembra non abbia suscitato se non il cordoglio di pochi. Il popolo d’Italia, voltolandosi nella sua miseria come in un voluttabro, non s’avvede di coloro che scompaiono: non ha rimpianti per questi estremi custodi fedeli delle idealità ripudiate e delle speranze abbattute; non ha corone per i poeti che trapassano dopo aver rivelato in figure armoniose qualche oscura aspirazione della stirpe.

Ma profondissimo è il cordoglio di quei pochi che trassero un beneficio indimenticabile dal comunicare con quel raro spirito, e conobbero tutta la virtù della fiamma che ardeva in lui. Matilde Serao – di cui il nostro dolce amico ammirava ed amava con aspettazione grande il vigore il calore e l’abbondanza inesausta – ha significato, con alta eloquenza, «il sentimento di quella vita che fu data solo all’amore della verità e della bellezza». Ella ha espresso tutto il nostro rammarico, ben sapendo quel che abbiamo perduto. «Enrico Nencioni era l’amico, il compagno, il fratello di ogni artista e di ogni poeta: la sua anima alta e pura, l’immacolata anima sua era la pietra di paragone dell’arte e della poesia. Niuno mai più saprà ammirare con tanta pazienza, con tanta finezza, con tanta acutezza; niuno saprà mai rigettare da sé tutto quello che è stupido, che è tronfio, che è mediocre, con più nobile disgusto, come l’ermellino che ha orrore d’ogni macchia; niuno saprà mai trovare, talvolta, in un’opera povera confusa intricata l’idea originale, la beltà nascosta, la perla smarrita fra le macerie; niuno come lui saprà mai più essere il consigliere, la guida, il faro di tutti coloro che combattono la lotta atroce dell’arte fra l’indifferenza del pubblico e il morso dell’invidia

Ed ella ha voluto ricordare di qual legame io fossi legato al poeta di San Simeone Stilita e dell’Inno ai Fiori.

Ho ancóra lucida e precisa nella memoria l’imagine di lui quale mi apparve la prima volta in un lontanissimo giorno della mia puerizia. Egli era allora nella sua piena virilità, forse nel momento più fortunato della sua vita, preso anch’egli nell’illusione di quella specie di rinascenza letteraria promossa dal robusto paganesimo delle Odi barbare, già tutto penetrato dalla poesia di Roma dov’egli viveva allora: da quella poesia ch’egli doveva più tardi rivelarmi, eloquentissimo pedagogo, conducendo me giovinetto sotto i cipressi della Villa Ludovisi e tra gli elci della Villa Medici. Io era un fanciullo, triste prigioniero in un gran collegio toscano dove la disciplina troppo duramente soffocava la mia precoce avidità di vivere e feriva la mia sensibilità già inquieta. Avevo scritto a lui dalla mia prigione, in un giorno d’insofferenza più aspra e di malinconia più grave; ed egli mi aveva risposto senza indugio, con impreveduta benignità, comprendendo il mio male, versando sul mio ardore la dolcezza delle sue parole fraterne. Fratello egli mi parve fin da quel tempo, fratello più che padre, poiché la sua anima era la più giovenile ch’io m’abbia conosciuto mai e tale restò sempre pur nell’estrema decadenza della sua carne miserabile.

Trovandosi in Firenze desiderò di vedermi, di parlar meco. Ed io mi ricordo, come d’un immenso abbagliamento, di quel mattino fiorentino in cui mi mossi verso la casa dov’egli m’aspettava. Era d’aprile; e la città armoniosa risplendeva tutta quanta in una di quelle stupende illuminazioni pasquali che davano «volontà di dire» al giovine Allighieri prima dell’esilio. Io mi pensava di andare a cresimarmi per la gloria; e il lieto rumore delle vie popolate giungeva al mio orecchio come di lontano.

Salii le scale d’un tratto, palpitando, avendo ancóra negli occhi il barbaglio esteriore; e fui introdotto in una stanza un poco oscura, le cui pareti erano interamente occupate da scaffali folti di volumi. L’uomo illustre mi venne incontro per abbracciarmi; e io sentii subito che la mia commozione s’era comunicata a lui, e ch’egli non era più per me un estraneo ma un congiunto prediletto ch’io rivedessi dopo una lunga assenza con lagrime di gioia. Egli era alto della persona e magro, con qualche cosa di vibrante in ogni sua attitudine, come se continue onde di forza nervosa attraversassero la sua debilità; aveva gli occhi azzurri ed entusiastici, la bocca così fine che si alterava ad ogni più piccolo moto dell’anima, la fronte straordinariamente pura come quella che non visitavano se non le belle idee; e le sue mani lunghe e sensitive sapevano i gesti che tracciano nell’aria l’effigie dei fantasmi mentali, come la sua voce appassionata sapeva gli accenti che convengono alle sillabe rivelatrici nei ritmi della grande poesia.

