Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Forse che sì forse che no
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Libro primo

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FORSE CHE SÌ FORSE CHE NO

 

Libro primo

 

- Forse - rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.

- Non forse. Bisogna che sia, bisogna che sia! È orribile quel che fate, Isabella: non ha alcuna scusa, alcuna discolpa. È una crudeltà quasi brutale, un'offesa atroce al corpo e all'anima, un disconoscimento inumano dell'amore e d'ogni bellezza e d'ogni gentilezza dell'amore, Isabella. Che volete voi fare di me? Volete rendermi ancor più disperato e più folle?

- Forse - rispondeva la donna, aguzzando il suo sorriso che il velo pareva confondere e quasi fumeggiare nei mobili riflessi, di sotto alle due ali ferrugigne che le coprivano gli orecchi inserite nel suo cappello a guisa d'elmetto intessuto d'una paglia larga e forte come trucioli di frassino.

- Ah, se l'amore fosse una creatura viva e avesse gli occhi, potreste voi guardarlo senza vergognarvi?

- Non lo guardo.

- Mi amate?

- Non so.

- Vi prendete gioco di me?

- Tutto è gioco.

Il furore gonfiò, il petto dell'uomo chino sul volante della sua rossa macchina precipitosa, che correva l'antica strada romana con un rombo guerresco simile al rullo d'un vasto tamburo metallico.

- Siete capace di metter la vita per ultima posta?

- Capace di tutto.

Parve guizzarle tra i denti e il bianco degli occhi l'acutezza del sorriso formidabile come il baleno di un'arme a doppio taglio. Con la destra il furibondo afferrò la leva, accelerò la corsa come nell'ardore d'una gara mortale, sentì pulsare nel suo proprio cuore la violenza del congegno esatto. Il vento gli mozzava le parole su le labbra arsicce.

- Ora ho la vostra vita nelle mie mani come questo cerchio.

- Sì.

- Posso distruggerla.

- Sì.

- Posso in un attimo scagliarla nella polvere, schiacciarla contro le pietre, fare di voi e di me un solo mucchio sanguinoso.

- Sì.

Protesa, ella ripeteva la sillaba sibilante, con un misto d'irrisione e di voluttà selvaggia. E veramente l'uno e l'altro sangue si rinforzavano, balzavano; l'uno contro l'altro parevano ardere ed esplodere come l'essenza accesa dal magnete nel motore celato dal lungo cofano.

- La morte, la morte!

Non sbigottita ma ebra ella mirava l'imagine di lui nel fanale mediano, ch'era come un teschio orecchiuto, costrutto di tre metalli: mirava nella spera convessa del rame il capo rimpicciolito; ingrossato il basso del corpo, la mano sinistra enorme su la guida dello sterzo. Percotendo il sole nella spera, il fuoco divorava la faccia; e dell'imagine allora non appariva a lei se non il mostruoso torace decapitato e il pugno gigantesco nel guanto rossastro.

- Mi tenterai e mi deluderai ancora?

- Forse.

- Vedi quel carro, laggiù?

- Lo vedo.

Le parole erano come faville fulminee, che si partissero non dalla bocca senza respiro ma dall'apice del cuore lottante. Il vento le rapiva e le mesceva all'immenso vortice di polvere alzato nella traccia spaventosa. Parevano non avere la figura del suono ma quella dell'ardore, disumanate dalla brevità nella luce, dalla solitudine nello spazio.

- Chiudi gli occhi, dammi le labbra.

- No.

- Mordimi, e chiudi gli occhi.

- No.

- Moriamo.

- Eccomi.

Combattevano senza toccarsi ma invasi dallo stesso delirio che agita gli amanti acri d'odio carnale sul letto scosso, quando il desiderio e la distruzione la voluttà e lo strazio sono una sola febbre. Il mondo non fu se non polvere dietro di loro; le forze si alternarono e si confusero. La donna era separata sul suo sedile, né sfiorava pur col gomito il compagno; ma soffriva e gioiva come se i due pugni dominatori non reggessero il cerchio, ben lei tenessero presa per gli omeri squassa ndola. E trasposta era in lui l'illusione medesima, ché egli sentiva sotto le sue mani nella potenza dell'impulso grandeggiare il palpito della creatura agognata. Ed entrambi, come nella mischia ignuda, avevano il viso cocente ma nella schiena il brivido gelido.

- Non temi?

- Non temo.

Ella guardava la morte e non credeva alla morte. Vide l'ombra d'un pioppo su la via splendida; distinse sul ciglio erboso il fiore intatto del vento, il labile globo di piuma sul gambo sottile; si contrasse, divenuta un solo istinto vitale dalla nuca al tallone, imitando il guizzo delle rondini vive che schivavano il cofano pieno di fremito. E non mai aveva conosciuto la sua propria forma come in quel punto, non mai nel suo letto non mai nel suo bagno non mai davanti al suo specchio; le lunghe gambe lisce come quelle dei chiari crocifissi d'argento levigate da mille e mille labbra pie; l'esiguità delle ginocchia agevoli in cui era il segreto del passo talare; le piccole mammelle sul petto largo come il petto delle Muse vocali, dall'ossatura palese di sotto i muscoli smilzi; e le braccia non molli ma salde, che pur sembravano portare la più fresca freschezza della vita come una ghirlanda rinnovata a ogni alba; e chiuse nei guanti fiosci le magre mani fino alle unghie screziate di bianco, sensibili come il cuore purpureo, ricche di un'arte più misteriosa che i segni scritti nelle palme; e tutto il calore diffuso sotto la pelle come una stagione dorata, e l'inquietudine delle vene, e l'odore profondo.

«No, non moriamo. Il cuore ti trema. Il tuo furore è vano. Godi e soffri di me. Non sono mai stata così forte e così desiderabile

I suoi pensieri nascevano dal suo brivido. Ed ella portava sotto le due ali basse il suo viso di dèmone non come una maschera di carne ma come la sommità stessa della sua anima accesa nel vento sonoro e velata di fallacia.

- Isabella! Isabella!

Simile al cavallo nervoso che sente dinanzi all'ostacolo mancare il coraggio del cavaliere ed è certo che non andrà dall'altra parte, ella sentiva l'esitazione nei pugni del guidatore; e già misurava con l'occhio lo spazio tra il carro e il canale ove le ninfee biancheggiavano. Un grido involontario le sfuggì quando una rondine urtò contro i bugni del radiatore camuso uccidendosi.

- Paura?

- Per la rondine.

- Vuoi?

- Sia.

- Isabella!

Allora ella guardò il viso raso del compagno, non nella spera di rame ma nel rombo del pericolo al suo fianco: il viso bronzino, disseccato e indurito su le ossa evidenti, chiuso fino al mento come da una sorta di camaglio, onde sporgeva carnosa la bocca quasi fosse gonfia di sete e di disperazione. Poi guardò innanzi a sé. Subitamente l'orrore le arrestò il palpito; ché il carro era , carico di tronchi immani che si protendevano oltre le corna delle due coppie di buoi aggiogate. L'ultimo battito delle palpebre afferrò netta la forma degli strati legnosi nel taglio dei fusti. Poi ella chiuse gli occhi: fu scossa dalla violenza dello sterzo, udì gli urli dei bovari e un muggito lugubre come se la macchina micidiale passasse sopra le bestie stritolate.. Aprì gli occhi: qualcosa di verde di candido di fresco le entrò nelle pupille. La macchina correva, muggendo dalla sua sirena, lungo il margine erboso del canale ove le ninfee galleggiavano innumerevoli. Dietro, il vortice della polvere nascondeva il passo della morte. E un repentino riso stridette per entro l'ondeggiamento del velo, sotto le ali dell'elmetto, su la faccia incolume e invitta.

Era un riso involontario, un convulso riso femineo, che le riempiva di lacrime il cavo degli occhi, la piegava a mezzo del corpo e pareva fosse per spezzarla in ogni sussulto. Ma ella diede alla sua debolezza e al suo male l'apparenza dello scherno vittorioso.

- La morte! La morte! - singhiozzò nella gola stridula. - L'ultima posta! Avete ucciso una rondine e prestato un muggito di spavento a quattro buoi troppo placidi.

Ella non poteva domare quel riso che le si partiva dalle viscere, dal più profondo di sé, dall'ignoto abisso della sua sostanza, con un suono inimitabile che pur sembrava falso alla sua anima e a quella di chi l'udiva. E il compagno taceva, senza guardarla, oppresso da un'angoscia annodata come un rancore inerte, che gli impediva di raccogliere l'irrisione e di volgerla in lieve allegrezza.

- Tutto è gioco - disse.

Moderava la corsa. Ora la strada era solitaria; e tutta la pianura in quel punto era una solitudine lontana come una ricordanza musicale, fatta di segni e d'intervalli costanti; ché gli argini verdi e sovr'essi le pallide vie diritte, e i canali molli, i filari di salci di pioppi di gelsi, tutte le linee consentivano a quella dell'orizzonte, in concorde lentezza si prolungavano verso l'infinito. E il regno era del cielo inoccupato; ché qualcosa d'aereo, per tante quiete acque specchianti, alleviava la terra come i grandi occhi alleviano il volto umano.

Sopra la pulsazione del motore e sopra il riso della donna, che parevan salire dalla stessa meccanica inconsapevolezza, egli percepiva il silenzio senza confine. E da quella chiara libertà del cielo sgombro, e da tutte quelle bianche liste ricorrenti per la verdura, e dal balenare delle rondini sul fiso sguardo degli stagni, gli si compose l'imagine del suo volo. E imaginò di condurre non la rapidità che striscia ma quella che si solleva; imaginò di ritrovarsi nella lunga fusoliera che formava il corpo del suo congegno dedàleo tra i due vasti trapezii costrutti di frassino di acciaio e di tela, dietro il ventaglio tremendo dei cilindri irti d'alette, di dai quali girava una forza indicibile come l'aria: l'elica dalle curvature divine.

La donna aveva soffocato il riso, che di tratto in tratto rinasceva come un singulto infantile.

- Credo che siamo folli, Paolo - disse con una voce che si posò sul cuore dell'uomo come una mano cauta in atto d'imprigionare qualcosa che sia per fuggirsi.

Egli rivide in un lampo Isabella Inghirani sotto la tettoia che crepitava alla pioggia primaverile, , fra i rotoli dei fili d'acciaio, fra le lunghe verghe di legno, fra i mucchi dei trucioli, negli stridori della sega, nei gemiti della lima, nei colpi del martello, mentre una tacita febbre umana pareva quasi raggiare intorno al grande airone inanimato che aveva già la tela tesa su le cèntine delle sue ali. Ah, perché d'improvviso quell'opera delicata e misteriosa come il lavoro dei liutai, fatta di pazienza di passione di coraggio, e di eterno sogno e di antica favola, perché era divenuta una incerta carcassa al paragone della somma di vita accorsa da tutti i punti dell'Universo e adunata maravigliosamente su quel volto quasi esangue i cui subiti rossori commovevano come gli accenti sublimi dell'eloquenza e come le grida dei fanciulli? Quanto ingegno teso e ostinato quanta accortezza e destrezza quante prove e riprove nel trovare i modi delle legature, delle giunture, degli innesti! E per qual segreto, a un tratto, ecco, le fragili falangi di quelle dita ripiegate all'angolo di quella bocca socchiusa potevano assumere un valore che aboliva tutto l'acume della ricerca e tutta la gioia dell'invenzione? Egli rivide la visitatrice, poggiata senza peso il gomito contro una costa della fusoliera, presso il timone verticale, sotto una sàrtia rigida d'acciaio, con la mano senza guanto fra la gota e il mento a reggere il viso chino nell'attitudine dell'ascolto, sembrando l'ombra del cappello alato raccogliere l'astuzia molteplice e la seduzione sagace di Mercurio imberbe.

- Ancora pensate male di me, Paolo? O sognate il volo di domani?

Gli parve che in lei corresse un lieve fremito.

- Penso - rispose - a quel giorno che entraste per la prima volta nel mio piccolo cantiere sul prato di Settefonti.

- Me ne ricordo.

Ella risentì gli sguardi timidi e diffidenti degli artieri, il fresco d'una larga gocciola caduta dalla tettoia su la sua mano ignuda, il fruscio dei trucioli all'orlo della sua gonna, il dolore alla caviglia impigliata in un filo d'acciaio, l'odore della vernice e della pioggia, l'ansia dissimulata del suo cuore sotto il suo artificio.

- Entraste come chi apre una porta e comanda a un estraneo: «Lascia tutto e vieni con me». E non dubita dell'obbedienza.

- Sapevo - ella disse - una parola bella e strana come un nome di maga, che significa: «Vieni con me». E non me ne ricordo più.

- Il vostro vero nome.

- Per voi o per tutti?

Subitamente egli patì la bruciatura profonda, senza comprendere, senza riflettere. Or come con una qualunque parola quella voce poteva far tanto male? Come poteva con un solo accento rimescolare tante cose torbide, rappresentare l'oscurità del passato inesplorabile e l'incertezza del domani impuro?

In una carne ch'egli desiderava si converse per lui tutto il desiderio del mondo; e l'immensità della vita e del sogno fu ristretta in un grembo caldo.

Egli la guardò. Così con un colpo di stecca iroso il modellatore scancella nella creta l'effigie, la ragguaglia alla massa informe. Egli agognò ch'ella più non avesse quelle palpebre quella bocca quella gola, ch'ella più non fosse qual era. E rievocò il duro carro i lunghi tronchi protesi all'urto senza scampo.

- Ah, se l'amore, che offendete e abbassate così forsennatamente, si vendicasse di voi e vi torturasse come mi torturate! Se un giorno voi non poteste più dormiresorriderepiangere!

- L'amore, l'amore! - sospirò ella abbandonando indietro il capo, socchiudendo i cigli, rilasciando le braccia e le mani come chi illanguidisce, con la bocca avida, quasi a bere tutto il filtro dell'estate dalla tazza riversa del cielo coronata di foglie. - Se sapeste come amo l'amore, Paolo!

Proferì queste parole inchinando il viso velato verso il compagno, con un accento ch'era simile a un sapore e a un sentore segreti, quasi che la voce per giungere alle labbra avesse attraversato la più profonda sensualità. Egli impallidì. Fu diminuito; fu rotto come un sermento che debba esser gettato nella fiamma con altri mille. Per lui il desiderio era quell'elezione irrevocabile, che di quelle due braccia faceva il luogo unico della luce e del respiro. Ma il desiderio di lei era senza cerchio senza limite senza tempo come il male dell'essere e la malinconia della terra.

- L'amore è il dono - disse egli.

- È l'attesa - disse ella.

- Non l'indugio perverso. A ogni ora voi siete per donarvi e vi rattenete, siete per concedervi e vi negate. Fin da quel giorno, sotto la tettoia, girando intorno alle ali morte, simulaste nel passo i movimenti della voluttà.

- I vostri occhi sono malati.

Egli la rivedeva ondoleggiare intorno al grande apparecchio aereo, con la pieghevolezza quasi fluida delle malvage murene prigioniere nell'acquario.

- Perché vi lamentate sempre come un bambino capriccioso, voi che mi piaceste soltanto come l'amico del pericolo? Pensate che io sono il vostro più gran pericolo, Tarsis. L'amore che io amo è quello che non si stanca di ripetere: «Fammi più male, fammi sempre più male». Non eviterò mai nessuna pena, né a voi né a me. Fuggite, giacché avete le ali, giacché studiate il vento.

Ella non sorrideva; ma sembrava che s'appoggiasse su ogni parola come per comunicare a ciascuna il suo proprio peso, il peso della sua potenza e della sua imperfezione e di tutto l'ignoto ch'ella portava dentro. E gli stridi delle rondini su per gli stagni le fendevano l'anima come il diamante fende il vetro, e dubbio è qual dei due strida.

- Amico, amico, - ella proruppe, di subito invasa da uno scoraggiamento ansioso, quasi che la corsa rallentata e il giorno declinante le diminuissero il respiro - no, non m'ascoltate, non mi rispondete. Non parlate più, non voglio più parlare. Non vi farò mai tanto male quanto ne fa a me la più piccola di quelle foglie, e tutto questo cielo!

Divine erano la dolcezza e la tristezza del giorno su la pace della pianura ove le ombre e le acque e l'arte agreste avean composta una ordinanza tanto semplice, che pareva condotta secondo il flauto di tre note tagliato nella canna palustre. I salci spogli, con una lieve ghirlanda di frondi in sommo, miravano negli stagni riflesso un aspetto tanto socievole, che pareva si fosser già tenuti per mano e allora allor disgiunti dopo una danza serena. E tanto eran fresche le ninfee nei canali, che la donna credeva sentirne l'umidità intorno ai suoi propri occhi arsi.

- Aldo e Vana saranno ancora molto indietro? - domandò ella con un'ansia oscura che non si placava.

- Ci raggiungeranno.

- Andiamo! Andiamo!

Paolo Tarsis accelerò la corsa. Il vortice di polvere, il rombo guerresco, l'ululo della sirena respinsero la mite e straziante melodia. Apparivano in lontananza le mura rossastre, i baluardi salienti, le torri quadrangolari della città forte.

- Mia sorella non vi piaceva più di me, prima? - disse ella ancora, con un tono acre di provocazione, sollevando gli angoli della bocca a fiore delle gengive nel sorriso irritato e come sospeso sopra un poco di sangue roseo.

- Non volevate più parlare, Isabella.

Una inquietudine intollerabile agitava la donna, come s'ella dovesse dire e fare qualche cosa che sola in quel punto era consentanea a sé e al tutto ma non potesse né dire né far quella, anzi la contrariasse con ogni pensiero con ogni parola con ogni movimento e perfino col polso col respiro. E stava curva come sotto la tempesta, come per comprimere la sua vita e opporsi a un salire subitaneo di onde, ch'ella non sapeva se recassero il bisogno di ridere o di piangere. E, provando un dolor sordo alle scapole, propagava ella medesima quel dolore fino alle dita dei suoi piedi e delle sue mani, con la pietà d'esso dolore. Ed ecco, la stanchezza la occupava come il nero peso d'un sonnifero, e le dava una voglia accorata di piegare il capo su la spalla del compagno e di dimenticarsi in un letargo senza fine. Ed ecco, tutte le forze del suo desiderio con tutte le imagini della voluttà le balzavano dentro e rotavano in una vertigine di delirio.

- È il più lungo giorno - esclamò, come chi si risvegli nel sussulto del ricordarsi. - Oggi è il più lungo giorno, è il solstizio d'estate. Non lo sapete?

E per alcuni attimi aspettò che la mano sinistra del compagno lasciasse il volante e la toccasse, nella speranza impetuosa che una novità nascesse da quel tocco. E tutta la sua anima si dibatteva sbigottita con un fremito innumerevole come se tutte quelle rondini vive fossero prese in una rete sola e nel terrore si rompessero le penne.

Contratto egli taceva, intento a dominare sé stesso, la sua macchina fida e infida. Ed ella volle guardarlo deformato nel rame del fanale; e più parole crudeli trovò per ferirlo, e non ne scelse alcuna ma le contenne e n'accrebbe il suo rancore. E cercò qualche altra cosa da opporre a quel male, da gettare a quella specie d'insana fame, che distruggeva in lei l'intera massa della vita vissuta e non le lasciava su la lingua se non un gusto di sangue e di polvere.

Allora le ingiurie rauche e i pugni tesi dei cozzoni di cavalli le raddrizzarono in un sussulto energico le reni indolenzite.

- Avanti! Non vi fermate! Avanti!

La mandra scalpitava sprangava s'impennava intorno alla macchina fragorosa: lunghe criniere, lunghe code arrossate dall'intemperie; teste montonine con la favilla bianca dello spavento nell'angolo dell'occchio; poledri villosi come orsatti, su le alte gambe gracili; e l'urto degli zoccoli, e l'onda delle groppe, e l'odor selvaggio nel soffocante nuvolo.

- Muoio di sete - ella disse, quando il tumulto e il clamore furono superati. - Ho sete di quell'acqua verde; ho voglia d'inginocchiarmi sul margine e di tuffare il viso tra due ninfee.

Ella sollevò il velo, mostrò il viso nudo. Egli si volse a guardarla, con qualcosa di cavo nel petto, ch'era come l'impronta di quella nudità sempre nuova. Ella si prendeva le labbra tra i denti alternamente, inumidendole d'una stilla tratta con uno sforzo penoso dal fondo della gola. E i suoi occhi parevano aver perduta la pupilla, erano senza centro, pieni d'un tremolio chiaro di forze che scaturivano dal buio come il gorgoglio delle dure polle nel letto delle fontane; e il segno nero nell'orlo della palpebra inferiore, segnato dall'arte mattutina, persisteva netto rilevando l'inumana chiarità delle indi, allargando la larga orbita, appassionando la bellezza per la volontà di farsi più acuta.

- Ah, che cielo! Non lo vedete?

Era pallido il cielo, quasi candido, con un'apparenza eguale, eppure per ovunque variato come una mescolanza indefinita di ardori che salissero dalla terra e scendessero dal sommo, come una fluttuazione continua di cose diafane e sensibili che quella faccia riversa ricevesse su i cigli e con un battito di cigli rimandasse fino ai limiti del silenzio.

- Che faremo?

La sua ansia le diceva che il suo destino era sospeso nella luce del più lungo giorno. Ella aveva dinanzi a sé l'imagine della sua felicità riversa come la sua faccia nell'atto di mordere il dolore simile a un frutto maturo che la bagnasse di succo vermiglio. E non sapeva se volesse continuare senza termine quella corsa o se volesse fare una sosta in una solitudine sconosciuta. Il pensiero involontario incurvava la sua spalla secondo la forma del braccio maschile.