Fresco dei Dialoghi platonici, io pensai che fosse in lui qualche parte di quella incitante virtù che emanava da Socrate su la varia corona dei discepoli; poiché anche a me, come ad Alcibiade, il cuore balzava assai più che ai coribanti, mentre l’udivo, e l’anima turbata si appenava come di sentirsi servile. Io non ho conosciuto alcuno che, parlando di cose spirituali, giungesse ad una tale intensità di calore comunicativo. E in quel giorno, mentre ascoltavo, apparivami singolare il contrasto fra quella sua alta fiamma di vita e la gelida stanza triste ov’eravamo seduti.

Sempre, di poi, fino all’ultima visita, io l’ho trovato nell’ombra di case gelide e tristi. Per una strana fatalità questo poeta avido di luce ha passato i suoi anni tra pareti oscure, dinanzi a finestre cieche e a focolari spenti. Tale fu sempre il discordo fra la qualità della sua natura interiore e la mediocrità della sua esistenza cotidiana. Se io guardo il ritratto che di lui mi rimane – un ritratto recentericonosco manifestato dal caso questo discordo. Egli è in attitudine di raccoglimento severo, con le lunghe mani sensitive incrociate e posate su un libro chiuso. I suoi occhi sono velati ma intenti; la sua bocca è stanca ma composta; tra i suoi sopraccigli è il segno d’un pensiero religioso. Tutta la sua figura ha un’impronta di nobiltà quasi direi finale, poiché lo sguardo fisso della Morte è sopra l’eletto. Ma egli siede su una sedia che non è quella del Petrarca; forma volgare e goffa, che offende la delicatezza di quel corpo estenuato dalla malattia e dalla meditazione; e dietro il suo capo è una cortina cinerea che lascia intravvedere oltre il suo lembo uno spazio buio donde entrerà fra poco l’estrema Visitatrice.

Oh funebre imagine! Non così io lo vedo, se chiudo gli occhi; ma tra le lucide apparenze che egli sapeva contemplare, ma tra i purpurei fiori ch’egli voleva lasciare intatti su i loro steli, rispettoso e amoroso di tutte le creature viventi. Nel suo Inno ai Fiori egli aveva cantato:

Aprite al sole

I tepenti cristalli, ed inondate

Ogni stanza di luce e di salute!

Bisognava ritrarlo in un grande giardino del Rinascimento, seduto sul margine d’una di quelle magnifiche fontane ch’egli tanto amava, presso una di quelle prodigiose invenzioni marmoree in cui Lorenzo Bernini glorificava la potenza dell’acqua con lo stesso impeto lirico che sollevò Pindaro nel principio della prima Olimpica: «Ἄριστον μὲν ὕδωρ…»

Da quel lontano mattino egli fu per me spiritualmente il padre e il fratello esemplari, senza ineguaglianze e senza interruzioni. Egli si compiaceva spesso di ricordare il gran battito del mio piccolo cuore, quel battito veemente ch’egli aveva sentito e udito con stupore nel primo abbracciarmi; e io penso che la sua tenerezza verso di me fu così grande perché egli non cessò mai di udirlo nella sua memoria, e anche penso che per questo fu così grande verso di me la sua indulgenza. Il poeta dal mite aspetto aveva profondo e sincero il gusto delle energie impetuose.