- Aspetteremo Vana e Aldo sotto la porta?

Appariva un'esèdra rossa su un prato sparso di gelsi ove pascolavano i cavalli bai. Dinanzi erano le mura della città fendute di feritoie.

- Paolo, Paolo, - disse ella abbandonandosi perdutamente a quell'ansia ch'ella non dominava più - vi prego, fermiamoci a vedere la reggia. Bisogna ch'io la veda. È la reggia d'Isabella. Sarà ancora aperta a quest'ora? Voglio, voglio entrare a qualunque costo. Vi prego. Bisogna che oggi io la veda. Fatemi questo dono!

L'ambiguo suo tormento e il suo furore di voluttà e la sua riluttanza e il suo orgoglio e la sua stanchezza e la sua sete ora a un tratto si dissolvevano e si confondevano in una visione allucinante dell'amore su la ruina. Ella guardò l'inchinato sole per fermarlo col suo voto.

- È la reggia d'Isabella. Bisogna ch'io la veda.

- Forse è tardi.

- Non è tardi.

- Son passate le sei.

- Il giorno dura fino alle nove, oggi.

- Il custode non ci aprirà.

- Bisogna che apra. Voglio.

- Proviamo.

- Sono certa. Voglio.

La macchina s'arrestò alla porta. I doganieri s'appressarono. Nel rombo assordante, ella chinò verso di loro la sua faccia che ardeva tra le due ali come illuminata dall'ispirazione. Anelava.

- Dov'è la reggia?

Un di loro attonito indicò la via. Taciturna e quasi deserta era la città distesa nella sua palude e nella sua tristezza. Le memorie la empivano d'un silenzio che le rondini laceravano con le strida e traevano a lembi nei loro piccoli artigli pel cielo argentino.

- E Vana? E Aldo?

- Certo, giunti alla porta, domanderanno se siamo passati.

- Domanderanno? Ecco la piazza!

La piazza era solitaria e lunga, fra palagi e torri e moli sacre, con grandi ombre respiranti in una storia di magnificenza, di gentilezza, di lussuria, di tradimento e di uccisione. Le rondini vi gettavano un clamore quasi deliro. La reggia era chiusa. E parve alla creatura febrile che chiuso vi fosse il suo più profondo destino. Ella balzò a terra, anelante; e, simile alla figlia scacciata che ritorna in demenza, si pose a battere l'imposta coi due pugni chiusi.

- Ma che furia! Isabella, vi farete male alle dita. Certo, così spaventerete il custode che rifiuterà di lasciar entrare a quest'ora una piccola folle polverosa.

Paolo rideva, rapito tuttavia da quella vitalità volubile, da quella diversità d'aspetti e d'accenti, da quell'ardore e da quel tumulto che del luogo ov'ella era sembravano fare il punto più sensibile dell'Universo.

- C'è il campanello - disse una voce timida. Ed entrambi soltanto allora si accorsero che dietro i due sedili emergeva, di mezzo a un cumulo di cerchioni sovrapposti, il meccanico trasfigurato dalla polvere in un busto di gesso parlante.

L'impaziente si maravigliò, poi rise. Cercò il campanello, tirò con tutta la forza. Il tintinno si propagò nell'ignoto. S'udì un passo, un borbottio, uno scrocco di chiave; l'imposta s'aprì; il custode apparve su la soglia. Barbuto e canuto, era la figura volgare del Tempo senza clessidrafalce. Non gli diede agio d'aprir bocca ella, ma subito lo avvolse nella sua implorazione irresistibile.

- Lasciateci entrare! Siamo di passaggio. Ripartiamo prima di notte. Non torneremo forse mai più. Vi prego, vi prego! Nessuno vede, nulla può accadere. Lasciate che entriamo, per un'occhiata almeno! Mi chiamo Isabella.

Più di quella grazia infantile e di quella calda voce supplichevole e di quel nome dominante valse l'offerta del compagno. Il Tempo sorrise nella barba gialliccia, e si scansò.

Allora ella si tolse il velo, si tolse il mantello; e tanta fu la luce de' suoi giovani occhi, che per qualche attimo ella sembrò vestita di quella sola. Ma, quando ella si mise per la vasta scala, Paolo Tarsis udì in sé i colpi sordi del suo cuore come se la portasse su le sue braccia: pesante? leggera? Anche il corpo di lei era ingannevole, quasi duplice, come dissimulato e rivelato in una perpetua vicenda. Ecco, ella saliva di grado in grado con una pieghevolezza che pareva allungarle ancor più le gambe, attenuarle i fianchi, assottigliarle la cintura; era magra snella veloce come un giovinetto allenato alla corsa. Ecco, ella si soffermava sul ripiano traendo un gran respiro; e l'occhio a un tratto si stupiva nello scoprire la larghezza delle sue spalle, la profondità del suo torace, la potenza delle sue reni, la rettitudine della sua ossatura su i piedi non piccoli ma dal fiosso arcuato così che si equilibravano sul calcagno e sul pollice come quelli della Libica michelangiolesca.

Si soffermò ella; poi fece qualche passo verso la prima sala. Il gioco dei suoi ginocchi creava nella sua gonna una specie di eleganza interiore, una grazia alterna che di dentro animava ogni piega. Ancora si soffermò, senza più traccia di sorriso e d'allegrezza, come oppressa da un presentimento troppo grave, con le palpebre basse. L'amico era poco discosto, occupato da un'angoscia che pareva tutto abolire in lui e non lasciargli se non la possibilità d'un sol gesto nelle braccia pendenti ove si addensava l'attesa. Non lo guardava ella ma assisteva nel suo proprio corpo al fluire e all'adunarsi d'un mistero ch'ella non dominava e che pure le apparteneva più dell'intima sua midolla.

E all'improvviso dal suo corpo, dalla sua grazia, dalla sua potenza, dalle pieghe della sua veste, da tutte le linee della sua persona, da quel ch'era la sua vita e da quel ch'era apposto alla sua vita - con la fatalità dell'acqua che va alla china, del vapore che tende all'alto - si formò qualcosa di breve e d'infinito, qualcosa di fuggevole e di eterno, di consueto e d'incomparabile: lo sguardo, quello sguardo.

E fu tutto. E si presero per mano, trascolorati, senza parola, vinti da un amore ch'era più grande del loro amore, come per entrare nella casa della loro unica anima o delle loro ombre congiunte. La lor felicità terribile non più si tendeva a mordere il dolore ma ad ascoltare il grido della bellezza dilaniata e derelitta. Pareti e volte decrepite; vecchie tele sfondate; tavole e seggiole sgangherate dalle gambe d'oro misere; tappezzerie lacere accanto a intonachi che si scrostavano, a mattoni che si sgretolavano; vasti letti pomposi riflessi da specchi foschi; impalcature alzate a reggere i soffitti; e l'odore della muffa risecca e l'odore della calcina fresca; e pel vano d'una finestra due torri rosse nel cielo, un cigolio di passeri, uno schiamazzo di monelli; e pel vano d'un'altra una strada deserta, una chiesa senza preghiere, il picchierellare di due stampelle; e appeso un lampadario a gocciole di cristallo, e obliqua una striscia di sole sul pavimento; e un altro lampadario e un'altra striscia, e più triste la cosa lucida che l'estinta; e ancora lampadarii in fila, guasti, pencolanti, simili a fragili scheletri congelati. O desolazione, desolazione senza bellezza! «Che faremo noi dell'anima nostra?»

- Un giardino! - gridò la visitatrice traendo verso la finestra il compagno, per una sala ampliata dalle imagini dei Fiumi.

Ed entrambi s'affacciarono. Non disgiunsero le mani; stettero in ascolto come per cogliere vaghe onde di musica.

Era un giardino pensile, chiuso da un gentile portico palladiano a colonne bine; le quali apparivano più quiete perché quivi duravano in coppie costanti e, avendo tra i loro fusti un intervallo eguale, potevano ravvicinarsi nella fedeltà delle lor lunghe ombre. Piante varie v'erano confuse, arbusti e cespi vi s'affoltavano; ma tutto il verde non valeva se non per sostenere il languore appassionato di qualche rosa bianca.

Quando Paolo accostò il suo viso a quello desiderato, così che l'alito si mescolò all'alito, l'amica si ritrasse e si rivolse e guardò dietro di sé. Poi fece, sommessa, con la bocca molle:

- No. Ce n'è un altro, più bello.

Credeva di udire il preludio indistinto d'una musica che tra breve fosse per irrompere con la veemenza del torrente.

Varcarono una soglia; e li coperse il cupo azzurro d'un cielo notturno ove i segni zodiacali scintillarono riflettendosi nell'acqua stagnante degli specchi. Per la finestra saliva il profumo cocente e possente della magnolia, ebrezza delle costellazioni.

- Un altro giardino?

Era un triste cortile abbandonato. E i lampadarii di pallido vetro riapparvero in sale pompose e vuote; e riapparvero i letti insonni; e le vecchie tele cieche rossicarono e nereggiarono su le mura delle lunghe gallerie, simili alle pelli bovine tese e appese dai conciatori; e il coro dei passeri dagli émbrici rotti cigolò giù per le armature sconnesse delle travi, giù pei travicelli attraversati, giù pei graticci sfondati dei palchi in ruina; e tutto fu ancora desolazione senza bellezza.

- Vana! Aldo e Vana!

Lo sbigottimento spegneva il grido d'Isabella. Vedeva ella venirle incontro, pel silenzio d'una stanza occupata dall'ombra di un tetto lugubre come un feretro, due creature silenziose e fisse come quelle che senza pianto dal fondo della loro stessa vita vanno incontro al destino lacrimabile.

- Aldo, Vana, siete voi? siete voi?

- No, Isabella. Siamo noi, nello specchio. Perché tremate così?

- Noi!

Era un alto cristallo che, in bilico tra due colonnette, rasentava il pavimento specchiando l'intera persona diritta in piedi. Il fascino n'emanava come da un parallelogrammo magico.

- Perché tremate così?

Vinta e riluttante, ella si appressava all'imagine traendo per la mano il compagno inquieto; entrava nell'ombra funerea del letto; fisa, non riconosceva il suo sguardo in quegli occhi che la guardavano quasi nudati, quasi privi di cigli, privi di battito, immensi, più misteriosi della tomba, misteriosi come la follia.

- No, no! Ho paura.

Ella balzò lontano, fuggì per le stanze contigue, sotto cieli d'oro e d'oltremare, sotto cieli dolci come le turchine malate e le dorature sdorate, sotto pallide ricchezze diffuse e sospese, sotto un silenzio scolpito e inevitabile.

- Isabella!

La desolazione si trasfigurava. Si mutavano ora in lembi di melodia patetici come i gridi del desiderio e dello spasimo le vaghe onde di musica ondeggianti intorno alle rose bianche dell'orto pensile. La ruina, liberata dai vestigi della vanità e della miseria intruse, respirava nell'antica grandezza per tutte le bocche delle sue ferite, respirava e soffriva e moriva anelante verso il più lungo giorno. Tutti i segni erano eloquenti, tutti i fantasmi cantavano. Le Vittorie mostravano l'anima di ferro sotto gli stucchi disgregati, e non più la corona fronzuta tendevano ma il cerchio di rugginoso ferro. Le Aquile sublimi abbrancavano i festoni di frutti putrefatti e caduchi.

- Isabella!

Ella andava andava, esitando tra l'una e l'altra stanza, non sapendo in quale l'anima sua fosse per trarre un più profondo sospiro. E le stanze si moltiplicavano; e la bellezza si avvicendava con la ruina, e la ruina era più bella della bellezza. E gli occhi si dilatavano per tutto vedere, per tutto accogliere; e l'intero viso viveva la vita dello sguardo. E l'anima si ricordava; ché le forme scomparse rinascevano e si ricomponevano in lei musicalmente, e traeva essa la gioia della perfezione da ciò ch'era imperfetto, la gioia della pienezza da ciò ch'era menomato. E il giorno era protratto dal prodigio ma nessun indugio era concesso; e su ogni soglia il piede si posava temendo il divieto ma lontana era tuttavia la soglia della sera.

- C'è in un altro giardino, - diceva ella errando - un altro giardino.

E attraverso una grata apparve una corte ingombra di macerie e d'erbe fra mura fendute ove rimanevano tracce di ornati dipinti a nodi; e oltre le mura una zona di palude rifulse, e riudito fu lo stridio delle rondini, e traudito fu il gracidio delle rane nel cielo nell'acqua in un solo ardore indistinto. E la straziante Estate chiamò, tra l'una e l'altra voce.

- Non è questo.

Ella vacillava sul pavimento sconnesso, ancor qua e inverdito dallo stillicidio; e sopra lei le macchie pluviali scurivano i lacunari azzurri del soffitto ove un coro più nobile e più solido di tutti gli ori s'ammassava in volute in rosoni in pigne scolpite con robustezza romana. Le Sirene s'incurvavano, tra i fogliami sporgenti come le mammelle dei bei mostri marini, in un fregio di così forte rilievo che eguagliava la misura dei grandi versi memorabili. Lungo gli stipiti delle alte finestre le Vittorie tendevano all'estremità dei moncherini i cerchi di ferro rugginoso.

- No, Paolo, no! Non qui, non qui! Vi supplico. Ella sfuggiva alle mani tremanti del compagno. Gli mostrava un viso che pareva decomporsi e ricomporsi come nella vicenda del terrore e dell'ebrezza. Ed entrambi, da una soglia all'altra, dalla luce all'ombra, dall'ombra alla luce, perseguitavano la loro angoscia senza fine.

- È questo? - disse Paolo chinandosi a un davanzale.

Era la squallida memoria d'un altro giardino pensile, ingombro di ortiche di rottami di vecchie docce contorte. Un Tritone sonava la buccina su una parete forata e maculata; qualche papavero ardeva qua e come una fiammella spersa. Più nere parevano le rondini in un cielo più lontano.

- Ci può essere una cosa più triste in terra? disse la donna ritraendosi.

Ricominciava la desolazione: la cappa demolita d'un camino nera di fumo; una serie di finestre murate; un corridoio cosparso di calcinacci; un'aula biancastra con su le pareti le tracce del lordume umano e dei tramezzi sovrapposti; una scala di pietra consunta; e un altro corridoio simile alla corsia d'un ospedale evacuato; e poi un'altra scala immensa, discendente fra nicchie deserte a un'orrida porta fatta di assi sconnesse e di travi traverse, che pur pareva più inespugnabile del triplice bronzo, inchiodata sopra un varco senza nome.

- Isabella!

- Ho paura, ho paura.

Ella aveva in sommo della gola l'atroce pulsazione della sua vita. Perduta era entro di sé, fuori di sé.

- Dove siamo? Si fa sera?

Egli l'aveva ancora presa per la mano come per condurla; e dentro di sé e fuori di sé era perduto. Camminavano sul loro stesso tremito come su una corda tesa e oscillante.

- Ah, non posso più.

Chi dei due aveva esalato quell'anelito? Ancor due erano le bocche ma una era l'ambascia, e le loro due forze confuse non la sostenevano.

- Non posso più.

D'improvviso rientravano nell'azzurro e nell'oro, riudivano la melodia dominante, rivedevano splendere il più lungo giorno.

- Forse forse forse...

Verso l'oro e l'azzurro ella aveva levato la faccia; e la sua stessa anima era diffusa sul suo capo ricca e inestricabile, effigiata nelle sue mille ambagi. Ella leggeva con gli occhi torbidi la parola spaventosa inscritta innumerevoli volte, tra le vie dedàlee, nei campi oltremarini.

- Forse forse forse...

Gli disse quella parola entro la bocca, sotto la lingua; gliela disse entro la gola, alla sommità del cuore; ché egli le aveva preso con le dita il mento e con le labbra il fiato, il più profondo fiato, quello che sanno le vene i sogni i pensieri.

Allora furono due creature che allucinate e riarse per un deserto di mobili dune giungono col medesimo anelito alla cisterna occulta e insieme vi discendono, vi si precipitano, si protendono verso l'acqua che non vedono, nell'angustia si urtano, si dibattono; e ciascuna vuol bere prima e di più, e sente dietro le sue labbra molli crescere la rabbia mordace, e l'ombra e l'acqua e il sangue sono al suo delirio un solo sapore notturno.

Egli bevve il primo sorso, ché un succo divino riempì d'un tratto sino ai margini il calice nudo; e, per non perderne una stilla, egli reggendo con le dita il mento pose l'altra mano dietro la nuca, di sotto alle ali, e tenne il bel capo come si tiene un vaso senza anse. E teneva forte, serrava troppo forte, inspirando l'istinto alla sua bramosia l'atto di spremere, il primissimo gesto insorto dalla cecità del nato d'uomo; ché gli sembrava di nutrire per la prima volta la sua più profonda innocenza.

Ella si vuotò di dolcezza, si fece tutta vacua e lieve come se un'aria calda circolasse nella concavità delle sue ossa prive della midolla insensibile; e un gemito sommesso, quasi una implorazione senza suono, accompagnava quel miracolo. Ma, quando si sentì distrutta sino al fondo, volle rinascere; e scosse un poco il capo per allentare la presa e liberò dalle labbra le labbra e le riattaccò sovrapposte per avere quel che aveva donato. E la vicenda si fece cruda come una lotta di feritori; ché l'una e l'altro cercavano giungere qualcosa d'ancor più vivo e segreto, i precordii, gli spiriti balzanti dell'intima vita. Ed entrambi sentivano la durezza dei denti nelle gengive che sanguinavano. E arrossato da una sola piccola goccia era tutto il fiume carnale che fluiva sul mondo.

Un lento fiume si partiva da loro, generato da quella congiunzione, da quell'immensità di gioia ch'essi avevano contenuta sino a quel punto inconsapevoli. Inondava la reggia, passava per le innumerevoli soglie ov'era passata la loro angoscia, traeva seco tutti i resti della bellezza, sboccava nei giardini ch'essi avevano contemplato e in quelli ch'eran rimasti invisibili, traversava la palude, solcava la pianura, si perdeva senza foce nell'estate senza confine. E il gemito sommesso, debole come il fiotto d'un bambino infermo, accompagnava il miracolo; ché, pur mordendo, la donna non cessò da quella implorazione quasi senza suono, onde la voluttà pareva soffusa di dolore e velato di pietà il combattimento.

- Non più.

- Ancóra! Ancóra!

- Non più.

Un gran sobbalzo la distaccò dall'amante. E le sue palpebre gravi battevano per respingere la nube addensata, per riacquistare il lume, per distinguere il fantasma dalla presenza certa. Era ancora l'imagine nello specchio? era ancora lo sguardo della follia negli occhi suoi divenuti estranei? era il pallore stesso della sua perdizione, quello? Ah, non credeva di poter essere tanto livida!

Era Vana, Vana nel colore della morte ma respirante, appoggiata contro lo stipite come chi sia per stramazzare, aperta gli occhi come chi non possa più serrarli. Era la sua piccola sorella.

E la voce di Vana era quella che parlava, se bene irriconoscibile. Con affannosa rapidità Vana, senza potere anco muoversi, disse:

- Ora viene Aldo.

S'udiva il passo del fratello nella stanza contigua. Lo sforzo della dissimulazione fu concorde. L'adolescente apparve su la soglia corrucciato.

- Ah, siete qui? Vi troviamo finalmente! Avreste ben potuto aspettarci, o almeno degnarvi di lasciar detto qualcosa per noi alla Porta Pusterla.

- Credevamo che tu fossi per raggiungerci - rispose Isabella, domato il turbamento. - C'era parso di udire la tua cornetta, Aldo. E abbiamo pur lasciato il custode giù.

- Sorte che Vana è indovina! Per tutta la strada non abbiamo fatto che mangiar polvere.

- Al momento di partire non t'ho io proposto d'andare avanti? - disse Paolo Tarsis.

- Ma tu hai una torpedine da corsa e io ho una testuggine di palude.

- Ottima per questo paese, dunque.

Paolo desiderò di scomparire, di ritrovarsi in qualsiasi parte ma lontano. In quella falsa gaiezza si risolveva la sua gioia di porpora.

- Piccolo, via, non mi tener broncio. Sei sempre scontento - disse Isabella, morbida, lisciando con l'anulare i fini sopraccigli del fratello velati come di cipria.

- Isa, promettimi che vieni con me pel resto della strada e mandi Morìccica con Paolo.

- Sì, se vuoi.

- Voglio, voglio.

- Ah, come ti vizio! Che hai nei denti?

- Che ho?

Ella serrò la bocca e di sotto fece scorrere su i denti rapida la lingua.

- Anche nel labbro.

- Che ho?

- Un po' di sangue.

- Sangue?

Ella cercava il fazzoletto; e si traeva indietro con moti quasi coperti, chinando sotto le ali ferrugigne il viso ch'ella credeva di fiamma. Con una tenerezza accigliata ch'era una crudeltà inconsapevole, il fratello insisteva da presso; stendeva la mano verso di lei; le prendeva tra il pollice e l'indice il labbro inferiore; diceva:

- Hai un piccolo taglio.

Involontariamente Paolo si volse dall'altra parte, con l'atto di guardare sul camino di marmo rosso lo specchio barocco in una ghirlanda di amorini alati, stretto dall'ansia, temendo che su lui apparisse la medesima traccia. Scorse il capo di Vana alzato verso il labirinto del soffitto e percosso da un fascio di luce sinistra. Con un colpo sordo nel cuore, udì l'accento della voce ammirabile nella menzogna. Conobbe la nuova qualità di quella voce, che diceva:

- Ah, sì, forse, quando son caduta dianzi, laggiù, mettendo il piede in una buca dell'ammattonato...

Ed ella cercava il fazzoletto per coprirsi la bocca, come se le fosse tutta una ferita cocente.

- Tieni - disse Vana porgendole il suo.

Era rimasta col capo levato verso il soffitto, come assorta, come attenta a udire il custode narrarle l'avventura di Vincenzo Gonzaga, che illustrava l'emblema parlante; ma non aveva mai distolto dalla sorella lo sguardo obliquo, quell'iride chiaraduramente torta nell'angolo delle palpebre. E Paolo vide nel fascio di luce il risalto del bianco, intenso come smalto, su la stretta faccia olivastra; vide quella mano tesa. E nella faccia e nella mano era tanta forza d'espressione e d'illuminazione, ch'elle parevano sorpassare la realtà e intagliarsi nel cielo stesso del fato, come quando il crinale delle Dolomiti solo arde nei crepuscoli inciso contro tutta l'ombra e ciascuno dei suoi rilievi s'addentra nell'anima di chi mira e vi s'eterna.

- Forse che sì forse che no - disse l'adolescente con una voce ch'era già velata dalla malinconia, leggendo il motto inscritto negli intervalli dello scolpito errore. - Perché, Isa, tra l'uno e l'altro Forse c'è un ramoscello e non un'ala, non la tua ala, Tarsis? L'ala di Dedalo o il filo di Arianna. Perché dunque un ramoscello?

- Non so - rispose la bocca baciata.

- Non so - rispose il costruttore d'ali incatenato alla terra.

- Perché, Morìccica?

- Non so - rispose la vergine oscura che aveva voluto esser macchiata dalla goccia del sangue voluttuoso.

- Non so - rispose a sé medesimo l'adolescente oppresso dai suoi anni così pochi e così carichi d'ignota pena.

E non sapevano; e in ciascuno era una strana esitanza a uscire da quel luogo, a volgersi altrove, ad andare avanti o a tornare indietro, come se dall'alto le liste d'oro si prolungassero in una zona pieghevole che invisibilmente li circuisse e li annodasse di continuo.

- Andiamo - disse Aldo ponendo il braccio sotto quello d'Isabella. - Io voglio vedere il Paradiso, e nulla più.

Quando per la scaletta di tredici gradini il custode li condusse agli scrigni della principessa estense, quando riudirono la rondine stridere nella perla sospesa del giorno, la potenza chimerica della vita li percosse tutti nel mezzo del cuore, quivi fece più crudamente dolere i mali e i sogni inconfessabili. E l'uomo nel rigoglio della virilità esperto d'ogni rischio e d'ogni meta, immune da ogni paura e da ogni abitudine, armato di diffidenza e di dispregio, che aveva conosciuto giorni innumerevoli in cui la disciplina della sua virtù piantata su le due calcagna gli bastava a vivere, guardò il periglioso ingombro del corpo omai promesso e oppose al presentimento della sciagura l'imagine dell'orgia liberatrice, memore del marinaio disceso nel porto per ripartir più leggero domani verso l'oceano; e gli gonfiò le vene l'impazienza di saziarsi. Non ignara del piacere e bisognosa di gioire soffrendo, smaniosa di sporgersi all'orlo delle tentazioni più ripide, con un cuore temente e temerario, soave e spietato, la donna aspirava intorno a sé l'ardore delle anime simile all'odore sulfureo dell'uragano; e non formava alcun disegno, non si preparava contro l'impreveduto; pesava sul ritmo de' suoi ginocchi la divina bestialità del suo corpo, covava la sua astuzia e la sua lussuria nel suo calore più profondo. Ma la vergine e l'adolescente non avevano difesa contro lo strazio, non contro il profumo della magnolia, non contro la pallidezza della palude, né contro l'estasi dell'aria, pieni entrambi di forze discordi che facevano un cupo tumulto disperdendosi e risollevandosi a ogni soffio intorno un'ombra, che forse aveva una sembianza da non poter essere guardata fisamente senza terrore.

- Ecco il mio giardino - disse Isabella piegandosi sul davanzale, con l'accento medesimo ond'ella avrebbe detto all'inizio d'una confessione impetuosa: «Ecco la mia colpa, ecco la mia gloria».

Un'ebrezza perversa si partiva da lei, mista di spontaneità e d'artifizio, espressa ora col viso nudo ora con la maschera, ora con l'affettazione dell'attrice sapiente ora con la più ignara grazia animale.

- Te l'imaginavi così, Aldo?

Al fianco di lei si piegava il fratello, cingendole col braccio la cintura, su la pietra calda.

- Guarda, Morìccica. Guardate, Tarsis.

Vana e Paolo s'appressarono; ed ella si scansò perché giungessero a scoprire i rosai. Attirò Vana contro sé per sentirla fremere; e sul capo chino di lei fece passare il suo sguardo verso l'amante, uno sguardo che non era un baleno ma qualcosa che pesava, che colava come una materia fusa. E stavano tutt'e quattro in un gruppo, nel calore, nell'odore, invasi da un intorpidimento leggero che somigliava il principio di un incantesimo.

Anche il giardino era intorpidito, quasi imbiutato d'un silenzio pingue come il miele come la cera come la gomma. Era un abbandono e una tristezza che si consumavano in profumo tardo. Gli spiriti dell'olio si sprigionavano dal cociore dello spigo e del rosmarino; le albicocche pendevano mézze nella fronda floscia, qualcuna sfatta, aperta sul nòcciolo, stillante; i rosai non potati avevano sprocchi tanto lunghi e teneri, che s'incurvavano sotto una rosa scempia; e la pallida palude vergiliana appariva di dagli alti gigli tanto ricchi di polline che n'eran lordi.

- Quando io vivevo - disse piano l'incantatrice, col volto quasi vaporato dalla squisitezza del sorriso - il mio giardino era pieno di pecchie e di camaleonti.

Un'ape entrò, sonora. Gli occhi dell'adolescente la seguirono con una maraviglia che rese straordinario il volo. Tutt'e quattro, raccolti nello strombo della finestra, ascoltarono il lungo errante ronzo. Poi si guardarono tra loro fuggevolmente, e videro che tutt'e quattro avevano gli occhi chiari ma diversi, attoniti come se questa simiglianza dissimile scoprissero per la prima volta.

- Ah, come sapevo vivere! - soggiunse Isabella affascinata dal suo gioco stesso. - Nelle mie piccole stanze, sul margine dei miei stagni pigri, possedevo i sogni delle città famose. Vedete, vedete: quelle del settentrione e quelle del mezzogiorno, le brune e le bionde, le grige e le bianche...

E apparivano nelle lunette le piante dipinte delle città circondate di mura e di torri, bagnate dal mare, attraversate dal fiume, fondate sul monte: Parise e Gerusalemme, Ulma e Lisbona, Berna e Marsiglia; e quelle che sono per le imaginazioni degli uomini come gli aromi gli ozii le febbri i filtri le danze: Algeri, Toledo, Messina, Malta, l'egizia Alessandria.

- Isa, Isa, - sospirava l'adolescente - perché non siamo stanotte nella vecchia Algeri, su una terrazza bianca, vestiti di seta, con molti cuscini, con molte bevande, con qualcuno che ci canti qualche lunga storia che noi s'ascolti e non s'intenda?

- Taci, taci - ella disse con l'indice su la bocca, avanzandosi lievemente verso l'altra soglia. - Ascolta l'ape.

L'artefice studiosa era passata nella saletta contigua; e il bombo pareva cambiar tono, farsi più sonoro, come moltiplicato da una tavola armonica, simulando il vibrare della corda bassa.

- Ascolta, che musica!

- Suona la viola bordona - disse Aldo, sommesso, appressandosi in punta di piedi, tratto dall'istinto mimico dell'adorazione a imitare i modi della sorella.

Si sporse dalla soglia l'incantatrice, poggiando le mani all'uno e all'altro stipite; guardò intorno, guardò in alto; poi senza parlare volse la faccia irradiata dal riflesso del tesoro scoperto. E tutti gli occhi chiari intorno ricevettero il grande bagliore.

Entravano nella cassa dorata d'un clavicembalo? entravano in una teca votiva lavorata dal principe degli orafi per custodire gli avorii miracolosi dell'arpa di santa Cecilia? Il bombo dell'ape era come la vibrazione della corda sotto la penna di corvo in una cadenza allungata; ma il silenzio era come il silenzio che vive dentro i reliquiarii.

- Isabella! Isabella! - ripeteva l'adolescente, abbagliato, leggendo per ovunque il nome della divina estense.

E la sorella con un sorriso di felicità infantile guardava attorno interrogando lo stupore di ognuno, come per una foggia della sua eleganza, come quando metteva una bella veste nuova e chiedeva: «Ti piace? Vi piace? È tutta mia l'invenzione».

- Quando io vivevo - disse piano - qui si faceva musica, verso quest'ora. Te ne ricordi, Vanina?

- Io me ne ricordo - disse Aldo, movendo a vuoto le dita della sinistra come usava lungo il manico del suo violoncello. - Forse la mia viola da gamba è ancora chiusa , in quello stipo.

Più delicata della filigrana era l'opera del soffitto, intorno all'arme delle due aquile e dei tre gigli d'oro. Alle pareti erano gli stipi per gli strumenti e per le intavolature, e nel legno figurati a tarsia il dolzemele il buonaccordo la viola la virginale l'arpa, e miste alle figure musicali erano strane imagini di palagi e di verzieri come per significare i luoghi inesistenti, a cui sul fiume della melodia l'anima anela pur dal più lieto dei soggiorni. E, quivi anche, sopra uno stendardetto era intarsiato il nome soave.

- Certo è , la tua viola - assentì l'incantatrice, con gli occhi fisi. - La vedo bene, Aldo. Ho sempre invidiato quel suo colore rossobruno, per i miei capelli. Ah, se tu potessi mai cavare una nota che gli somigli! E quelle chiazze giallastre della vernice sul fianco, più trasparenti dell'ambra! E dietro nel mezzo della cassa, quella doratura a strisce di zebra, ricca e dolce come la gola di un uccello tropicale! Il dosso del manico è pallido, levigato dalla tua mano.

- Morìccica, e che bel liuto avevi tu per cantare! - disse l'adolescente inebriandosi. - La cassa era costruita come la carena dei navigli a liste di legno alterne, chiare e scure, ma più leggera d'un guscio di noce. E la rosa era traforata così sottilmente che appena appena ci passava un raggio di sole quando la mettevi contro luce perché si leggesse in fondo il nome del famoso liutaio.

Stavano essi addossati agli stipi, come immemori, indugiandosi nella misteriosa tregua. Pareva che tutto divenisse musica, per cui la stanza angusta abitata dall'antica anima era congiunta alla lontananza immensurabile. Non il suono delle campane faceva biancheggiare il cielo esausto d'aver sì lungamente risplenduto? S'udiva nelle pause dalla palude salire il primo coro delle rane; e, quasi illuse dalla rispondenza, n'eran bianche le acque. E tutto era bianchezza e lentezza: ancora i veli della sera vegnente per quella fiumana d'oblio erano indistinti, se bene i salici avessero già nelle capellature un poco d'ombra.

- Questo cielo, Aldo, mi fa ripensare a quella parola che mi mostrasti in una dedica d'un libro di cantante, forse dedicato a me quando vivevo. Te ne ricordi?

- Me ne ricordo. «Il cielo stesso come Autore della Musica sia testimonio...»

- Autore della Musica!

- Era un libro di cantate a voce sola, del Mazzaferrata. E ce n'era una per oggi, una per quest'ora: «Ove con pie' d'argento». Era rilegato in pergamena impressa, lucida come i cofanetti di pastiglia; e sul rovescio della legatura era scritto a mano: «Doppio ardor mi consuma». E la carta era fragile, molle, consunta nei margini: cominciava a morire per le estremità come le foglie d'autunno. Te ne ricordi? Anche il libro dev'essere nello stipo.

Isabella consentiva alla fantasia dell'adolescente con quel suo sorriso durevole, sospeso su la piccola ferita del labbro.

- Vanina, - ella disse - perché non prendi il tuo liuto e non ci canti sotto voce una canzone?

- La canzone di Thibaut de Champagne roy de Navarre: «Amors me fait commencier une chanson novelle...» - disse Aldo. - Oppure quella d'Inghilterra, così dolce, su le parole di Ben Jonson il Tragico, quella che finisce: «O so whyte, o so soft, o so sweet, so sweet, so sweet is shee!». A che pensi?

Vana esitò, quasi temendo di non aver più la sua voce primiera, quasi credendo di dover parlare per la prima volta con la mutata voce. Poi rispose:

- Mi domandate di cantare, e io pensavo alle parole di quell'altro tuo poeta: «O rondine, sorella rondine, io non so come tu abbia cuore di cantare... Ti prego di non cantare, almeno per un poco!». Domandiamo una pausa alle rondini, intanto.

- È vero - disse Isabella.

Veramente i gridi delle rondini laceravano l'estasi del più lungo giorno. A tratti, gli stormi passavano dinanzi la finestra come saettamenti disperati.

- Quanto mi piace oggi, Vana, la tua malinconia! - disse Aldo.

- Anche a me - disse Isabella.

Addossata allo stipo, con la testa appoggiata alle tarsie, con le mani senza guanti abbandonate in giù, con le lunghe ciglia brune socchiuse sopra lo smalto luminoso, Vana aveva il volto di chi sentendosi venir meno rattenga tra i denti la sua propria anima e la gusti. La sua bocca era lievemente convulsa da un sapore simile a quello di certe erbe che masticate forzano i muscoli del sorriso.

- Isa, ti ricordi di quella tavoletta di Cesare da Sesto in quella bella cornice sdorata, che vedemmo a Francoforte? - disse Aldo. - È una santa Caterina d'Alessandria, in un paese di boschi di acque di monti, vestita di verde, che posa le mani su la ruota dentata del suo martirio. Le estremità delle sue dita smorte sono presso i denti di ferro crudeli. Ma lo spirito musicale di quella pittura ci entrò in cuore. Mi ricordo che tu dicesti: «Le sue dita si posano su la ruota così dolcemente che sembra tocchino i tasti d'un arpicordo».

- È vero.

- Così è Vana oggi.

Paolo Tarsis taciturno ascoltava il dialogo fantastico; e l'aspetto e la voce dell'adolescente gli movevano una sorda gelosia, e l'angustia di quella stanza e l'afa del passato e quelle imaginazioni e quelle morbidezze lo soffocavano. Egli a quando a quando vedeva la nuda brughiera lontana, il suo grande airone bianco ricoverato sotto la tettoia di ferro e di assi, le tuniche azzurre de' suoi meccanici occupati intorno al congegno. E dal turbamento, che gli davano i sogni musicali, nascevano le forme delle vaste nuvole che dovevano rendere patetico il cielo della sua vittoria. E, come passava rasente la finestra lo stormo a saetta, egli era percorso da una sorta d'impazienza muscolare e riudiva in sé il sibilo dell'elica.

- Quanto mi piace questo! - disse Isabella dopo una pausa, come una che abbia morso la polpa d'un frutto e ne lodi la bontà con la bocca bagnata di succo; ché la sua voce rendeva sensuali anche le sottigliezze dell'intelligenza.

- Rimaniamo qui? - disse Aldo. - Riprendi possesso del tuo Paradiso? Stanotte avremo la più grande sinfonia di rane che mai si possa udire. Le rane mantovane sono famosissime: superano perfino le ravennati in arte armonica.

- È la notte più breve.

- Io non voglio dormire.

Di nuovo egli s'era appressato alla sorella con la grazia d'un paggio, seguito dall'inquietudine di Paolo. Era tanto bello, che avanzava di bellezza le due creature del suo sangue. La forma della sua fronte su l'arco dei sopraccigli era simile a quella dei giovini Immortali; e chi la guardava non poteva cessare di guardarla, ché involontariamente risaliva di continuo a quella perfezione. Ond'egli, accorgendosi che di continuo lo sguardo altrui non s'affisava ne' suoi occhi ma più su de' suoi occhi, aveva il sentimento di portare una corona ammirabile; e ne pareva accresciuta la fiamma della sua spiritualità come la leggerezza delle sue movenze.

- Bisogna dunque andare? - disse Isabella.

E rimirò la filigrana del soffitto, ove ancora l'ape dimenticata bombiva come lungh'esse le cellette dell'alveare. E rivide negli scomparti il suo nome, il motto magnanimo, l'Alfa e l'Omega, l'enigmatico numero XXVII, i segni musicali, il candelabro a triangolo, la sigla intrecciata, il mazzo di polizze bianche.

- Nec spe nec metu. Ma io spero quel che temo, e temo quel che spero.

- E per te - disse Aldo - quel madrigale di Gerolamo Belli d'Argenta che Vana ti canterà: «L'onde de' miei pensier portano il core hor ai lidi di speme hor di paura...».

E il sogno ebbe un torbido intervallo. E tutti gli occhi chiari s'incontrarono fuggevolmente.

- Che vuol significare il numero ventisette? - chiese Vana, che nella confusione del suo spirito si volgeva con un'ansia superstiziosa verso gli indizii e i presagi.

- Non me ne rammento - rispose Isabella.-. Ma è un numero che forse non dimenticherò più.

E guardò il taciturno per ricordargli che il ventisette era la data prossima della gara suprema nella festa dedàlea. E lo sguardo impose l'attesa, promise: «Dopo»; e fu per lui come l'ondeggiare delle lunghe fiamme in cima alle aste delle mete aeree.

E il fascio di cartelline? chiese Vana.

- Sono le polizzette del gioco di ventura, - rispose Aldo - quelle che si traggono dall'urna cieca della sorte.

- Bianche?

- Sì, bianche.

- Cedimi questa impresa, Isabella - disse Vana.

- O non piuttosto quella delle Pause? - disse Aldo.

- Che è l'impresa delle Pause?

- Quella dei segni musicali su la rigata, che vedi ; ed era la più cara a Isabella.

- Tu che decifri le intavolature, la sai leggere?

L'adolescente si volse e balzò a sedere sul largo davanzale per essere più presso alla cornice ove poggiava il cielo dell'imbotte scolpito ad anelli a rosoni a legacci, ne' cui fondi eran ripetute tutte le imprese fuorché quella delle Pause ricorrente sola nel fregio vaghissimo.

- Se non sbaglio, c'è la chiave di contralto; e poi ci sono i segni dei quattro tempi; e poi i segni di tre pause di valore descrescente: due, una; mezza; e poi un sospiro del valore di una minima; e poi le tre pause in ordine inverso; e infine il segno del ritornello doppio.

Tutti i volti erano in su, pensosi; tutti gli occhi chiari scrutavano il cartiglio.

- È la notazione del silenzio - fece Vana.

- La canzone che non canterai, Morìccica - fece il fratello ancor seduto sul davanzale, stendendo verso di lei la mano e toccandole la spalla. - Che strana impresa, e come profonda! Isa, tu l'avevi cara più d'ogni altra, tanto che alla corte di Ferrara per le feste in onore di Lucrezia Borgia comparisti vestita di una camòra «recamata di quella invenzione di tempi e di pause».

- M'è sempre cara - fece l'incantatrice. - È il valore di quel che non dissi non dico non dirò mai.

Sorrideva col viso in profilo, metà nella luce e metà nell'ombra.

- Riassumo da oggi l'impresa delle Pause - ella soggiunse. - Ora andiamo.

Si volse per passare nel camerino attiguo.

- Ma come non l'abbiamo veduta? - fece con un grido di meraviglia, e s'arrestò.

Una piccola porta di marmo era dinanzi a lei, una porta gemmea, trattata anch'essa con ceselli da orafo come quella d'un ciborio, a cui i dischi di nero antico alternati coi tondi candidi in basso rilievo davan qualcosa di funebre quasi che s'aprisse sopra il sepolcro d'una delle «pute» mantovane, forse di Livia, forse di Delia, morta di baci. Un fregio di grifi sovrastava all'architrave; i fondi dei riquadri brillavano di pagliuzze d'oro come incrostati di venturina; e la figura avvolta d'un peplo piegoso, in atto di tenere il flauto di Pan, era la Musica ed era Isabella. Ma chi era, nel basso rilievo sottoposto, la donna ignuda avente sul capo i chiusi volumi, sotto il piede un teschio umano?

- Ecco un'allegoria oscura come l'impresa delle Pause - disse Aldo inginocchiandosi per indagare l'imagine. - Tu stessa l'ispirasti a Tullo Lombardo?

Ella si chinava con le due mani su le spalle di lui a guardare.

- Ti somiglia - soggiunse sottovoce il fratello.

- È vero - ella assentì sommessa.

Ed entrambi rimanevano intenti, s'indugiavano. La sorda gelosia rimorse il cuore del taciturno.

La figura, scolpita a guisa di un cammeo, aveva anch'essa le lunghe gambe lisce e l'un ginocchio molto proteso innanzi nell'atto d'incedere con quella maniera espedita che dava tanta pieghevolezza al passo della giovine signora e, distendendo la stretta gonna, palesava nel gioco alterno il disegno della coscia fino all'anca e l'inflessione del grembo sparente.

- Aldo, Aldo, scacciala!

Ella si raddrizzò, si schermì, sentendo il ronzio dell'ape presso la sua gota. Con un balzo varcò la soglia; e i suoi piccoli gridi sonavano sotto il cielo d'oro, ché l'ape la perseguitava importuna; e le sue mani s'agitavano alla difesa puerile.

- Ahi! M'ha punta.

In uno di quei gesti scomposti la pecchia provocata l'aveva punta alla mano manca, nel polpaccio del pollice.

- Mi fa male. Bisogna suggere forte, Aldo!

Aldo non rideva più. Ella gli tendeva la mano supina, ed egli pose le labbra su la puntura per medicarla.

- Sì, così.

Egli suggeva più forte.