In verità, l’imagine che della sua natura intellettuale si fingono i più non risponde a quella che io so certa. Enrico Nencioni non era per i più se non un comentatore elegante e sentimentale di poeti nordici, un malinconico sognatore dotato di morbidezza quasi feminea, inclinato verso le forme squisite e gracili dell’arte: insomma un artefice di medaglioni scolpiti a mezzo rilievo o miniati su avorio per dame vereconde. Il carattere essenziale del suo spirito è invece l’amore della forza oltrepossente e della passione dominatrice. L’Allighieri e lo Shakespeare, il Goethe e lo Shelley, il Rembrandt e il Beethoven sono su i suoi altari. Egli si protende verso i poeti porfirogeniti, verso quelli che nacquero in una stanza di porpora. Egli predilige i britanni perché sotto il loro lirismo magnifico sembra che covi ancóra la frenesia del Marlowe, del Ford, del Ben Jonson, di tutti quei formidabili precursori da cui il genio di Guglielmo è annunziato come il sole da un’aurora sanguigna. Egli esalta Algernon Swinburne, il cantore della Laus Veneris e di Anactoria, nel quale appunto sembra rivivere con violenza inaudita la sensualità delittuosa che empie di urli selvaggi e di morti disperate i primitivi drammi. Egli ammira il divino Shelley specialmente nell’atrocità dei Cenci, lo ammira specialmente nella costante aspirazione verso una forma di essere più vasta e più fiera, in quell’apparizione che scoppia nel grido al vento occidentale: «Sii, o superbo spirito, il mio proprio spirito. Sii me, o essere impetuoso! Be thou me, impetuous one!»

Mai egli è tanto eloquente come quando si trova dinanzi alla manifestazione di qualche irresistibile energia creatrice, o dinanzi a qualche abisso dell’anima umana rivelato con tragica sincerità. «Tutto quello che l’uomo ha pensato, veduto ed amato sinceramente, è, o dovrebbessere, sempre caro e sacro per l’uomo», egli ha scritto. Egli non ha mai nascosto la sua predilezione per l’arte moderna, fatta di passione e di dolore, al confronto della fredda e impeccabile symmetria prisca. «La lampada della vita non è più una fiamma pura e tranquilla, nutrita di liquore d’oliva, ma una face resinosa e fumosa che manda torbide e rosse faville», egli ha scritto. «Tu avevi visto poco dell’immenso universo, poco amato e poco sofferto; e però, o divina Euritmia, il tuo volto è così calmo e sereno

Leggete il suo discorso Del Barocco per vedere quali mirabili facoltà di comprensione egli possedesse e con quali agili trapassi il suo spirito percorresse la scala dei sentimenti, delle sensazioni e delle idee. Quel discorso mi sembra, meglio d’ogni altra sua prosa, rappresentativo del suo particolar modo di sentire e di pensare, e anche notevole molto come scrittura perché porta tutte le varietà del suo stile. Il quale attrae per una specie di grazia negletta e volubile, per certe sprezzature efficaci e per certe deliziose delicatezze che vi si incontrano all’improvviso, per certe accensioni subitanee del colorito, per certi movimenti rapidi e fieri del ritmo, per un pullular frequente di vivacità umoristica. Anch’egli piacevasi di gittare il sale dell’ironia nella sua fiamma per sentirla crepitar forte.

E si noti che pur nella poesia egli attinge un grado insolito di virtù espressiva quando ha da manifestare un sentimento energico o da rappresentare una visione grandiosa e cupa.

Ecco, nel Paradiso perduto, un paese notturno.

Luna non parve. Non un tenue raggio

Di stella penetrò la fitta e bassa

Tenda di nubi. Morta era la vita,

Spenta la luce. Non una scintilla

D’ascoso bruco, né un brillar d’errante

Lucciola. I grilli avean cessato il canto

Ad un tratto; e la terra affaticata

Dormìa penosamente oppressa e chiusa

Dall’afosa atmosfera. Qualche lampo,

Poche goccie di pioggia, rare e calde,

Come goccie di sangue; ed interrotti

Buffi di vento, da rumori arcani

Seguìti…

Ed ecco, nel Fiume della Vita, il funereo passaggio dei vegliardi, delle donne, degli adulti, dei fanciulli, che l’onda implacabile trascina all’abisso della Morte; ecco l’immenso coro umano di lamenti inascoltati, che empie tutta la natura come il rombo possente dell’organo empie la profonda nave d’una cattedrale.

Quanta folla e quanto pianto!

E v’hannurla, e strida e fremiti

E sommesse e quete lagrime

Interrotte di preghiera.

Ma il gran Coro è un pianto eterno:

Pianto amaro e pianto antico

Come quello dell’Ocèano.

Ed ecco San Simeone Stilita, che su la cima dell’ardua colonna drizzasi, statua viva, ferrea compagine animata dall’alito di Dio, sotto il feroce sole canicolare che gli brucia il cranio bianco, o sotto la neve che gli agghiaccia le ossa, o sotto l’assidua pioggia ond’egli gronda come un albero solitario, pur sempre eretto in cima alla colonna fatale.