- Basta!

Ella rideva d'un riso che a Paolo sconvolto pareva l'eco attenuata di quello già udito lungo il canale delle ninfee dopo il passaggio del carro carico di tronchi.

- Basta. Non mi duole quasi più. Mi brucia un poco soltanto.

L'occhio di Vana era cattivo. La sorella empieva della sua ilarità tutta la stanza, trascorrendo intorno con una grazia di movimenti così forte ch'ella sembrava emanare da sé quella stellante ricchezza d'azzurro e d'oro come il pavone apre la sua ruota siderea.

- Riconosco, riconosco. Non avevo in questi armadii le mie più belle vesti? Non erano tappezzati di velluto cremisi i miei stipi?

Ella aveva scoperto in un angolo del nudo legno un frammento del prezioso drappo.

- Non li ho lasciati qui i miei broccati i miei rasi i miei tabì?

- Isabella! Isabella!

Aldo leggeva il nome nelle targhette che allacciava il meandro d'ulivo.

- Eri anche allora la più elegante dama d'Italia - disse egli adulando la giovane donna come soleva.

- Oggi hai per rivali Luisa Casati, Ottavia Sanseverino, Doretta Rudinì; allora gareggiavi con Beatrice Sforza, con Renata d'Este, con Lucrezia Borgia. Allora la marchesa di Cotrone ti mandava a chiedere per modello una sbèrnia, come oggi Giacinta Cesi ti manda a chiedere un mantello. Che erano al confronto i grandi corredi d'Ippolita Sforza, di Bianca Maria Sforza e di Leonora d'Aragona? Ma quella Beatrice era veramente la spina del tuo cuore. S'era fatti ottantaquattro vestiti nuovi in due anni! Tu l'anno scorso per le quattro stagioni te ne facesti novantatre. E la Borgia, quando andò sposa ad Alfonso, aveva con sé duecento camicie maravigliose! Tu superasti e l'una e l'altra. Chiedevi ai tuoi corrispondenti milanesi e ferraresi notizie minutissime delle due duchesse, in vestiario e in biancheria, per non restar mai indietro. Anche allora tu eri una inventrice di fogge nuove. Tu inventavi le mode. Portasti a Roma quella della carrozza. Avevi il desiderio smanioso delle novità eleganti. Ti raccomandavi ai tuoi fornitori perché cercassero «di cavar de sotto terra qualche cosetta galantissima». Anche allora amavi gli smeraldi, ed eri riuscita a possedere il più bello dell'epoca. A Venezia a Milano a Ferrara avevi mediatori con orefici. Non ti contentavi d'aver le più belle gioie ma le volevi squisitamente legate: anelli collane cinture bottoni braccialetti catene frange sigilli. Il tuo orefice prediletto fu quell'ebreo convertito, di nome Ercole de' Fedeli, che fece lavori di niello e di cesello incomparabili, tra cui forse la famosa spada di Cesare Borgia, ch'è in Casa Caetani, e la cinquedea del marchese di Mantova, ch'è al Louvre.

Egli pareva aver bevuto il vino di quattrocent'anni in uno di quei vasi di calcedonio o di diaspro forniti d'oro, che la estense aveva raccolti innumerevoli negli armarii della Grotta in Corte vecchia. Era ebro di passato ma provava un piacere quasi malsano nel mescolare le cose vive alle cose morte, nel confondere le due eleganze, nel frugare le due intimità. Ella lo secondava, quasi per una volontà d'inesistenza, con le ciglia senza palpito e col sorriso durevole dei ritratti magnetici.

- Ricordami ancora! - ella diceva per incitarlo, a ogni intervallo, come s'egli non le narrasse cose nuove ma le risvegliasse la memoria.

- La duchessa di Camerino Caterina Cibo faceva fare a Mantova i suoi vestiti sotto la tua sorveglianza, come ora Giacinta Cesi non va dalla sarta se tu non l'accompagni.

- Ricordami!

- Nel tuo viaggio di Francia l'ammirazione per le tue guise fu unanime, come oggi gli occhi delle Parigine ti divorano quando tu esci da un teatro o entri in un salotto ben frequentato. Perfino Francesco I ti chiese qualche veste da donare alle sue donne; e Lucrezia Borgia, la tua rivale, dovette rivolgersi a te per avere un ventaglio di bacchette d'oro con piume nere di struzzo, dopo aver cercato invano d'imitare quella tua «capigliara» a turbante che porti nel ritratto tizianesco.

- Avevo i capelli che ho, castagni?

- Castagni con forti riflessi biondi; e, per averli tanto tempo gonfiati a turbante, ora li serri in due trecce e li giri e li schiacci con le forcine e ti fai una piccola piccola testa che mi piace assai più.

- Belle mani?

- Più belle ora: ti si sono smagrite e allungate. La destra dipinta dal Vecellio, con l'anello nell'indice, ha fini le dita ma un po' grasso il carpo. Per curarle facevi ricerca delle forbici più sottili e aguzze e delle «lime da ungie» più delicate. E ordinavi i tuoi guanti a Ocagna e a Valenza, i più morbidi e i più odorosi del mondo.

- Perché amavo anche allora i profumi.

- N'eri folle. Li componevi tu stessa. Ambivi il nome di «perfecta perfumera». La tua «compositione» era d'un'eccellenza insuperabile. Tutti imploravano la grazia d'un bussoletto. Ne donavi a re a regine a cardinali a principi a poeti. E il tuo Federico, quand'era in Francia, non ti chiedeva mai denari senza chiederti profumi, e tanto spesso gli uni, credo, quanto gli altri.

- Eri ben tu Federico allora? Ti riconosco.

Risero forte entrambi, prendendosi le mani, guardandosi negli occhi splendidi.

- Ma spesso tu mandavi invece di denari un bussoletto, perch'eri piena di debiti.

- Oh, no.

- Sì, sì; ne avevi fin sopra ai capelli, affogavi.

- Federico!

- Avevi sempre una voglia pazza di comprare tutto quello che ti piaceva; e poi non potevi pagare. Allora, debiti su debiti.

- Non è vero.

Perfino con Sua Santità, e poi col Sermoneta, col Chigi... So tutto. C'è la lettera al Trissino: «miseria extrema di dinari...

- Mi smungeva Federico.

- … per non haver ancora restituiti molti ducati tolti in prestito...»

- Federico!

- E mettevi le gioie in pegno.

Ridevano come monelli, con una gaiezza irresistibile che travolgeva il sogno, con qualcosa di furbesco nell'angolo dell'occhio, quasi fossero soli, immemori dei due che dal vano della finestra parevano assistere a una scena di mimi.

- E le maschere, le maschere!

- Quali maschere?

- Come le amavi! Ne fabbricavano tante nella tua Ferrara. Ne mandasti cento in dono al Valentino: cento maschere a Cesare Borgia.

- Quanto mi piace questo! - disse Isabella con un subito mutamento di tono, perché aveva sentito dietro di sé l'ostilità dei due spettatori ed era di nuovo pronta a far soffrire. - Se ne ritrovassi qualcuna dentro gli armadii?

- Una vecchia maschera, una vecchia veste, una vecchia catena. Apri, apri.

Ella aperse. Le ributtò il triste odore.

- È pieno di ragnateli - disse, e richiuse.

- Sono certo i ricami portentosi di quella femminetta greca che avesti da Costanza d'Avalos.

E fu l'ultimo sorriso della finzione; ché dall'armadio aperto un soffio di malinconia s'era diffuso, e lo spirito delle Pause, il canto senza parole, l'ardore senza concento.

- Andiamo, andiamo.

Ella ripassò per la porta gemmea, ritraversò la cassa dorata del clavicembalo senza tastiera, ridiscese la scaletta di tredici gradini. La seguivano gli altri, in silenzio. I passi risonarono per un lungo andito bianco; poi giù per un'altra scala desolata; poi per l'ombra di un'aula cinta di nicchie in forma di conche, verdastra come una caverna marina. Una porta stridette su cardini rugginosi; e tutto l'argento del vespero brillò fra le due imposte, per mezzo a un gran ragnatelo lacerato; e su la pietra giacevano un pipistrello nericcio e una lucertola grigiastra, e l'una guizzò via e l'altro prese il volo, come se i due lembi del ragnatelo si fossero di subito animati.

- Sempre si rinnova l'incanto?

Si sporse nell'aperta loggia l'adolescente con un profondo respiro.

- La bellezza non ha pietà di noi? non ci tregua?

Tutti respiravano verso il cielo di Vergilio, ricevevano l'immensa pace sul petto in tumulto.

- Il giorno senza fine.

Un alito fresco saliva dai salci dalle canne dai giunchi, prossimo come quel d'una bocca silvana che abbia bevuto a gorgate il gelo della fonte senza asciugarsi.

- Che faremo? Che faremo?

Erano tutt'e quattro in uno dei poggiuoli inferriati a vista della palude. Dietro di loro taceva nell'abbandono la vasta corte erbosa delle antiche giostre, circondata dalle logge a colonne avvolte che avevano udito il ringhio dei barbareschi. Dinanzi, una sovrana purità si perpetuava come in un mondo immune dall'ombra; e la luce era sonora fino al culmine del cristallo empireo.

- Sorella, sorella, non vedi? non vedi?

Un'ansia inane vuotava il cuore dell'adolescente, e poi di subito lo gonfiava uno smisurato impeto, come se moltitudini di ferrei cavalieri gridando irrompessero dalle profondità per galoppare su tutta la terra.

- Isa, le tue mani sono di perfetto marmo!

Maravigliose erano le due mani ignude su la ruggine della ringhiera, levigate nei nodelli, marmoree veramente, come abbandonate dalla vita sanguigna e trasfigurate da un'arte sublime. Ella era una creatura tutta palpitante e anelante di tristezza, di desiderio, di ricordanza, di timore, di promessa, con due mani di statua.

- La puntura ti duole ancora?

- Mi brucia soltanto.

- Ti sei ferita due volte. Aspettati la terza ferita.

La mano di marmo disegnò un gesto di supplice verso la bellezza della candida sera; poi col dorso appena appena toccò il labbro che non sanguinava più. Il saettio disperato delle rondini stridì su l'immobile argento. Il capo del fratello s'inclinò verso la spalla diletta. Egli aspettava un dono che non gli era dato, e non sapeva quale; e la voce della sua anima era un alto lamento, se bene si esalasse in piccole parole.

- Che faremo? Mi chiuderete laggiù in una stanza d'albergo, fra poco? Io non voglio dormire.

Paolo Tarsis guardava quel volto di giovine iddio decaduto che travagliavano così torbidamente gli affanni umani; e il rancore dei suoi trentacinque anni esperti e indurati si appesantiva dinanzi a quella grazia inquieta come una convalescenza febrile. E ogni attitudine dell'adolescente verso la sorella gli moveva un malessere indefinibile.

- Vieni con me su la brughiera - disse.

- A vegliare la veglia d'Icaro?

- Ad aspettare l'alba.

- Sotto un'ala del tuo grande airone?

- Alla diana farò un volo di prova. Le prime stelle e le ultime sono propizie a quest'arte.

- Espero è il tuo buon genio?

Aldo non guardava il costruttore d'ali ma, col capo presso l'omero della sorella, era fiso nel cielo di Vergilio. Tutto era puro come nella più divina delle ecloghe. Non un soffio moveva le cime delle canne le vermene dei giunchi le fiammelle dei papaveri lo specchio delle acque. Solo il coro delle rane diffondeva il senso del moto in forma di ritmo, simile alla vibrazione della bianchezza.

- Quale altro cielo, se non questo, si chiamerà firmamento? Stasera potresti volare all'infinito. Ah, insegnami!

Trasognato egli si volse, e guardò l'uomo: riconobbe l'ossatura della volontà temeraria, la biliosa faccia scarnita dall'ardore di vincere, la pupilla fulminea del predatore, quegli angoli vivi che parevano fatti per fendere come i conii la resistenza, quelle dure mascelle che per contrasto portavano la carne rossa della bocca come un frutto molle in una tenaglia d'acciaio. E uno sgomento subitaneo lo invase, ché non era quegli il suo compagno né il suo maestro.

- T'insegnerò - disse Paolo Tarsis con l'accento della condiscendenza, come chi risponda a un bimbo che domandi un balocco; e sorrise.

L'ombra cadde su le ciglia del trasognato, e gli riempì l'orecchio un confuso rombo, e il cuore gli pulsò contro la gola; ché egli aveva scorto, tra l'uno e l'altro dente di colui che sorrideva, un filo di sangue, un sottilissimo grumo, e un lieve gonfiore lividiccio nel labbro rilevato dal sorriso.

- Aldo, che hai? - gli domandò Vana. - Come sei divenuto pallido!

L'imagine del bacio selvaggio gli si creò nel lampo della divinazione.

- Sembro pallido? È questa luce. Non ho nulla. Anche voi sembrate così.

Non dominava il suo sgomento cieco. Le giunture gli si scioglievano come nel pànico. Si chinò su la ringhiera, e credette che il battito del suo polso risonasse sul ferro come il martello su l'incudine. Lo stormo frenetico delle rondini s'era allontanato perdendosi ai confini della palude, ed egli l'udì tornare verso la loggia come una forza ruinosa e strepitosa che fosse per trascinarlo seco. Negli attimi d'attesa rivide le cose più lontane della sua infanzia. Poi lo scagliamento disperato gli trapassò tutta l'anima tramortita.

«Addio, addioripeteva in sé, ma senza sapere come la parola gli si formasse dentro e gli si staccasse dal cuore; ché non era se non suono interno di gemito, simile a quello inarticolato che la tortura strappa alla carne vile. «Addio, addio

E raccolse un po' di forza per ricomporre il suo viso, per dissimulare l'ambascia; si sollevò, si volse come a guardare la desolazione del cortile erboso; fece qualche passo furtivo verso la porta che s'empieva d'ombra. Sentiva pesare entro di sé un pianto accumulato. Il bisogno folle di sfuggire lo prese, lo cacciò tra le pareti ignote, di soglia in soglia, d'andito in andito, di stanza in stanza, per l'irremeabile ruina. Da prima corse anelante, con un velo su gli occhi, come chi abbia il fuoco appreso alle vesti e più avvampi nell'aura della fuga. Poi le figure superstiti nell'enormità di quella morte escirono dall'ombra e l'assalirono, e s'ingigantirono del suo dolore; e i contorcimenti dei grandi corpi rossastri nelle mura piene di battaglia furono come l'agitazione della sua demenza; e gli squarci e le fenditure e i mucchi furono come i resti del suo crollo; e tutto l'oro scolpito e sospeso e infranto sul suo capo fu come la perdizione del suo sogno ponderoso. Ed egli andava andava, di soglia in soglia, d'andito in andito, di stanza in stanza, per l'irremeabile ruina. E a tratti, come se soffiasse la raffica, gli giungeva l'alto canto palustre, lo stridore del saettamento ostinato, la squilla della salutazione angelica, e il gemito stesso della sua propria anima. «Addio, addio

Non l'ombra entrava per le finestre ma si creava dentro, ma sorgeva da ogni cavità, occupava i luoghi profondi, s'accumulava come una cenere fosca, s'addensava come una moltitudine tacita. Una porta fu piena di minaccia; una scala fu piena di terrore; un corridoio fu come un abisso.

- Isabella! Isabella!

Il nome echeggiò come in una caverna; ma, dopo, la vita del silenzio si moltiplicò, ebbe mille volti sparenti.

- Isabella!

Il nome cadde senza risonanza, come qualcosa che s'afflosci. Un chiarore violaceo appariva pel tetto squarciato. Nell'ombra era un aliare molle di nottole. Vene di gelo vi s'insinuavano come se pei crepacci stillasse l'acqua degli stagni.

- Isabella!

Smarrito nell'intrico della ruina, egli barcollava su i pavimenti sconnessi, urtava contro le travature cadute, varcava gli usci palpando gli stipiti freddi, rabbrividiva per tutte le ossa appressandosi alle forme ignote. E sopra il terrore l'imagine del bacio selvaggio, l'imagine della voluttà sanguigna, si apriva dentro le sue pupille con l'intermittenza e la violenza dei bagliori in occhi infermi; ché forse egli era passato, ché forse egli passava dove s'eran congiunte le bocche crudeli. E il mare del pianto gli ondeggiava a sommo del petto fragile, a sommo dell'anima senza limite; e per ricacciare il singhiozzo egli ripeteva quel nome che pur dianzi aveva risonato nel riso come gli acini balzanti d'una collana disciolta.

- Isabella!

- Aldo, Aldo, dove sei? dove sei? Ti sei perduto?

Trasaltò egli udendo la voce angosciosa che rispondeva all'orribile angoscia; e si volse; e in fondo all'andito lugubre scorse un'ombra nell'ombra.

- O Vana!

E si corsero incontro; e non parlarono, perché entrambi traboccavano di pianto. E furono soli; e non s'udì alcun altro passo fuorché quello cauto del vecchio. E non si guardarono ma s'abbracciarono disperatamente.

 

 

Or d'improvviso i Latini si ricordavano della prima ala d'uomo caduta sul Mediterraneo, dell'ala icaria composta con le verghe dell'avellano con l'omento secco del bue con le penne maestre degli uccelli rapaci. «Un'ala sul Mare è solitaria» aveva gridato il poeta della stirpe, alle vedette.

 

Chi la raccoglierà? Chi con più forte

lega saprà rigiugnere le penne

sparse per ritentare il folle volo?

 

D'improvviso i Latini rimemoravano il sogno del Nibbio, che visitò in culla il nuovo Dedalo creatore d'imagini e di macchine, il Prometeo senza supplizio, colui ch'ebbe in sé «la radice e il fiore della volontà perfetta»; e quella culla era ardua come il nido stesso del desiderio sovrumano sospeso nell'Ignoto. E riapparivano per baleni di gloria, su piani su colli su laghi d'Italia bella, altre ali d'uomo invermigliate di sangue temerario, rotte come le ossa, lacere come la carne, immote come la morte, immortali come nell'animo l'avidità del volo.

Un barbaro della Magna aveva osato interrogare l'ombra marina d'Icaro, aveva anch'egli dato alle vermene del vinco la curvatura della vita, aveva coperto l'armatura lieve d'un tessuto più lieve, aveva studiato il vento e ascoltato la parola del Precursore intorno al congegno: «Non gli manca se non l'anima dell'uccello, la quale anima bisogna che sia contraffatta dall'anima dell'omo». Ben egli l'aveva contraffatta librandosi nell'aria con la sua sola forza vigile, volando ogni giorno più a lungo, ogni giorno più in alto, precipitando infine e stampando nell'aspro suolo germanico l'impronta del suo cadavere, come l'Ateniese aveva legato all'azzurro dell'onda ellenica il fiore del suo nome.

Discepoli eran sorti, avevan raccolto il rottame, avevan ricostruito e raddoppiato il congegno; avevan celato la loro favola in lande solitarie, in contrade di sabbie e di tumuli; avevano ancor macchiato di vermiglio le verghe connesse e la tela tesa. Alla vasta brezza costante dell'Atlantico, non al chiaro ponente meridiano del Mediterraneo, s'era rialzata e aggrandita la speranza della vittoria sul cielo cavo! In un rigido mattino d'inverno, sopra dune ignude in vista d'una baia aperta verso l'oceano, s'era alfine compiuto il prodigio. Due fratelli silenziosi, figli del placido Ohio, infaticabili nel provare e nel riprovare, per spingere la macchina alata avevano aggiunto la forza di due eliche all'ostinazione dei due cuori.

Ora i Latini venivano alla riscossa. Il novo strumento pareva esaltare l'uomo sopra il suo fato, dotarlo non soltanto d'un novo dominio ma d'un sesto senso. Come il veicolo fulmineo di ferro e di fuoco aveva divorato il tempo e lo spazio, l'ordigno dedàleo trionfava d'entrambi e del peso. A uno a uno la Natura aboliva i suoi divieti. Contro la maschera velata del mistero brillava il viso diamantino del rischio. Il dèmone della gara traeva il combattente sul margine dei più voraci abissi. La morte era una Circe conversa, donna solare che trasfigurava i bruti in eroi con la ebrezza dei suoi beveraggi. Come quando tutta l'Ellade si moveva per la corona d'oleastro, l'Estate ridiveniva sacra agli agonisti. L'inno aveva principio in ogni grido di moltitudine ma il croscio della celerità lo mozzava alla prima sillaba.

L'uomo fu pronto a lottar contro il vento e contro l'emulo nell'aria, non più col disco di bronzo ma con l'ala di canape. Il cielo incurvato su la pianura fu un immenso stadio azzurro, chiuso dalle nubi dai monti dai boschi. La folla trasse allo spettacolo come a una assunzione della sua specie. Il periglio sembrò l'asse della vita sublime. Tutte le fronti dovettero alzarsi.

Il concorso era come a una dieta di guerra. Il luogo aveva l'aspetto dell'arsenale e della cittadella. In lungo ordine le tettoie di travi e di tavole a doppio pendio davano imagine di quelle usate un tempo a ricovero di galere disarmate o racconce. In cima ai pennoni, in cima alle alte mete piramidali, in cima alle torri di vedetta le bandiere e le fiamme multicolori sventolavano come nelle pavesate di gala. E, come gli antichi pavesi delle fanterie di comune, le fronti delle coperture erano dipinte gioiosamente: coi colori delle nazioni, con gli emblemi delle officine, coi nomi dei timonieri celesti.

Imagine di eternità incontro a quell'apparato precario, forma di perfetta bellezza sopra quelle linee senz'arte, fra tutto quel legno polito materia insigne colorata dai segreti dei secoli e dagli spiriti della terra, nel mezzo del campo sorgeva alla sommità d'una colonna romana la statua della Vittoria. Liberata dal carcere astruso, fuor del triste museo ingombro di are di plinti e di anfore discesa pei deserti gradi di pietra invasi dall'erba, era venuta non con la sua quadriga trionfale ma con un carro rustico, col plaustro dei coloni di Roma, tratto da sei duri buoi lombardi per la strada che conduce al contado di Vergilio. Le aveva fatto corteggio il popolo prode. Imposta al capitello corinzio involto di acanti corrosi, ora viveva nel cielo come quando il giovanissimo capo e l'omero potente e l'apice dell'ala aquilina coronavano il fastigio del tempio eretto a piè del Cidneo da Flavio Vespasiano fondatore di anfiteatri. Verde come la fronda del lauro, glauca come la foglia dell'oleastro, su la svelta colonna dalle scannellature cupe ella perpetuava il gesto misterioso con le mani dalle dita tronche ove ancor lucevano le tracce dell'oro cesareo.

Non la riconobbero i nuovi agonisti, non la venerarono; ma la temettero come un ostacolo da evitare. Ognun di loro non aveva occhi se non per l'asta attrezzata dei segnali e per gli indizii dei vessilli.

- Che dice il segnale del vento? - domandò Paolo Tarsis chino presso la sua macchina a esaminare la tensione dei fili d'acciaio, mentre il capo dei suoi meccanici finiva d'intonare il motore ed egli prestava l'orecchio acutissimo alla settupla consonanza.

- Più di dieci metri al secondo - rispose Giulio Cambiaso scorgendo su la tabella del semaforo il disco bianco accanto al quadro nero e al rosso. - Non si vola.

S'udiva il clamore della folla impaziente di dagli steccati.

- Tentiamo? - disse Paolo Tarsis.

E venne al limitare della tettoia; guardò la palpitazione delle fiamme in cima delle aste, scrutò lo spazio con l'occhio del cacciatore e del marinaio. Soffiava su la brughiera un vento fresco di tra ponente e ostro, in un cielo grandioso come quei cieli di battaglie navali dove le forme delle nuvole sono eroiche al pari delle prue e degli stendardi. Sotto gli enormi cumuli raggianti s'incupiva l'azzurro dei monti verso il Garda, in fondo i poggi leni imitavano il lineamento del mare, s'inargentava la cortina interminabile dei pioppi al limite della campagna di Ghedi. La vastità dell'aria era deserta e muta, non interrotta né da un volo né da un richiamo d'uccelli. Attendeva l'uomo.

- Il vento sta per cadere - disse Paolo. - Tenterò oggi di battere Edgard Howland nella durata nella velocità e nell'altezza.

- Anch'io - disse Giulio Cambiaso.

Si guardarono negli occhi leali sorridendo, emuli e fratelli. La loro fraternità vigeva già dalla prima giovinezza, nata sul ponte d'una nave da guerra, nei primi anni del servizio, quando a ogni primavera credevano essi venuto alfine il tempo di puntare i cannoni delle torri corazzate contro un bersaglio che non fosse quello delle gare di tiro nella rada di Gaeta. S'era cementata nell'inferno dei battelli sottomarini, entro il chiuso scafo ove non è per l'uomo altro posto che il posto di manovra o di combattimento, tra i fumi dell'olio bruciato, tra i vapori della benzina, tra miscugli d'idrogeno e d'ossigeno svolti dagli accumulatori elettrici, nel pericolo assiduo dello scoppio, nella tenebra improvvisa causata dal corto circuito, nella lotta costante dell'attenzione contro il tossico sonnifero dell'anidride carbonica, nel silenzio sostenuto per ore lunghe come giorni con l'occhio fisso ai quadranti indicatori, con l'orecchio teso al linguaggio metallico degli apparecchi di misura e di governo. Ben quivi entrambi avevano cominciato ad acquistare il senso della terza dimensione, manovrando i timoni orizzontali e correggendo per innumerevoli esperienze l'instabilità nel verso dell'asse, che a ogni più lieve causa drizza lo scafo per prua fuori dell'acqua o lo piega a dar di becco nel fondo.

Insofferenti di disciplina esterna, aspiranti a un'azione più libera, insieme avevano rinunziato il servizio. Insieme avevano intrapreso un lungo viaggio di anni nell'Estremo Oriente, attraversato la Corea, la China, la Mongolia, girando la Muraglia, ascendendo monti, risalendo fiumi, valicando steppe, soggiornando alla ventura nelle città dell'interno e della costa; poi per le Filippine, per l'arcipelago di Sulu, per l'Australia compiuto il periplo delle isole nello Stretto di Torres studiando gli Aborigeni; poi per la Tasmania, per l'India, per l'Arabia, raggiunto l'Egitto. Avevano domandato all'animo e al corpo tutto quel che potevano dare e oltre: la risolutezza era divenuta in entrambi un istinto servito dalla rapidità del pensiero; la resistenza era divenuta come l'osso del dorso. Avevano fatto la pelle al freddo e al caldo, usando abiti leggeri tanto sopra le aspre nevi coreane quanto sotto le fiamme tropicali di Mindanao. Avevano sopportato quattro giorni di digiuno con un cammino quatriduano di cento trenta miglia nell'Altai deserto; percorso in trentadue ore circa ottanta miglia a piedi, nell'isola di Negros, per raggiungere in tempo su la costa una lancia spagnuola che, partita, non sarebbe tornata se non dopo un mese e mezzo. Avevano cavalcato nelle steppe diciotto ore su le ventiquattro, e continuato così per settimane senza stancarsi. D'avventura in avventura, di lotta in lotta, avevano acquistato la destrezza che moltiplica le forze con la sagacia nell'adoperarle, soccorsa dalla scienza anatomica del corpo animale nell'assestare i colpi. Uno di loro in un tempio indico aveva potuto alzare una gravissima pietra, sol per un certo suo modo di equilibrarla. Il medesimo aveva reso le sue mani tanto pieghevoli, che, essendo incatenato in Luzon, era riuscito a farle scorrere per gli anelli di ferro; e tanto forti, che la pressione delle dita poteva dare novantotto libbre inglesi nel misuratore e spezzare l'ulna più robusta.

Ma quante volte, sazii di stampare la volontà e il calcagno su le dure vie terrestri, avevano risognato il sogno sottomarino, rivissuta la vita silenziosa nell'elemento profondo! Quante volte, dinanzi agli spettacoli più nuovi, avevano ripensato gli attimi incomparabili della manovra di battaglia: il battello emerso, lo scroscio dell'onda in coperta, lo strepito dei motori a scoppio e le subite vampe fra le pareti metalliche; poi la sola torricella di comando emersa e il dorso a fior d'acqua, in vedetta; poi emersa la sola sommità della torre coi suoi cristalli più alti, in agguato; poi tutto lo scafo immerso, con solo fuor d'acqua il lungo tubo del cleptoscopio armato del portentoso occhio vitreo; alfine, l'immersione totale, accertata la rotta, corretta la mira, pronto il siluro nella camera di prua; la corsa fatale nel silenzio subacqueo, il lancio segreto contro la carena gigantesca!

Un giorno per caso, al Cairo, in vicinanza d'un ammazzatoio publico, s'erano abbattuti in un uomo singolare dal capo fasciato d'una benda leggera di lino; il quale teneva fissi al cielo fiammeggiante due occhi immuni dal barbaglio, quasi fossero forniti della terza palpebra, per osservare il volo dei corvi, dei nibbii e degli avvoltoi che roteavano a grande altezza. Era un augure forsennato? Era un ornitologo deliberato di rapire ai rapaci il segreto del volo senza remeggio. Si chiamava Léon Dorne.

Per qualche tempo l'avevano avuto compagno sapiente e fervente della loro nuova ricerca. I due manovratori di battelli sommergibili avevan rivolto il senso statico delle tre dimensioni verso il cielo.

- Alis non tarsis - diceva l'ornitologo implume, facendo il bisticcio sul cognome di Paolo.

Posatoi rupestri del Mokattam, pregni di splendore come gli alabastri delle meschite, dove nel mattino gli avvoltoi fulvi s'indugiano al sole che dissecchi la rugiada su le lunghe remiganti disgiunte, e curano i fusti teneri delle penne nascenti e a quando a quando starnazzano per esercitar le giunture e, nel sentire il soffio, di subito si gettano giù, abbassandosi per un tratto di frombola senza batter l'ali, e partono, di primo volo e salgono al sommo e poi discendono col becco al vento e s'aggirano spiando tutta la contrada e si sospendono nell'aria immobili e poi risalgono e poi ridiscendono, senza mai batter l'ali! Specchi della Palude Mareotide, coperti d'ampie ninfee natanti che sorgono all'improvviso con uno strepito simile a quello dei cigni; e sono i pellicani dall'occhio scarlatto, i gravi pellicani dal sacco gutturale venato come le dalie; e s'ode il loro grido rauco simile al raglio, e lo schiocco delle larghe palme che si posano su l'isolotto di melma, e di nuovo lo strepito più forte pel più alto volo, quand'essi ripiegano il collo tra gli omeri come gli aironi e, alzandosi contro il vento, cangiano la gravità palustre nella più ardua grazia e non remano ma veleggiano sopra le nubi! Immense lande liquide dei Barari, folte di canne e di tamerici sul pattume salmastro, interrotte da cumuli di mattoni e di cocci, che sono le ruine obliate delle città regie senza nome divenute nido innumerevole alle dinastie delle meropi; ove su le grandi assemblee degli acquatici volteggia il grifone indagando le ripe, se qualche carogna di bufalo vi approdi portata dai canali, mentre a quando a quando capovaccai e corvi trapassano in volo veementi con ombre di morte, come tratti dalla fame sagace verso un campo ignoto di carneficina ai limiti del deserto! Passione del deserto, palpitazione visibile della vampa su l'aridità commossa, odore elettrico dello spazio in attesa, quando la grande aquila sola su i rossi torrioni del Khamsin valica in un attimo il campo del più pronto sguardo umano e col fato della turbinosa metropoli di sabbia e di angoscia si dilegua per sempre!

- Alis non tarsis.

I due compagni avevano vissuto lunghi e lunghi giorni, assorti in questi spettacoli e in un sogno d'avventure celesti. Tornati in patria, s'erano messi con ardentissima pazienza all'impresa. Da principio avevano costruito apparecchi semplici, veramente dedàlei, privi di forza motrice, simili a quelli usati dai primi esperimentatori nelle prime prove, non affidati se non alla resistenza dell'aria, non equilibrati se non dalle inclinazioni istintive del corpo sospeso; e, per addestrarsi al veleggio, avevano scelto nel Lazio il ripiano di Àrdea, la rupe di tufo tagliata ad arte, l'arce italica di Turno nomata dal nome dell'uccello altovolante. Qual posatoio più atto all'esperimento periglioso? Tutto esprime la forza e la grandezza nella muraglia della prisca città fondata da una schiera d'Argivi spinti alla spiaggia dal vento di mezzodì. La valle dell'Incastro è una conca piena del medesimo silenzio ch'empie i sepolcri cavi dei Rutuli primevi; la chiostra dei monti, dagli Aricini ai Lanuvini, dagli Albani ai Veliterni, è come un ciclo di miti impietrati; nell'epica luce sembrano vaporare gli spiriti delle stirpi; i massi squadrati hanno per eterno cemento la parola di Vergilio: et nunc magnum manet Ardea nomen.

I due compagni avevano quivi sentito, meglio che in qualunque altro luogo della terra, come la morte sia un'operaia gioiosa.

Dopo prove e riprove, avevano compiuta una macchina leggera e potente la cui ombra somigliava l'ombra dell'airone. E le era rimasto il bel nome italico: Àrdea; e nel nome il proposito di volare sopra la nube.

Quella e un'altra eguale fremevano ora sotto le tettoie attigue aspettando la volontà conduttrice.

- Bisogna partire prima che il campo di slancio sia invaso dal pollame - disse Paolo Tarsis, alludendo ai molti trabiccoli strepitosi che non riescivano mai a distaccarsi dal suolo.

- Sai? - disse Giulio Cambiaso ridendo - sai che perfino il re negro dei pugilatori Sam Mac Vea si propone di volare?

- E il fantino O' Nell.

- E il maratoneta Shrubb.

- E il ciclista Mazan.

- E il nuotatore Geo Read.

- E il pattinatore De Koning

- E il giocatore di pelota basca Chiquito de Cambo!

Risero di quel forte riso unanime che tante volte aveva rallegrato le soste all'addiaccio o sotto la tenda, di quel riso ch'essi non ridevano con altri, essendo un modo della loro concordanza, un'espressione duale della fierezza sprezzante ond'essi giudicavano gli eventi e gli uomini. Era già vivace in loro il sentimento sdegnoso della piccola aristocrazia che s'andava formando dall'accozzaglia della novissima gente volatrice.

- Hai veduto l'ornitoptero di Adolfo Pado?

- E il multiplano di Guido Longhi?

Le tettoie nuove, dalle fronti dipinte alla maniera degli antichi pavesi, custodivano i più diversi mostri artificiati con le materie più diverse, coi più diversi ingegni. Per mezzo alle ampie tende di tela agitate dal turbine delle eliche in prova, apparivano a quando a quando le strane forme delle chimere senza bellezza e senza virtù, partorite dalla mania pertinace o dalla presunzione ignara, condannate irremissibilmente a sollevare la polvere e ad arare il suolo: ali ricurve e aguzze costrette al remeggio con uno stridore di usci in cardini rugginosi; adunazioni di celle quadrangolari, simili a mucchi di scatole senza fondo; lievi scafi oppressi da impalcature sovrapposte, simili a fragili canghe; alberi giranti forniti d'una sorta di cilindri cavi come i burattelli di stamigna nei frulloni dei fornai; lunghi fusi ferrei con un gran cerchio a ogni estremità, fatto di cotonina imbullettata su stecche, a simiglianza della ruota a pale nel mulino natante; congegnature di aste e di ventole in guisa di quegli arnesi mobili che servono a ventilare le stanze nelle colonie torride; difficilissimi intrichi di sàrtie, di traverse, di longherine, di tubi, di stanghe, di spranghe; tutte le composizioni del legno, del metallo, del tessuto intese all'impossibile volo.

E ciascuna macchina aveva in sé il suo fabro come il ragnatelo ha il suo ragno, indissolubile. Sotto o sopra le ali, tra due serbatoi a forma di obice, dietro l'elica solitaria, addosso all'alveare del radiatore, ora coperto ora scoperto, ora dominato ora dominante, l'uomo era prigione del mostro da lui partorito. Taluno col gesto perpetuo dei dementi manovrava una leva, volgendosi di continuo a osservare l'effetto; e mostrava così or di fronte or di profilo una faccia barbuta di buon astrologo, con due occhi sporgenti arrossati e gonfiati dall'insonnio o dalla polvere o dalle lacrime. Altri, ben raso, rotondo, rubicondo, sorrideva a sé medesimo, tenendo i vasti piedi sul regolo, sicuro di portare il suo adipe fino alle stelle. Altri, emaciato e illuminato come gli asceti, pareva sedesse dinanzi al suo telaio ideale e continuasse a tessere il suo sogno senza fine. Altri, testardo e cupo, covava il suo furore contro il carcame inerte che aveva deluso una fatica decenne; e sembrava inchiodato per sempre nel suo sedile e nel suo proposito: «Tu non ti moverai, né io mi moverò». Altri era pallido e dolce come il ferito su la barella, scotendo a quando a quando il capo scoraggiato. Altri dalle arterie gonfie del collo taurino eruttava bestemmie tonanti a riempire le pause del motore affievolito. Di tettoia in tettoia il tragico e il buffonesco si avvicendavano, come nelle corsie dei manicomii. L'ombra monocola di Zoroastro da Peretola si chinava a commiserare con l'occhio di ciclope la pedonaglia starnazzante. Un beffatore invisibile, con un crudele strascico di voce, gittava di tratto in tratto il richiamo fatale: «Icaro! Icaro!» E allora lo schiamazzo della folla impaziente si mutava in uno scroscio d'inestinguibile riso.

- Eppure - disse Giulio Cambiaso - questi Icarotti con troppe ali, che son qui per tenere i piedi a pollaio, mi piacciono assai più di quei mercenarii insaccati nei braconi alla lanzichenecca e camuffati con la cervelliera di cuoio, che accendono a ogni momento la sigaretta della temerità.

Erano costoro i pratici del volano, vincitori di corse in circuito, che consideravano il nuovo apparecchio come un veicolo alleggerito su tre sole rotelle elastiche e munito di semplice o doppia velatura intelaiata. In servizio dei fabbricanti d'uccelli artificiali, mettevano a guadagno le ossa e l'ardire, avendo fiutato il favor popolare pel nuovo gioco circense. Essi avevano già la loro divisa, la loro maniera, il loro gergo, le loro millanterie, le loro ciurmerie, le loro cabalé.

- Che guardi, Paolo?

- Nulla.

- Ci sono oggi su le tribune più penne pennacchi piume e piumoline che nel côm di Sandaleh o nella garzaia di Malalbergo. Comincia l'emigrazione verso il recinto, con licenza dei commissarii.

- Il vento gira. S'abbassa il quadrato rosso e monta il nero: da sette a dieci metri. È issata la fiamma bianca.

- Peccato che non abbiamo pensato a portar qui i nostri aironi protettori nelle gabbie di papiro da sospendere alle travi delle tettoie, per divertire dame e damigelle!

Diventi misogino?

- Scherzo. Tuttavia c'è qualcosa di sinistro in certe sfingi che covano l'enigma tra le latte di benzina e le brande dei meccanici.

- Sei più severo di Dedalo, che fu tanto compiacente verso Pasife.

- Saggezza del sottile Ateniese! Giusta assegnazione d'ufficio! Costruendole la vacca infame, assegnò al toro quello d'intrattenerla. Ed egli, che praticava il volo basso come Henry Farman, andò ad atterrarsi in Sicilia, immune dalla strutta figliale. Ammirabile esempio!

- Vuoi ammonirmi?

- Né anche per sogno. Hai guardato l'amica di Roger Néde? È una Cretese escita or ora dal simulacro vaccino ed entrata in una spoglia serpentina di «chez Callot».

Era spaventosa; quasi sempre in fondo alla tettoia rude come nell'ombra d'un'alcova molle, visibile a traverso i fili d'acciaio, a traverso il polverio che il vento dell'elica sollevata dal suolo rossastro, fra gli scoppii del motore in moto, fra le tuniche azzurre dei meccanici lucenti di sudore e di olio, inguainata nella stretta gonna come nella pelle della sua pelle, tutta distinta di particolarità squisite che squisitamente vivevano su lei, come le sue ciglia come le sue unghie come la pelurie della sua nuca come i lobi delle sue orecchie; liscia odorante e lubrica, con una bocca dipinta ch'era dipinta dal rosso del minio e forse di queste parole: «Dal cuore premuto dell'onta - spremetti la dolcezza del frutto - ch'era mortifero, onde non resta - se non la semenza di morte». Simili a lei, altre creature apparivano dove gli uomini s'apprestavano a giocare il gioco che poteva essere di fuoco e di sangue, vive e artificiali, lascive e sfuggenti, ora prossime come minacce, ora lontane come larve, simili a quella e simili tra loro nelle maschere nelle attitudini nelle fogge, suscitando con le lor simiglianze il sogno dell'enorme Vizio invisibile dalle cento visibili teste; ché le loro teste, coperte dai larghi cappelli, sorgevano su i lunghi foderi dei corpi come su i lunghi colli della bestia di Lerna.

Ma altre tettoie erano cangiate in ginecei dalle donne legittime, dalle floride figliolanze, perfino dalle nutrici e dai pedagoghi. La famiglia palpitante vigilava il portentoso uccello concépito nel suo seno, asciugava le care gocciole della fronte geniale, si turava con le molte mani i molti orecchi allo strepito prenunziatore del prodigio, contava nel grembo l'oro imaginario del premio giusto, spingeva lo strumento della nova felicità verso il campo dell'aratura, soffiava e risoffiava le sue speranze nella viadana o nell'olona insensibile, poi respingeva lo stupendo aratro nel ricovero, quivi deplorava l'inclemenza del cielo e l'incostanza degli stantuffi.

- Il vento gira. Quarta a ponente - disse Paolo Tarsis. - Soffia per colpi; vuole attacco per attacco. Io parto. E tu?

Egli aveva riconosciuto di lontano il passo ondeggiante d'Isabella Inghirami. E lo stringeva un'ansietà simile al terrore. E, senza indagare la causa, voleva ancora evitare, come aveva fino allora evitato, l'incontro della sua amica col suo amico.

- E tu, Giulio?

- Subito dopo di te.

- Hai mutata l'elica?

- L'ho mutata.

- Sei pronto?

- Pronto.

- A rivederci in alto.

- Spero che ti raggiungerò.

Si strinsero la mano; e stavano per separarsi, andando ciascuno al suo compito: che era di superare il compagno, tutti gli altri e sé stesso. Ma Paolo Tarsis seguì l'emulo per qualche passo; lo salutò ancora una volta.

Sembrava ch'egli volesse riempirsi il cuore di quel gran sentimento virile, inebriarsi di quella pienezza, sentire il pregio di quel dono a lui fatto dalla sorte robusta. Quasi tutte le amicizie umane sono fondate su la ragion leonina; ove l'uno prende più di quel che dona, l'altro fa atto d'offerta e d'abnegazione, si sottomette e si umilia, imita e consente, è tiranneggiato e protetto. Ma la loro amicizia era fatta di due stature eguali, di due pari potenze, di due libertà e di due fedeltà indomabili. Ciascuno misurava dal valore dell'altro il suo valore, riconosceva dalla tempra dell'altro la sua tempra, sapeva che il più difficile posto poteva esser tenuto a vicenda e che il più crudo avversario non poteva prevalere nella sostituzione. Quante volte l'uno aveva vegliato sul sonno dell'altro, per turno, in notti d'insidie, con le armi al fianco! E nulla più dolce e più grave di quella veglia, in cui a volta a volta era parso dalle grandi costellazioni australi creato pel dormente un destino più profondo.