O santo io tremo a te pensando. E credo

Che il sol, le stelle, ed i vaganti uccelli

Che quarant’anni contemplâr nei campi

Dell’aria il magro tuo profilo, e i vènti

Che ti agitâr la veneranda barba

Come spuma di mar canuta, – e tutta

La Natura tremasse al tuo conspetto.

Tali sono le apparizioni che il poeta vede sorgere su l’orizzonte del sogno, dove si disegnano le linee misteriose dei nostri destini non compiuti: «tutto quello che non potemmo essere su la Terra, ed a cui pur ci sentivamo nati; tutto quello che era in noi, e che il mondo ignorò…»

Anch’egli, in un’esistenza anteriore, ha amato Antigone, e non può esser pago d’alcun legame mortale; anch’egli ha amato con un amore che era più che un amore, with a love that was more than love; e nell’ultima poesia da lui composta – mentre il presentimento della fine, come un’occulta musica, gli dilata l’anima in un’immensità di desiderio verso una vita conforme al suo sogno troppo lungamente vano – nell’ultima poesia egli evoca, per una specie di lucido delirio, in rotti ritmi, fra le tragiche creature che diedero il cipresso all’Amore e il mirto alla Morte, l’ideale amante i cui magici occhi sono «ferventi come il fuoco e delicati come i fiori».

Straordinario è il sentimento che mi suscita quest’ultimo canto del morituro, questa appassionata Eroide in cui Edgardo parla ad Annabella il linguaggio d’un ebro e d’un veggente. Sembra che il poeta, prima di morire della sua misera morte nella triste casa, abbia voluto adunare in queste strofe tutti gli splendori che gli ardevano nella memoria come vestigi d’una patria remota da cui egli fosse esiliato. Queste strofe mi dicono anche una volta quali magnificenze gravassero l’anima di quell’uomo dolce e dolente che ancor vedo seduto nella sua grigia stanza, in atto di reclinare il volto scarno sur un mazzolino di violette.

Alati vènti

Su fioriti umidi boschi;

Di garofani scarlatti

Rossi fuochi in mezzo al verde;

Rugiadose nivee rose.

Alti gigli, e fiammeggianti

Tulipani, e violente

Melodie di rosignoli…

Ecco quali sono i suoi sogni d’infermo, aegri somnia. Egli rivede la bianca Esione coperta sino ai malleoli della capellatura come da un manto d’oro; e la perfetta bellezza di Elena nel candore del marmo pario; e Fedra dall’estenuato volto, alla cui carne il peccato morde come il fuoco alle legna aride; e Semiramide dalla dura chioma che le scende su gli omeri simile alla criniera di una cavalla barbara; e Faustina dalle tempie larghe e ardenti, dalla bocca assetata avida e muta come quella della tomba; e Saffo dalla faccia pallida come la brace moribonda…

Saffo canta. Intollerabile

La consuma il desiderio.

Le stelle l’ascoltano e palpitano

Più amorose in mezzo al cielo.

E le visioni dileguano; e l’Eletta dai campi luminosi scende a un mistico giardino, cantando. Su la soglia sta la Morte coronata di cipresso.

Ella a noi le sue marmoree

Braccia stende, e al cor ci chiude:

Noi perdiam coscienza ed essere,

Noi siam morti nella Morte.

Ma sognamo. – Come in fondo

All’oceano le verdi alighe,

O le rame dei coralli,

Noi sognamo; ma siam morti.

Noi sentiamo su le pàlpebre

Sigillate eternamente,

Su i due cuor che più non battono,

Lievi errar l’ombre dei baci.

Noi sognamo ardenti cantici

Di purpurei rosignoli,

Lune più dei soli splendide,

Mari d’oro e fior di luce.

Noi sognamo l’impossibile,

Il divino, l’ineffabile,

Il gran sogno dei poeti

Noi sognamo… ma siam morti.

Egli è morto. È scomparso dalla terra colui che più d’una volta, camminando al mio fianco nelle campagne primaverili, mi arrestò perché io tendessi l’orecchio verso ignote gioie ed ignoti dolori che cantavano per sentieri nascosti. Il nodo ritmico, ch’egli portava nel centro dell’anima, è omai sciolto per sempre. S’egli avesse potuto scioglierlo mentre viveva travedendo fuggevoli forme di nuove potenze e traudendo confuse parole di speranze nuove, oggi tutto il mondo piangerebbe un altissimo poeta.



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