Ora nell'occhio del compagno era una domanda assidua che non scendeva alle labbra: «In quali mani sei per rimettere la tua vita? Da quali unghie lucenti lascerai disfare la tua durezza

Egli l'aveva seguito, s'era indugiato per dare a quella domanda la sua risposta: «Ti ricordi, tu, di quel buttero che per bravata, il giorno della merca, nella tenuta dei Cesarini, da solo legava insieme le quattro zampe al giovenco e lo sollevava da terra? Così io faccio della bestia oscura che cresceva dentro di me e minacciava di soverchiarmi. La lego e la sollevo, e poi la marchio per la sua servitù. E mi scrollo, e ti do la mano, e ce ne andiamo per la nostra conquista liberi». Ma il compagno, oppresso da una improvvisa tristezza, non aveva voltato il capo.

 

 

Giulio Cambiaso a traverso la cortina udiva la voce d'Isabella Inghirami, ricca di toni di dissonanze di passaggi di sbalzi di spezzature come un canto incantevole, ora bassa ora soprana, ora infantile, quasi leziosa, ora maschia, quasi violenta; a volta a volta squillante e roca, ineguale e ambigua come certe voci rotte dalla conturbazione della pubertà: qualcosa di straordinariamente vivo ed insolito, qualcosa d'inverosimile, che lo attirava e lo irritava a un tempo. Egli stesso allora prese l'elica per le due pale e impresse il moto. Il rombo fece tremare le tavole, agitò la cortina, sollevò la polvere. Tra i lembi palpitanti apparve un volto bruno come l'oliva, e si sporse. Il vento sconvolse le rose di seta sul cappello tessalico, offese le lunghe ciglia che si chiusero su gli occhi chiari e sbigottiti.

- Si guardi, La prego, signorina! - egli gridò, con un gesto brusco. - Non rimanga !

Vana non indietreggiò ma avanzò guizzando fra i lembi che garrivano.

- C'è pericolo?

- Se il legno dell'elica si rompe o si scheggia, la forza del più piccolo frammento scagliato è incalcolabile.

Ella spalancò i grandi occhi pallidi come gli opali d'acqua. I meccanici la guardavano, tenendo con le braccia nerastre e untuose le traverse della fusoliera. Una striscia obliqua di sole, come già nelle aule ducali di Mantova, penetrava per una fenditura della parete rivelando il nervo d'un'ala, brillando nelle sàrtie d'acciaio, nei quattro metalli del motore bianco giallo rosso bruno.

- Può accadere? E se l'elica si rompe mentre si vola?

Ella aveva la voce un poco tremula; e le pareva che la paglia del suo cappello inghirlandato risonasse come il bronzo d'una campana.

- Preghi il Cielo che questo non m'accada mai - rispose il timoniere celeste.

Egli era come in un intervallo della realtà, dinanzi a quella creatura quasi sconosciuta, in una condizione dello spirito simile all'indeterminato ricordarsi.

- La morte dunque è sempre ?

- e dovunque.

- più che dovunque.

- È la compagna d'ogni gioco che valga la pena d'esser giocato.

- È orribile.

A un tratto il motore s'arrestò; le pieghe della cortina ebbero pace; la polvere decadde; i muscoli nelle braccia fosche s'allentarono; l'elica divina non fu se non un'asse verticale dipinta di colore d'aria. Il silenzio parve uccidere un grande essere fantastico che riempisse di sé tutto lo spazio chiuso, una specie di grande angelo abbagliante che si fosse dibattuto sotto le travi e abbattuto e spento in terra come un cencio terreo. E la striscia di sole fu triste, come nella stanza ducale; e apparvero le cose tristi ed eloquenti: le brande di ferro chiuse, onde pendevano i lenzuoli gualciti, le coperte di lana bigia; le rozze scarpe arrossate e polverose; i vecchi abiti appesi ai chiodi, quasi afflosciati da una squallida stanchezza; e qua e le scatole di latta, i pezzi di carta, gli stracci, una catinella, una spugna, un fiasco vuoto.

- Sia prudente - disse Vana abbassando la voce che tuttavia era tremula, quasi supplichevole, d'una supplicazione inopportuna.

- La prudenza non vale. Soli valgono l'istinto il coraggio e la sorte.

- Il Suo amico...

Ella s'interruppe; poi riprese, rapida.

- Il Suo amico Tarsis parte prima di Lei?

- I meccanici trasportano già l'apparecchio sul campo di slancio.

- È troppo ardito.

- Non bisogna mai tremare per lui.

- Perché?

- Non si sa perché certi uomini nascano al pericolo, che li fa immuni.

- Crede questo?

- Certo.

- Anche per sé?

- Anche per me. A Madura, nell'ombra della pagoda di Visnù, un indovino dalla testa rasa masticando le foglie chiare del betel ci presagì che, avendo vissuto della stessa vita, moriremo della stessa morte.

- Crede al presagio?

- Certo.

- E perché sorride?

- Perché ora mi ricordo...

- Di che si ricorda?

S'udiva giungere dagli steccati il clamore della moltitudine, ora prossimo ora lontano. Il cavallo d'un cavalleggere nitrì. Il galoppo d'una pattuglia risonò sordamente su la brughiera.

- Giovanni, è pieno? - domandò Giulio Cambiaso all'uomo che versava l'essenza nel serbatoio.

Aveva quasi forzata la sua attenzione verso quella realtà, come per vincere l'indefinibile sentimento di assenza e di distanza ond'era occupata la profondità della sua vita. Egli rivedeva le chiostre della pagoda, le piscine gremite di torsi ignudi e di teste rase, il popolo d'iddii di dèmoni di mostri scolpito nelle lunghe logge cupe, nei tabernacoli nelle nicchie nei pilastri, bordato dagli escrementi dei pipistrelli innumerevoli. Riudiva il mugghio dei buoi, il barrito degli elefanti che s'inginocchiavano nel loro fimo.

- Manca poco - rispose l'uomo, estraendo la piccola canna introdotta nel foro del serbatoio per misurare la quantità.

- Sia pieno, fino al tappo.

L'uomo, ritto sopra una capra, col volto lucido di sudore, riprese a versare pianamente l'essenza dal vaso cubico nell'imbuto avvolto in un filtro di tela giallastra. Come la striscia di sole passava a quell'altezza, si vedeva il liquido colare tra le dita ferme luccicando.

- Di che si ricorda? Dica! - soggiunse Vana con timida insistenza, arrossendo lievemente sotto il cappello tessalico.

- Mi ricordo che, mentre l'indovino proferiva il presagio profumato dal gengivario, una giovane Indiana dalle pastoie d'argento era presso il banco di un mercante; e si volse verso di noi.

Egli affisava in lei uno sguardo di sogno, un sorriso smarrito.

- Olivigna, se bene lisciata con la radice della cùrcuma, aveva quella purità di lineamenti che è propria delle più delicate miniature indoperse, dove la Bella s'inchina a bevere l'anima della rosa mentre passa il Cavaliere in drappi d'oro sul palafreno di color cilestrino balzano da tre. Come Le somigliava!

- Oh, no.

- Se chiudo gli occhi, la rivedo viva. Se li riapro, la rivedo più viva.

- Oh, no.

- Oggi è senza gioielli; allora n'era carica, per la festa sacra. Comperava dal mercante il croco purpureo, la mandorla dell'arèca ridotta in polvere, la ghirlanda di rose gialle.

- Oh no! Quelle che porto?

Ne aveva d'arida seta intorno al cappello, di fresco roseto alla cintura.

- Quelle. Ma erano per l'offerta, erano per gli idoli. Udimmo il tintinno dei cerchi d'argento alle caviglie, quando si mosse per andare verso le due grandi statue levigate di diorite già mezzo sepolte sotto i fiori. Una rosa le cadde giù pel suo panno azzurro, su le lastre che riflettevano i suoi piedi nudi. Lesto mi chinai per raccoglierla, ma la devota fu più lesta di me.

- Eccola - disse Vana spiccando una rosa gialla dalla sua cintola azzurra come l'oltramarino smortito nei fondi delle lunette sacre.

E la porse all'evocatore. E si stupì che quella parola e quel gesto si fossero partiti dallo spirito misterioso ond'era piena, da un indicibile spirito di ricordanza e di ritornanza suscitato senza causa. Ma quando vide la sua rosa all'occhiello di quell'uomo quasi sconosciuto, voleva soggiungere: «No, no! Ho fatto per gioco; non so perché l'ho fatto. Me la renda. La getti. Sono una piccola sciocca».

E tuttavia si piaceva e s'indugiava nella finzione; come sua sorella, come ogni donna viva, si piaceva d'entrare e d'intrattenersi in un simulacro insolito di sé, in una forma imaginaria di esistenza. Per prolungare l'incanto voleva soggiungere: «E poi? Dove andò l'Indiana dalle pastoie d'argento, ch'era fine come le miniature? che fece del suo croco, della sua polvere, della sua ghirlanda?» Ella sentiva il colore olivigno del suo proprio volto, la linea ovale della sua propria finezza; imaginava il freddo delle lastre polite sotto le piante dei suoi piedi nudi; intravedeva qualcosa di vago, come una speranza e una paura senza oggetto, come un evento senza tempo, come una enormità nascosta che somigliava quegli enormi idoli di pietra nascosti dai fiori. Né meno fantastica le pareva la sua presenza tra le cose presenti. Prima di guizzare tra i lembi della cortina, la sua figura era forse più dissimile a quella alzata presso il banco del mercante nella pagoda di Visnu che a quella alzata presso il congegno dedàleo nella tettoia piena di rombo?

I suoi pensieri si sfogliavano sul suo cuore, come si sfogliava lungo le pieghe della sua gonna la rosa vicina dell'altra ch'ella aveva colta dalla cintola col gesto inconsiderato. «È possibile che anch'io me ne ricordi? Si sogna sempre. Perché sono qui? Anche questo è sogno. Isabella mi cerca, Aldo mi cerca. Sono stata presa nel vento dell'elica come una festuca. Nessuno m'ha vista. Ah, mi so nascondere da voi! Sono lontana, sono lontana! Un grande amore improvviso? Qualche volta l'amore si parte dall'estremità della terra, a piedi nudi, per portare una rosa. È il fratello di Paolo. Ha i denti piccoli e puri come quelli d'un bimbo. Non voglio più piangere. Mi potrei consolare? Qualche volta nasce un soffio e ci porta il nostro vero destino. Che direbbe Paolo? e Isabella? Ci sarà una pena anche per loro. Forse già m'ama. Sono sciocca. Ma come tutto questo sarebbe strano! Ora parte, ora vola, ora se ne va nell'aria, se ne va con la mia rosa gialla nel cielo; la rosa si sfoglia, le foglie cadono chi sa dove; e tutto finisce, tutto è dimenticato. Un giorno riceverò un libro di miniature... Ah, forse Paolo è già partito! Non bisogna temere per lui. Perché? Moriranno della stessa morte! Non è dolce Paolo per Isabella in questi giorni, oh no. Che mi importa? che mi giova? Non voglio più sapere, non voglio più vedere. Ha gli occhi lionati. Che penserà di me? Sono venuta da Madura, con l'indovino che mastica le foglie di betel... Ah, non è vero! Il mio cuore non è qui. Per andarmene, gli stringerò la mano? Dopo, mi cercherà? mi vorrà rivedere? La luce mi fa male, la folla mi fa male. Potrei rimaner qui, sedermi su una di quelle brande per aspettarlo, con un libro di miniature... Vanina, vana, piccola Indiana impastoiata

Così i suoi pensieri lievi si sfogliavano sul suo cuore; ma dentro persisteva l'inquietudine cruda come un'angoscia, che l'aveva spinta in quel luogo ignoto come in un rifugio. «Ah, mi so nascondere da voi! Sono lontana, sono lontana!» Ella era separata dai suoi carnefici; sfuggiva alle tratte della tortura; riprendeva respiro in una specie di aura fortunosa che forse era per trarla più lungi ancora. E tra la sua pena e la sua maraviglia, tra la sua paura e la sua speranza, tra il suo ricordo e il suo presentimento s'insinuava una specie di piacere vendicativo, quando ella vedeva negli occhi lionati accendersi un bagliore di fosforo e brillare i piccoli denti bianchi nel fulvo della barba simile al rame dorato che si sdora. E soltanto quel piacere era certo, ché tutto il resto era confuso. Ed ella sentiva in sé la sua giovinezza come una immortalità.

- Una rosa perduta, una rosa ritrovata! Chi La manda a me? Veramente viene di Madura? Ha fatto tanto cammino? È la prima volta che porto un fiore nel cielo. Crede che sia leggero? Forse pesa quanto un doppio destino. Lo porterò in alto in alto. Le prometto che lo porterò oggi a un'altezza non raggiunta mai da me né da altri, sopra le nubi.

- Oh, no.

- Non me l'offre per questo? Non per questo la Sua cintura è azzurra? Dal minimo cerchio al massimo cerchio dello stesso colore.

Egli era animato da un'ebrezza inconsueta, e da un sorriso ammirabile che temperava la sua energia e la sua malinconia. Sembrava che l'apparizione improvvisa di quella creatura sognata e sognante risvegliasse in lui una musica di gloria, onde il mondo sorgeva splendido fervido libero come non mai. La sua diffidenza e il suo dispregio lo abbandonavano. Tutta la sua anima era avvolta intorno a una nuova fatalità e n'era rischiarata ma la nascondeva, come un velo ricco intorno a una lampada notturna. Qual genio aveva condotto verso di lui quella creatura, ch'era la sorella della donna che il suo amico amava? in virtù di quale armonia segreta?

- Pronti pel campo! - comandò egli ai suoi uomini, e assicurò la rosa a sommo del suo petto.

Il grande angelo abbagliante si dibatteva ancora sotto le travi? La tettoia era in quel punto piena di turbine e di fragore, ché l'elica aveva ripreso i suoi giri, non più legno visibile ma astro d'aria nell'aria. E i meccanici ne provavano la forza, avendo legato la fusoliera con un canapo a un misuratore metallico e questo a un palo; e il canapo si tendeva allo sforzo come se la grande Àrdea prigioniera fosse impaziente d'involarsi; e un uomo inginocchiato osservava la freccia dell'indice.

- Pronti - rispose al comando una voce fedele. E l'elica s'arrestò; l'Àrdea fu sciolta, cessato il battito del suo cuore settemplice. Afferrandola per le traverse del corpo e le cèntine delle ali, gli uomini si accinsero a spingerla verso il campo di slancio. Le tende scorrevoli si aprirono; un'opulenta luce bionda fluì, come venuta dall'oro delle più lontane messi italiche. Un cumulo di nubi apparve, alpe ariosa d'ambra e di neve. Il clamore della moltitudine dava il fiotto marino alla pianura selvaggia. Un uomo era nel cielo, fragile e invitto, con tutto il busto emergente dal dosso dell'airone, disegnato contro la vasta bianchezza. Primi i due occhi chiari lo riconobbero.

 

Come l'aquila nella valle arenosa non balza a volo ma parte con rapido passo, corre accompagnando la corsa con un crescente fremito di penne, si separa dalla sua propria ombra salendo con debole erta, alfine si libra su la vastità dell'ali rimontando il filo del vento: prima gli artigli segnano impronte profonde, dopo a grado a grado più lievi, sinché sembrano appena scaifire la sabbia, e l'ultima traccia è invisibile: così la macchina su le sue tre ruote leggere correndo nel fumo azzurrigno, quasi che l'erbe secche della brughiera le ardessero sotto, lasciava la terra.

Rapidamente s'inalzò. Alla manovra del timone di altura beccheggiò fuggendo i mulinelli, che sorgevano dal calore del suolo per aggirarla in piccole volute. Affrontò il vento; e aveva l'oscillazione del gabbiano quando rimonta, simile a quella dell'acrobata su la corda tesa. S'inchinò verso la prima meta nella virata; si raddrizzò; diritta e veloce a saetta percorse la linea verde della pioppaia di Ghedi; sorpassò i casali, contrastando ai rifoli, orzeggiando di continuo; entrò nel riverbero candido delle nuvole, fu bella come la figura del dio solare di Edfu, come l'emblema sospeso su le porte dei templi egizii, tutt'ala.

Giulio Cambiaso non aveva mai sentita così piena la concordanza fra la sua macchina e il suo scheletro, fra la sua volontà addestrata e quella forza congegnata, tra il suo moto istintivo e quel moto meccanico. Dalla pala dell'elica al taglio del governale, tutta la membratura volante gli era come un prolungamento e un ampliamento della sua stessa vita. Quando si curvava su la leva a manovrare contro un colpo un salto un buffo; quando inchinava il corpo verso l'interno del circolo nel veleggio roteante, per muovere con la pressione dell'anca il congegno inteso a inflettere la velatura estrema; quando nell'andare all'orza manteneva l'equilibrio con un bilanciamento infallibile intorno al centro di stabilità, e trovava a volta a volta il modo di trasporre l'asse del volo, egli credeva esser congiunto ai suoi due bianchi trapezii con nessi vivi come i muscoli pettorali degli avvoltoi, che aveva veduto piombarsi dalle rocce del Mokattam o aggirarsi su l'acquitrino di Sakha.

«Fratello, fratello, siamo solitarli, siamo liberi, siamo lontani dalla terra tormentosapensava Paolo Tarsis che, avendo già compiuto il primo giro, veniva sopravvento al suo compagno per raggiungerlo.. «Non voglio più esser triste, non voglio più divorarmi il cuore, non voglio più nasconderti il mio supplizio. Ho bisogno di chiamarti, di gittarti il mio grido, di riudire la tua voce nel volo. Se tu vinci, io vinco. Se io vinco, tu vinci. Com'è virile il cielo, oggi

Egli lasciava dietro di sé la turbolenza della sua passione, il riso agitante d'Isabella, lo sguardo febrile e ostile dell'adolescente, la vanità delle amiche, la stupidità degli accompagnatori, tutto quello stuolo intruso che l'aveva assalito e oppresso. Ritrovava il suo silenzio il suo deserto il suo compito.

- Àrdea!

Mille e mille voci conclamavano il bel nome laziale. Dalle tribune, dagli steccati, dai carri fermi su la strada di Calvisano, su la strada di Montichiari, su i crocicchi aelle strade candide, dai grappoli umani appesi agli alberi di confine, dai mucchi nereggianti su i colmigni delle cascine, dall'immensa moltitudine di fronti alzate verso le vie divine, dall'innumerabile maraviglia saliva il clamore come un tuono o come un fiotto intermessi.

- Àrdea!

Paolo Tarsis raggiungeva il compagno, gli passava a portata di voce, era preso nel vortice dell'elica gemella, sbandava, rullava, guizzava fuor della rotta, scivolava con la velocità del vespiere, piombava a un tratto come l'astore, risaliva quasi verticalmente come il germano, mostrava contro il fulgore le nervature delle sue tele, virava intorno all'asta della meta così stretto da radere con l'ala inflessa la punta della fiamma ondeggiante. Egli aveva gittato verso il compagno il grido di riconoscimento e di allarme, consueto a entrambi nelle scorrerie nelle cacce nei bivacchi. Gli era giunto? La risposta s'era perduta nel rombo?

- Àrdea!

La folla iterava il clamore inebriandosi a quel gioco grazioso e terribile, a quella gara di eleganza e di ardire, a quella disfida allegra tra due volatori della medesima specie. In un golfo ceruleo, lunato tra cumuli d'ambra, apparvero entrambi inseguendosi come due cicogne prima della cova, librate su le lunghe ali rettilinee; poi si persero bianchi nella vasta bianchezza. E, suscitati dall'esempio, altri si lanciarono, altri si levarono, s'inseguirono. Tutte le tettoie rombarono e soffiarono, gonfie di procella come le case di Eolo. Trascinati a braccia sul campo, trattenuti dalle braccia muscolose, rapiti infine dall'astro violento dell'elica, i velivoli partivano l'un dopo l'altro a conquistare il cielo magnifico, taluni giallicci come i capovaccai, taluni rossastri come i fiamminghi, taluni cinerognoli come le gru. Scoccavano come i silvani, volteggiavano come i rapaci, strisciavano come le gralle. Nello strepito imitavano da lungi l'applauso come i colombi, il tintinno come i cigni, la raffica come le aquile. Tutte le forze del sogno gonfiavano il cuore dei Terrestri rivolti all'Assunzione dell'Uomo. L'anima immensa aveva valicato il secolo, accelerato il tempo, profondato la vista nel futuro, inaugurato la novissima età. Il cielo era divenuto il suo terzo regno, non conquiso col travaglio dei macigni titanici ma col fulmine fatto schiavo.

E il cielo viveva come la moltitudine, come quella ebro di maraviglia e di gioia, di superbia e di terrore, di violenza e d'infinito. Era uno di quei sublimi cieli d'Italia, che rinnovano in un'ora le trasfigurazioni secolari degli artefici operate nelle volte dei palagi e nelle cupole dei templi, creano e distruggono tutte le imagini della grandezza, conciliano l'argentea voluttà del Veronese e la terribilità pietrosa dei Buonarroti. Le nuvole erano un architettura e una stirpe, una materia foggiata dallo statuario e dal figulo, una gerarchia di angeli, una genia di mostri, un paradiso di fiori. Sorgevano dai monti, si adeguavano alle colline, si laceravano alle cime dei pioppi. Simili a trombe d'acqua lattescente, vibravano di luce in sommo come le sensitive trasparenze degli esseri marini abitate dall'inquietudine di un fuoco spirtale. Simili alla carne giunonia nel punto della metamorfosi che ingannò il Lapite reso folle dal nettare, s'irradiavano d'un sangue improvviso; poi subito si coprivano di macchie smorticce come le squame caduche dalla pelle infetta di lebbra. Simili a un'argilla diafana sul tagliere d'un vasaio che la foggiasse con dita invisibili, prendevano la forma dell'urna; e un'ansa nasceva dal fianco, docile s'incurvava appiccandosi al labbro, nel vano includeva l'azzurro, e tutto lo sparso azzurro intorno non era come quel poco. Altre simigliavano altre figure altre creature altre favole altre arti. Il mondo dei miti e dei sogni rioccupava la cavità del cielo, evocato dal nuovo sogno e dal nuovo mito.

Allora fu visto uno dei grandi uccelli dedàlei inchinarsi verso terra, risollevarsi, sbandare, nella virata bassa urtare contro il suolo, restare immobile su l'ala infranta con alzata l'ala intatta senza il battito dell'agonia, esanime avanzo di vergelle e di canape, lordo di olio nero. L'uomo balzò dai rottami, si scrollò, guardò la sua mano sanguinante, e sorrise.

Allora fu visto un altro velivolo, come quei rapaci notturni che abbarbagliati dal sole cozzano contro l'ostacolo e tramortiscono, precipitarsi contro lo steccato, abbatterlo per un lungo tratto fra alte strida, capovolgersi con tutte le tele lacere, tutti i nervi recisi, tutte le ossature stronche, silenzioso dopo lo stroscio in un cerchio d'orrore, muto sfasciume sul suo cuore di metallo ancor caldo e fumante. La folla sbigottita e avida fiutò il cadavere, non apparendo dell'uomo se non le gambe prese nei fili d'acciaio aggrovigliati. Ma quegli fu tratto dall'intrico, fu dissepolto, fu rimesso in piedi.

Pallidissimo, vacillò, si ripiegò, mozzò tra i denti il ruggito dello spasimo, sotto le dita che lo palpavano. Aveva il femore in frantumi. Due soldati lo trasportarono sopra una delle tavole abbattute dal cozzo, supino con gli occhi verso le nubi. L'ombra d'un volo vittoriòso passò su la sua disperazione.

Allora fu visto di subito apprendersi ad altre ali il fuoco senza colore, che non appariva nel giorno se non pel rapido annerirsi e involarsi della tela su per le nervature di faggio e di frassino già crepitanti come sermenti. Divampava nella rapidità l'incendio, scoppiando le fiamme dalle valvole semiaperte. Come una grande falarica avvolta di stracci intrisi in olio incendiario, scagliata dalla corda della balista, l'ordegno percosse la terra con tale impeto che vi s'addentrò. Esplose nell'urto il serbatoio inondando la carcassa schiantata e l'uomo vivo. La fusoliera ardeva come un brulotto. Nella coda simile alla cocca del quadrello, erette le timoniere stridivano.

E allora fu visto l'uomo vivo avviluppato dal fuoco senza colore rotolarsi su l'erbe arsicce con una furia così selvaggia, che il suo cranio dirompeva il suolo friabile. La folla urlò, presa alle viscere non dalla pietà pel morituro ma dalla frenesia del gioco mortale. Un altro uomo, che volava nella nube, con un colpo temerario del timone d'altura calò giù a piombo come l'avvoltoio sul pasto; a poche braccia da terra si librò seguendo lo strazio dell'affocato che ancora s'avvolgeva sopra sé stesso invincibilmente, si sporse alquanto per riconoscerlo; lo guardò spento arrestarsi; rapido s'impennò, risalì per l'aria, s'inazzurrò nell'ombra, si dorò nel sole, continuò la sua rotta. Lo raggiunse l'urlo della folla in delirio:

- Tarsis! Tarsis!

Il soffocatore della vampa era sorto in piedi, nericcio, fumido, oleoso, coi capelli strinati, con le vesti incarbonite, con le mani cotte, atrocemente vivo. A duecento metri da lui, del suo ordegno distrutto non rimaneva se non il motore arroventato fra i tubi contorti e divelti. Egli guardò le sue mani che avevano strozzato il fuoco ribelle.

Un delirio crudele venò di rosso i mille e mille e mille occhi levati verso il convesso circo celeste. La cruenta gioia circense rifluì nei precordii ansiosi. Un subito aumento di vita estuò sotto l'imminenza della morte. Le ali dell'uomo parvero non più fendere il cielo insensibile ma l'anima oceanica della specie, gonfiata come una marea sino alla linea del più alto volo. Gli elementi asserviti, le forze naturali sottomesse; le divinità constrette erano pronti sempre a insorgere per lacerare, per annientare il fragile tiranno, come quelle belve prigioni che si scagliano contro il domatore se a pena egli batta le palpebre o distolga la punta dello sguardo. La lotta era incessante, il pericolo era onnipresente. Come l'Ortìa sanguinaria dell'antica Tauride, l'Ignoto non stava assiso ma ritto in piedi su l'ara esigendo i sacrifizii umani. Le vittime osavano guardarlo con pupille inflessibili, fino al limite del Buio. Che erano mai al paragone i giuochi dell'anfiteatro? L'uomo non più andava alle fiere nell'arena angusta, ma alle macchine micidiali su le vie della terra del mare e del cielo; e il pollice riverso era di continuo sopra lui. Un'ombra tragica e una luce tragica a volta a volta oscuravano e irraggiavano lo spazio.

- Tarsis! Tarsis!

L'Àrdea continuava la sua rotta, girava le mete nel decimoquinto giro. Il Latino era per ritogliere il primato al Barbaro. Nella calca efimera e indistinta le radici eterne della stirpe fremettero. Tutti i cuori furono alati per sostenere il volo eroico. Tutte le gole riverse gittarono al prode il suo nome come un soffio sonante che incitasse la rapidità. Gli comandarono di vincere.

- Tarsis!

Egli sosteneva il volo con la sua pazienza, incitava la rapidità con la sua febbre. A quando a quando, contro la nuvola o contro l'azzurro, il suo busto emergente appariva proteso come per l'istinto di acuirsi, di sfuggire al contrasto dell'aria, di adeguarsi alla forma del fuso e del dardo. E gli occhi più perspicaci o i meglio armati scorgevano il suo capo scoperto, a cui il vento aveva rapito il camaglio; scorgevano il suo viso affilato, onde pareva esalarsi l'ardore dello sforzo come di fra le alette dei cilindri il calore dell'attrito, quel viso fatto quasi di fluida violenza, quasi che il vento rovesciasse indietro non soltanto i capelli di su la fronte ma dal mento alle tempie tutte le fibre dei muscoli palesi.

- Tarsis!

Egli era omai solo. Il cielo ridiveniva deserto. Qua e sul campo i velivoli s'atterravano: si posavano come migratori affaticati, cadevano sul fianco o sul rostro come falchi feriti. Una luce fulva, lo splendore distante delle biade mature, si spandeva su la brughiera selvaggia. L'abete degli steccati brillava come oro forbitissimo. Le mura delle cascine, le facce delle chiese e delle ville, i culmini dei campanili e delle torri in lontananza ardevano. Le ombre delle mete, delle travi, delle antenne s'allungavano.

Egli era solo: non vedeva più nulla, se non l'astro vorticoso dell'elica; non udiva più nulla, se non il palpito eguale del motore, la settupla consonanza. - Dov'era il suo compagno? che gli era accaduto? quale cagione l'aveva costretto a discendere? - Percepì una pausa in un cilindro, un'altra pausa in un altro, poi più pause intermesse; e il cuore gli si serrò, e gli parve di farsi esangue come se le sue arterie si vuotassero nei tubi metallici. - La sorte lo tradiva d'improvviso? - Orzò di punta, contro un rifolo; manovrò di gran forza, radendo contro strettamente quanto più poteva; girò la meta penultima virando a pochi pollici dal pennone; di tutta la sua volontà fece un dardo inflessibile, fece uno di quei dardi che i feditori chiamavano soliferro, tutto ferro asta punta e cocca; tracciò con l'animo sino al traguardo una linea più diritta di quella che le maestranze segnano col filo della sinopia. Quando l'animo che aveva trapassato i sensi rientrò nel cuore, egli poté udire con l'orecchio pacato il lavoro dei cilindri ridivenuto unisono, il palpito energico ed esatto. Per istinto, come se il suo compagno fosse , modulò la voce gutturale; ch'era il segno del contento nel loro gergo bizzarro di tenda e di ventura appreso dalle bestie domesticate e dai linguaggi barbarici. Rise in sé solo, pensando come in quel punto dovesse agitarsi l'enorme pomo d'Adamo su e giù nella gola secca di John Howland. Gli tornò alla memoria lo strano riso dell'ornitologo amico degli avvoltoi, simile a quel rumore di tabella che fanno col becco le cicogne: «Alis non tarsis». Vagò per pensieri involontarii e informi, come se d'un tratto la sua attenzione si fosse dispersa, come se l'evento avesse perduto ogni valore. Poi ebbe il petto traversato dall'imagine d'Isabella: rivide il viso di fascino e di periglio sotto la larga falda ornata dall'airone bianco a lunghe piume tremule, rivide il gioco dei ginocchi nella gonna cinerina che con l'arte di due pieghe inesplicabili imitava due ali chiuse. Fu pieno d'ebrezza e di vendetta. Ancora un giorno d'attesa!

Subitamente l'intervallo si chiuse; il nucleo della forza si ricompose. Di nuovo egli sentì che le sue vertebre armavano tutto il congegno e che l'ossatura delle ali, simile all'omero tubulare dell'uccello, era penetrata dall'aria stessa dei suoi polmoni. Di nuovo gli si creò nei sensi l'illusione di essere non un uomo in una macchina ma un sol corpo e un solo equilibrio. Una novità incredibile accompagnò tutti i suoi moti. Egli volò su la sua gioia. Una intera stirpe fu nuova e gioiosa in lui.

- Àrdea! Tarsis!

Scorse issato su l'albero dei segnali il disco che segnava la sua vittoria. Udì salire il fiotto marino. Guardò: intravide la massa grigia della folla, pallida di facce, irta di mani. Se bene volasse a calata per girare la meta, gli parve di alzarsi vertiginosamente per superare un culmine immobile. S'inchinò, virò, passò, in un tuono di trionfo, in uno sprazzo di fulgori, bianco e lieve, sfavillante di rame e d'acciaio, sonante di fremito: messaggero della più vasta vita.

 

Allora, mentre il vittorioso proseguiva la sua rotta per superare la sua vittoria così che ogni speranza di rivincita nel vinto fosse vana, su l'albero dei segnali apparvero i due triangoli neri che nominavano Giulio Cambiaso, e il quadro bipartito bianco e rosso che indicava la gara del più alto volo.

Durava tuttavia nella moltitudine la violenta fluttuazione che succede alla tempesta. Nell'anima immensa ferveva e luceva il solco eroico lasciato da colui ch'era scomparso anche una volta tra ombra e luce, per cercar di porre ancor più lontano la sua erma nell'intentato. L'ansia era ancora aspettante: L'annunzio della nuova prova era una promessa magnifica e tremenda sospesa nel vespero. Quando il compagno di Paolo Tarsis montò su l'Àrdea per partire, ogni tumulto cadde. L'elica rombò nel silenzio.

«La rosa di Madura, la rosa ritrovata! È la prima volta che porto un fiore nel cielo. Dove sarà la piccola Indiana olivigna? Forse mi guarda, forse ha paura, forse la sua dolce anima trema nella sua cintola azzurra, sotto il cappello inghirlandato. Che strana visita! La rivedrò quando sarò disceso? la incontrerò più tardi? Paolo troverà ancora un pretesto per tenermi lontano... La rosa gialla di Madura! La porterò in alto in alto

Il polo del cielo era sgombro, in forma di orbe, come veduto dall'arena di un anfiteatro, cupola incurvata su l'ordine dei pilastri e degli archi. I portici colossali delle nubi lo sostenevano, domato l'incendio. Uno spirito misterioso inspirava le figure informi, che su i fastigi s'allungavano s'inchinavano si rovesciavano come la Notte e l'Aurora su i sepolcri medicei, come nel volume della Sistina i Profeti e le Sibille. Sparivano la città di legno e le sue piccole cose, ma le grandi s'ingrandivano con l'ombra e con l'ansia. Ora la Nike su la colonna romana era grandissima.

«La porterò a un'altezza non raggiunta mai da me né da altri, sopra le nubi.» E l'Àrdea girò con largo giro intorno al bronzo verde. L'ala rettilinea fu bella come l'ala solare consacrata dal culto egizio. Il popolo, che aveva tratto la dea sul carro e ridato al vento il peplo dorico, sentì la duplice bellezza e gridò la prima sillaba dell'inno senza lira. Incominciava per lui una atroce gioia.

A onde, a cerchi l'Àrdea saliva. D'onda in onda, di cerchio in cerchio il rombo si faceva più fievole; d'attimo in attimo perdeva ogni violenza: fu come il battito della maciulla su l'aia, fu come il ronzio d'uno sciame nell'arnie, fu come i rumori agresti che cullano i sogni, fu come i canti che lontanano, come i canti che lontanando aprono l'infinito della tristezza e del desiderio; parve inazzurrarsi come la macchina, come l'uomo; s'ammutolì, non fu più nulla; non poté più essere udito se non da quel solo.

La folla era protesa in ascolto, con l'anima nelle pupille, trattenendo il respiro. E la diminuzione graduale del suono creava in lei un sentimento della lontananza così profondo, che la sua vista n'era illusa. L'uomo sembrava già assunto in un'altezza incalcolabile, interamente disgiunto dalla sua specie, solo come nessuno mai fu solo, fragile come nessuno mai fu fragile, di dalla vita come il trapassato. Lo spavento dell'ignoto incavò tutti i petti.

«Non più! Non più!» diceva lo spavento. «Ancora! Ancora!» diceva lo spasimo avido d'un altro spasimo.

«Non più! Sei già troppo alto. Dài la vertigine

«Ancora! Sali! Tocca almeno l'orlo di quella nube

«Non più! Un soffio può ucciderti, un nulla: un filo che si spezza, una scintilla che s'interrompe

«Ancora! Non cedere! Dove tu sei, fu già un altro uomo. Bisogna che tu superi il punto, che tu conquisti un cielo nuovo

«Non più! Ecco, precipiti

«Ancora! La morte ti ammira

E un urlo di tutti i petti ventò verso l'intrepido; ché su l'albero attrezzato biancheggiava il segno di gloria. L'Àrdea fendeva un cielo nuovo.

«Non più! Hai vinto

«Ancora! Stravinci

Lo spasimo della folla era come la pulsazione incessante d'una febbre unanime, che si comunicasse all'aria insensibile e giungesse fino a quell'ali d'uomo. L'unanimità sublime e selvaggia era come un elemento che si mescesse all'elemento e ne alterasse la natura e ne facesse come un modo di vita inopinato. Il cielo fu come un destino imminente.

«Ancora! Ancora!»

Pareva che la legge delusa non potesse più esser vendicata, che di dal limite il pericolo fosse scomparso, che per eccesso d'ardire l'uomo divenisse immune e impune. Omai l'ordegno non era se non una freccia sospesa per incanto nel cielo impallidito. L'attimo era eterno. Nessuna parola poteva esser detta. La moltitudine respirava nella favola come se , dove s'affisavano le miriadi delle sue pupille, fosse per risplendere una nuova costellazione.

- Discende! Discende!

Il fascino fu rotto. Fu detta quella parola, prima a bassa voce poi con clamore ineguale.

- Discende!

Si vedeva la freccia ingrandirsi, rapidamente ridivenire congegno alato. Qualcosa di lucido e d'opaco, a volta a volta luccichio lieve e ombra indistinta, solcava l'aria sott'essa. Forse tal fu la prima penna caduta dall'omero d'Icaro sul mare.

Una voce di terrore gridò:

- L'elica! Una pala dell'elica!

E il terrore si propagò per tutta la folla, non da voce a voce ma da carne a carne. Come si scolorava la nube, la folla si scolorò, irriconoscibile: un solo pallore occhiuto, col bianco d'innumerevoli occhi nelle orbite sbarrate, fiso alla sorte dell'uomo.

- Cade!

Le voci i rumori avevano un innaturale rimbombo, non nell'aria ma nell'anima.

- Cade! Cade!

E nessuno più gridò, nessuno più respirò. Tutta quell'umana angoscia ebbe una sola faccia convulsa, un solo sguardo seguace: vide le ali dell'uomo oscillare, inchinarsi dall'una all'altra banda come in un rullio folle; vide ai colpi del timone la lunga fusoliera impennarsi, beccheggiare, per alcuni attimi adeguare i piani nella librazione della discesa, dare in un baleno la speranza della salvezza, poi d'improvviso precipitare innanzi, senza più sostegno piombare con la velocità del peso morto, urtare la terra con uno schianto che nel silenzio cavo dell'anima parve un tuono.

Grido non partì, gesto non si levò. Per alcuni attimi, tutto fu immoto, tutto somigliò a quel fascio di tele e di verghe, a quel mucchio biancastro, a quel gran lenzuolo funerario, che distava dieci passi dalla base della colonna romana. Non la luce del vespero ma la luce dell'evento rischiarava le genti e le cose. La pianura ebbe un aspetto oceanico, le nubi furono come un ciclo di mondi, il cielo fu come il diamante impenetrabile. Il dominio delle forze eterne fu restituito.

Poi s'udì il galoppo dei cavalli accorrenti. Poi di sopra gli steccati la folla si rovesciò sul campo, avida di vedere il sangue, di guardare la carne lacera. Poi, su la folla che già ridivenuta selvaggia s'incalzava e si batteva per lo spettacolo atroce, stettero la colonna e la statua solitarie, due creature immortali dell'artefice efimero, che armavano di bellezza l'orgoglio invitto dell'uomo. Le ali di bronzo testimoniarono per le ali di lino.

- È morto? Respira? È schiacciato? Ha il cranio aperto? stronche le gambe? rotta la schiena?

Le domande lugubri comunicavano l'orrore agognato. Respinta dai cavalleggeri la folla ondeggiava, tumultuava. Le bestie crinite scalpitavano, sbuffavano, col sudore su i fianchi, con la schiuma nei freni. Per vedere, i più avidi si chinavano sotto le pance dei cavalli, s'insinuavano tra le groppe, restavano stretti fra sprone e sprone.

Come i rottami furono rimossi, districate le sàrtie, sollevate le tele, apparve il corpo esanime dell'eroe. L'occipite aderiva alla massa del motore per modo, che i sette cilindri irti d'alette gli facevano una sorta di raggiera spaventosa, lorda di terra e d'erba sanguigne. Gli occhi leonini erano aperti e fissi; la bocca era intatta e tranquilla, senza contrattura alcuna, senza traccia d'ambascia, coi suoi puri denti di giovine veltro nel fulvo della barba fine come lanugine. L'arteria della tempia, recisa da un filo d'acciaio con la nettezza d'un colpo di rasoio, versava un rivo purpureo che riempiva l'orecchio, il collo, la clavicola, le cellette sottostanti del radiatore contorto, un pugno semichiuso. Chinandosi un medico sul petto per ascoltare il cuore che non batteva più, sentì contro la guancia prona il fresco d'una foglia di rosa.

- Tarsis! Tarsis!

Un nuovo fremito corse allora la folla ebra e costernata, quasi che la doglia del compagno superstite s'irradiasse in lei. S'udiva distinto, nell'alta quiete del vespero, approssimarsi il rombo del volatore infaticabile che girava la meta.

 

La sera su tutte le strade era come una sera di battaglia. L'apparizione del fuoco e del sangue nel gioco eroico aveva esaltato anche le più umili vite. Indelebile rimaneva nella memoria l'imagine del cadavere avvolto nella fiamma rossa dei segnali e trasportato su la barella fra il popolo taciturno, per la triste landa, sotto l'albore crepuscolare inciso dal novilunio.

Ora su tutte le strade era l'inferno del fuoco e del ferro. I veicoli fragorosi, furenti di rapidità contenuta, fatti d'ombra informe e di splendore accecante, s'incalzavano, s'accalcavano. Fra gli scoppii e gli sprazzi, gli squilli rauchi delle trombe e gli ululi lugubri delle sirene si rispondevano come le voci del pericolo e dell'allarme. Il fumo e la polvere turbinavano in zone di luce violenta; un odore acre avvelenava l'afa; le figure umane apparivano e sparivano come larve, quasi perdute su i mostri ruinanti.

- Ah, orribile, troppo orribile! - lamentò Isabella Inghirami, tutta chiusa nel mantello e nel velo, stringendosi addosso a Vana che batteva i denti come nel ribrezzo della febbre. - Non s'arriva mai. Aldo, passa innanzi, passa, passa!

Un'impazienza irosa sibilava nelle sue parole. La sosta, nel fragore e nell'orrore, pareva senza termine.

- C'è il fosso a destra.

- Non importa!

- Ecco, si va.

La macchina avanzava per breve tratto, coi fanali contro il serbatoio di quella precedente; poi s'arrestava, pulsando, sussultando. Le sirene ulularono. Un cane latrò sul ciglio del fosso: colpiti dai raggi, gli occhi gli sfavillarono d'un bagliore demoniaco, più verdi degli smeraldi contro il sole.

- Vana, batti i denti?

- Ho freddo

- Tanto freddo?

- Sì.

- Hai forse un poco di febbre?

- Non so.

Entrambe erano velate, e neppure intravedevano i loro volti. La sera di giugno era umida ed elettrica. Lampeggiava, laggiù, verso il Garda. Vana teneva su le ginocchia le rose della sua cintura, per preservarle. Tutto era oltranza audacia constrizione, dentro di lei.

- Ti senti ancora svenire?

- No.

- Farò sapere a Giacinta Cesi che non andremo a pranzo.

- Sì. Ma tu puoi andare, forse.

Vana aveva già il suo proposito occulto.

- Credi?

Entrambe, oscure l'una per l'altra, sentivano soffrire le loro voci come si sente soffrire una mano bruciata, una caviglia distorta. Chiuse nella dissimulazione, caute, si palpavano con le loro voci come con qualcosa di dolente a cui ogni più lieve tocco sia un urto che l'offenda e strazii. Dall'ora di Mantova, separate all'improvviso per uno di quei piccoli fatti che sono come un colpo di cesoie in un filo teso, si spiavano, si esploravano. Sotto le apparenze della loro vita comune covavano i loro istinti di dolore, di menzogna e di lotta, l'una facendosi forte della pazienza terribile ch'era in fondo alla sua furia vitale, l'altra consumandosi negli eccessi nelle contraddizioni nei languori della sua verginità sospesa fra tanta inconsapevolezza e tanto conoscimento. Talvolta una bontà subitanea le ammolliva; e le assaliva un bisogno quasi carnale di stringersi l'una contro l'altra, di schiacciare fra l'uno e l'altro petto la pena inconfessata. Strette, mute, rievocavano intorno alle loro anime il torpore delle loro culle, il calore della protezione materna, lungamente immobili come il malato che teme di risvegliare lo spasimo assopito; ma sentivano a poco a poco nel silenzio riformarsi, con la materia stessa delle vene delle ossa dei polmoni del cuore fusa in una massa cieca, riformarsi e dilatarsi quel che le faceva soffrire e nascondere.

- Ah, Vana, non battere i denti così!

- Scusa. È un freddo nervoso. Non posso vincerlo.

Ella prese fra i denti il suo velo; e prese la sua ragione e la tenne ferma, come si prende fra le mani il capo che duole e vacilla. Ma le sfuggiva, pareva disgregarsi, decomporsi in imagini rilevate come le cose reali e brutali. Ora rivedeva i denti di Giulio Cambiaso, i denti minuti e candidi, il sorriso smarrito dell'uomo che non era più, il movimento delle labbra nel proferire le parole del sogno: «Una rosa le cadde giù pel suo panno azzurro, su le lastre che riflettevano i suoi piedi nudi». Anche negli occhi che li aveva guardati c'era un poco di morte; anche quello sguardo, che s'era piaciuto di quel sorriso, era morto; quel freddo, ch'ella ora pativa, le veniva da quel cadavere. «È la prima volta che porto un fiore nel cielo. Crede che sia leggero? Forse pesa quanto un doppio destino. Lo porterò in alto in alto...» Non era egli stato ucciso da quella rosa? dalla rosa di Madura?

Ella sobbalzò sul sedile, in un violento sussulto.

- Mio Dio! Che hai? che hai, Vana? Come ti sei sbigottita! Calmati.

- Abbi pazienza, Isabella. Mi calmerò. Non badare ai miei nervi scossi.

- Mi fai troppa pena, povera povera Vanina!

Ora la semplice tenerezza parlava nella voce, senza cautela. La sorella maggiore attirò a sé la minore, come per cullarla. Un arresto repentino della macchina le scrollò, le gettò l'una contro l'altra. Vana s'accorse che il braccio d'Isabella le girava intorno alla cintura. Il groppo dentro le si sciolse per singhiozzi brevi e sordi. In quel punto ella non sentì se non la sua disperazione e la sciagura sospesa nella notte funesta. Singhiozzò pianamente, all'ombra della ghirlanda di rose gialle.

- Povera povera piccola!

E già quella compassione indefinita pesava al suo orgoglio selvaggio. S'era appena allentato il nodo, e già si restringeva, si raddoppiava, ridiveniva durissimo. «Mi compiangi? per quale cagione? Sai tu forse di che io soffra? Non sai nulla, né quel che ho fatto né quel che farò. Mi compiangi perché mi schiacci, perché mi vinci, perché m'impedisci di vivere? Vedrai, vedrai

Nell'inferno del ferro e del fuoco le sirene ululavano come per le sere di nebbia in vicinanza dei porti irraggiati dai fari e appestati dal lezzo delle sentine. L'acredine era irrespirabile.

- Vana, Vana, coraggio! Siamo in città, finalmente! Ti veglierò, ti addormenterò.

Le sirene tacevano. Squillavano le trombe. Una fanfara guerresca traversava le vie ondeggianti di bandiere, folte di popolo. Un grido sinistro s'iterava nel fragore: «La morte! La morte!» Da lungi, da presso un altro grido rispondeva: «La vittoria! La vittoriaUomini scapigliati, curvi da una banda come storpii pel cumulo di carta che gravava il braccio, correvano a gara gridando il nome della vittima e il nome del vittorioso, sventolando il foglio ancor umido d'inchiostro, ignobili, sozzi di schiuma, fetidi di vino. Ma la torre della Pallata, la Loggia, il Broletto, la Mirabella, i baluardi del Castello visconteo, le vecchie pietre del Comune e della Signoria, ardevano di luminarie nell'assalito cielo. E tutta la città prode, come al tempo dei Consoli e dei Tiranni, era piena di fragore, di ardore, di morte e di vittoria.

- Aldo, - disse Isabella sommessamente, con una commozione grave nella parola, dopo una lunga pausa occupata dal giro tormentoso della profonda ruota, a cui le vite segrete delle tre creature erano avvinte - Aldo, tu dovresti tornare a Montichiari stanotte, per vedere Paolo Tarsis, per chiedergli se abbia bisogno di te...

- Bisogno di me?

- Per dirgli che siamo con lui, che siamo col suo dolore.

- Credi che questo lo consolerebbe?

- Non so se lo consolerebbe, ma mi sembra che tu debba fare questo passo.

- Che gli importa di me? che gli importa del mondo intero? Già tu m'hai mandato una volta. Se tu lo avessi veduto, ora penseresti che è meglio lasciarlo solo.

Un aspro affanno travagliava l'adolescente, una sorta d'invidia ascetica verso la potenza di quel dolore, un'aspirazione tumultuosa verso l'inaccessibile solitudine di quello spirito. Egli voleva tutto dalla vita. Tutto era dovuto alla sua giovinezza dalla bella fronte. Ogni spettacolo dell'altrui passione o dell'altrui piacere gli suscitava il rancore, come per un privilegio che gli fosse tolto. Egli soffriva di ritrovarsi in quella vecchia stanza d'albergo ingombra di bauli, piena dell'odore languido emanato dalle vesti femminili sparse per ovunque, dai veli, dalle piume, dai guanti, dalle tante squisite cose vane; mentre laggiù, nella brughiera selvaggia, sotto il nudo ricovero, un vincitore vegliava il cadavere del suo compagno avvolto nel vessillo della gara e disteso sul letto da campo, con un dolore magnanimo che agguagliava quella tettoia d'abete e di ferro alla trabacca d'abete e di paglia costrutta dai Mirmidoni, ove portarono gli Achei la spoglia di Patroclo Actòride.

- Vuol esser solo. Ha congedato quelli che s'erano offerti di far la veglia d'onore per turno. Ha dato ordini brevi ai suoi meccanici. Ha fatto calare la barra. Quando io gli parlavo, mi guardava come se non mi avesse mai conosciuto.

Né egli stesso l'aveva mai conosciuto. Né mai gli era apparso tanto estraneo, tanto diverso, d'una razza tanto distante dalla sua, d'una statura tanto più fiera. Né mai aveva egli mirato da presso un dolore umano che somigliasse a quello, che ingrandisse così straordinariamente un mortale, che fosse non un affetto palpitante ma qualcosa di fermo e d'impenetrabile, una sorta di armatura senza fallo, una mole solida e intera scolpita in effigie d'uomo.

- Se m'accompagni, io vado - disse repente la donna, guardando negli occhi il fratello con uno spasimato ardire.

Il cuore di Vana balzò. Ella era distesa sul letto, supina, con le palpebre socchiuse, con gli orecchi intenti; e lo sforzo dei suoi pensieri sollevava pesi enormi che le ripiombavano sopra.

- Sei pazza - rispose Aldo con una pronta asprezza. - Credi ch'egli abbia bisogno di te?

- E se io avessi bisogno di lui? - disse Isabella con una voce sommessa e pure imperiosa, ch'era come un colpo coperto.

Il fratello impallidì. Ella gittò un'occhiata al letto occupato dalla forma bianca e immobile. L'amore turbinò dentro di lei, travolse tutto, esasperato dall'impedimento, infiammato da una gelosia insana contro quel grande dolore che usurpava il suo dominio. Perché Paolo non l'aveva cercata? non aveva tentato di vederla almeno per un minuto? non le aveva dato alcun segno? E perché egli aveva tenuta quasi nascosta quell'amicizia, s'era sempre studiato di non parlare dell'amico e di non mostrarlo, come per una diffidenza oscura, come per una precauzione istintiva contro un pericolo o un maleficio? Quella gli era forse più cara del suo amore? E l'amore era vinto dal lutto? forse offerto in sacrificio all'Ombra fraterna?

La voluttà e la crudeltà di Mantova le rifluirono nelle vene. Ed ella riudì le parole ambigue da lei dette nella stanza delle tarsie, nella cassa dorata del clavicembalo, quando Vana aveva chiesto il significato del numero XXVII; riebbe sotto le palpebre lo sguardo che aveva imposto la nuova attesa, consentito il termine memorabile.

«Domani, domani!» ella pensava sconvolta come se a un tratto, dopo aver sì crudelmente indugiato, non volesse più attendere. «Potrei fargli dimenticare il suo dolore? Conosce la mia bocca. Che farà egli? Partirà? accompagnerà la salma del suo amico? non mi tornerà più? o quando?»

Ora ella lo amava con tutte le forze della sua vita, perdutamente; e implorava dal suo amore una potenza senza limiti, una virtù d'incanti. «Entraste come chi apre una porta e comanda a un estraneo: - Lascia tutto e vieni con me. - E non dubita dell'obbedienza.» Le si riaccendevano nella memoria le parole di Paolo dette su la via della morte, dopo la corsa folle contro il carro carico di tronchi. E raccontava al suo cuore divenuto puerile: «Ecco, ora vado al campo; m'accosto alla sua tettoia; separo le cortine e sporgo il viso. Egli è seduto accanto al letto funebre. Mi sente, mi guarda, si alza, cammina come un sonnambulo, si lascia prendere per la mano, dimentica tutto, viene con me, nella notte, nell'alba».

Il fratello non aveva risposto, non aveva più parlato. Facendo schermo della mano agli occhi contro la luce delle lampade, di sotto la mano guardava la sorella, considerava quel viso di delicata polpa che un sentimento misterioso modulava come un'aria sempre eguale e sempre diversa, quel viso d'anima e d'arte, a cui un pensiero disegnava il mento il sopracciglio la gota e un altro cancellava il disegno per rinnovarlo con una curva più dolce con un'ombra più eloquente con un rilievo più fiero. «Perché mi ferisci? perché mi ardiOra quello era il viso stesso dell'amore, malato d'angoscia, simile a un fuoco che sotto la pioggia svenga e non si spenga. Era il viso della passione e della magia, con quegli occhi socchiusi per attirar l'invisibile, di sopra e di sotto vestiti dalle cupe viole delle palpebre che non velavano lo sguardo, perché anch'esse guardavano come in certe imagini del Cristo che, fisate lungamente, mutano l'ombra delle occhiaie in due pupille indimenticabili. Era il viso della voluttà e della crudeltà, con quella bocca atteggiata a mordere l'ambiguo dolore come uno di quei frutti pallidi che l'innesto fa sanguigni. «Perché mi riapri la piaga

Egli già aveva attenuata di dubbii la subitanea divinazione del bacio selvaggio; aveva persuaso a sé medesimo la possibilità d'essersi ingannato; s'era acquetato nella continua vigilanza. Ed ecco, ella confessava il suo amore, più con quel suo viso muto che con le inattese parole; rompeva i ritegni; era pronta alla ventura. Gli ritornò nell'anima il gemito che l'aveva accompagnato nelle ambagi della ruina. «Addio, addio

S'udiva a quando a quando lo squillo d'una tromba, il fragore d'una ferrea corsa a traverso la notte, un fischio di richiamo, uno scoppio di voci violente. La città era insonne.

- È viva la madre di Giulio Cambiaso? - domandò Isabella, con molta dolcezza, perché pesavano anche a lei le ultime sue parole. - Aldo, non sai?

- Non so.

- Se vive, chi le dirà la sua sciagura?

- Uno strillone brutale, sotto la sua finestra, all'alba, nel dormiveglia. Prima frantenderà il nome; poi l'anima sola, più desta della povera carne, ascolterà. Non crederà di avere inteso; ascolterà ancora quella voce più lontana, che sarà rauca d'acquavite. Nell'intervallo udrà cantare la rondine sotto la gronda, come negli altri mattini. Senza sangue, senza respiro, vuota di tutto, nel buio della stanza, con gli occhi sbarrati, vedrà lo spavento del giorno entrare per le fessure...

- Ah, perché imagini quest'orrore?

Vana si levò a sedere sul letto, palpitante.

- Vana, t'abbiamo svegliata? T'eri assopita?

- Sì - rispose la piccola sorella, dopo un indugio, simulando la voce assonnata.

- Sognavi?

- Sognavo.

- Non vuoi coricarti?

Vana si lasciò ricadere sul letto come ripresa dal sonno invincibile.

- Lasciami dormire così ancora! - mormorò con un profondo sospiro.

- Anch'io muoio di stanchezza e di tristezza. Ora ti mando Chiara a spogliarti.

- Dopo, dopo. Tu prima...

Mormorava interrottamente come affievolendosi nel sonno. Già pareva dormire quando Isabella si accostò al letto col suo passo lieve. Sentì ella il profumo delle rose bionde che erano presso a ravvivarsi in un vaso d'acqua. Si chinò, toccò appena con le labbra i capelli addormentati. Si ritrasse.

- Va', riposati anche tu, Aldo - disse teneramente al fratello, porgendogli la gota. - Anche tu hai l'aria d'essere molto stanco.

Egli fece l'atto di baciarla ma non la giunse.

- Il broncio? - disse ella con un sorriso penoso.

Egli, ch'era per uscire, si volse e senza sorridere prese la testa di lei fra le sue mani, con un gesto appassionato; la inchinò per guardare perdutamente il viso stesso dell'amore.

- Aldo! - chiamò ella con la voce rotta da un colpo sordo del cuore appesantito, sentendo il gelo delle mani fraterne.

Egli la lasciò, uscì fuggendo. Ella si soffermò ad ascoltare il respiro della sorella. In quel punto la strada taceva, ma s'udiva un fragore lontano di carri. Imagini incoerenti si avvicendavano nel suo spirito e l'allucinavano. Quella del suo amico le riapparve difforme come nella spera convessa del fanale, col mostruoso torace decapitato, col pugno gigantesco nel guanto rossastro. Ben era sveglia, ma l'incubo premeva la sua stanchezza come s'ella gli soggiacesse supina. Una nera paura la occupò: le forze fatali della notte si precipitavano sopra di lei come per predarla. Verso quel triste letto d'albergo, ove tanti passeggeri sconosciuti avevano lasciato il calore e l'impronta, ella portò il suo corpo carico di mille anime. Quando sedette dinanzi allo specchio e diede nelle mani della cameriera le sue trecce strette come i torticci dei marinai, mirò attonita la sua bellezza, che le parve maravigliosamente maturata in quei pochi attimi all'ardore dei suoi mali. Quando i capelli sciolti la copersero contendendole la vista di quel volto troppo nudo, ebbe un senso di sollievo e di refrigerio come sotto un tremolio di rivi.

Rimasta sola, Vana aveva spalancato gli occhi. Ora ascoltava, spiava. Tutti i pensieri tutti gli affetti cedevano al risveglio dell'istinto profondo: ella più non era intesa al suo dolore ma al suo gioco scaltro, all'esito del suo accorgimento. Il fatto d'esser già riuscita a eludere l'attenzione della sorella le dava, pur nell'angoscia, una specie d'allegrezza felina. L'astuzia le era agevole come il respiro, le sviluppava in tutto l'essere una energia facile e pronta. Ella era simile a una giovine fiera che, avendo penosamente valicato un terreno aspro e ignoto, rientri nel suo dominio di caccia, nella sua giungla o nella sua pampa natale. Sottilmente, provava in sé le inflessioni ingannevoli delle parole ch'ella era per dire, le particolarità degli atti ch'ella era per compiere. Si guardava da ogni errore.

Aspettò, coricata sul fianco, rivolta verso il vaso delle rose, ch'era accanto al capezzale: «E se Isabella fosse ripresa dalla smania di andare? se ora si preparasse ad andar sola, o accompagnata da Chiaretta?» l'ansia rimescolò tutte le doglie. Ella cercò in sé un modo di opporsi a questo evento. Le pareva che ad ogni costo ella non dovesse desistere dal proposito; il quale omai le era divenuto come un comandamento dell'anima, a cui le fosse necessario obbedire sotto pena di un'oscura punizione. Bisognava che in quella notte ella si ritrovasse alla presenza di colui che aveva sognato con lei l'ultimo sogno; bisognava ch'ella deponesse ai piedi del cadavere il fascio di rose ancor vivo ond'aveva tolta quella del più alto volo. La febbre delle sue imaginazioni aveva mutato in un legame misterioso le vaghe possibilità ondeggianti su quel colloquio tanto recente e già tanto remoto. Il suo voto funebre era come il voto d'una fidanzata segreta. Ella aveva sorriso di sé dicendo a sé stessa, nella tettoia piena di rombo: «Ora parte, ora vola; la rosa si sfoglia; e tutto finisce, tutto è dimenticato...» Ma il genio della morte aveva raccolto lo stelo della rosa sfogliata, che nelle mani inviolabili era divenuto come un pegno fedele. Ella non sorrideva più ma persuadeva a sé stessa: «Io sono la fidanzata segreta d'un'Ombra». Solo il compagno superstite vegliava la spoglia sanguinosa; ma una sola creatura - dopo colui e dopo la madre - aveva diritto alla visitazione estrema: quella che per portare un fiore aveva fatto tanto cammino. E il segreto favoriva il fervore del suo sentimento straordinario; ché ella aveva nascosto a tutti lo strano incontro lo strano colloquio, aveva giustificata con un pretesto la sua scomparsa, aveva serbato il silenzio come sotto il suggello del giuro. E, nel punto dell'orribile schianto, era entrata anch'ella nel buio, era caduta giù senza conoscenza, aveva smarrita l'anima: l'anima aveva seguito il suo fidanzato segreto fino al limitare della morte. Non era forse vero, questo? non era vero? Udendo Isabella nominare la madre lontana, udendo l'atroce racconto di Aldo, col più tenero suo strazio aveva pensato: «Chi le dirà la sua sciagura, se non io? Chi potrà piangere con lei, se non io? Ho raccolto le ultime parole l'ultimo sorriso l'ultima dolcezza. Il suo compagno era già in alto, allo sforzo. Il destino m'ha mandato a portargli un segno che io non sapevo, ch'egli non sapeva. M'ha riconosciuta. E ci siamo ricordati! Poteva esser dolce, quando voleva? Non so. La madre lo sa, che gli aveva fatto quei piccoli denti di fanciullo. Ma forse egli è stato così dolce soltanto con me, in quel momento che per lui e per me non era simile ad alcun altro. Cominciavo a provare un tal bene, che non sapevo andarmene, come se mi sentissi le pastoie d'argento alle caviglie, quelle della piccola Indiana di Madura. Egli sorrideva, pareva un poco ebro o smarrito; e forse quella gentilezza non era ancor mai apparsa sul suo viso... Ah, chi saprà parlare alla madre, se non io?» E s'era ridistesa col suo segreto.

Ora poteva un qualunque caso impedirle di sciogliere il voto? «Andrò a piedi, sola; ritroverò la via; mi proteggerà la mia disperata volontà di giungere. E che dirò a colui che veglia?» Tutto fu tumulto entro di lei, ancora una volta.

Chiara entrò pianamente, s'accostò al letto.

- Vuole che La spogli?

Vana aveva gli occhi chiusi, il viso affondato nel guanciale. Si smosse con un sospiro lungo come un gemito.

- Sono io, sono Chiara. Vuole che La spogli?

Vana parve lottare contro un sopore invincibile.

- Ah, sei tu, Chiaretta? Isabella s'è già coricata? - chiese con una voce fioca di bimba sonnacchiosa.

- Sì, signorina.

- L'hai spogliata?

- Ho fatto tutto. Sono qui per Lei.

Vana non parlò più. Parve ripiombata nel sonno. Come sentì su la nuca la mano leggera della donna che cercava di sganciarle il collaretto, mormorò lamentosa:

- No, lascia. Sono troppo insonnita. Lasciami così ancora. Mi spoglierò da me. Va' a letto.

- Rimanga pure distesa. Cercherò di spogliarla senza che si levi.

- No, no. Lasciami, lasciami.

Ella s'agitò infastidita; si rivoltò; riaffondò il viso nel guanciale, fiottando. Chiara obbedì. Poco dopo, si fece un gran silenzio. Un'ora dalla mezza notte era già passata. Bisognava osare senza indugio: bisognava escire dalla stanza, scendere a svegliar Filippo il meccanico, dare l'ordine in modo da ottenere l'obbedienza, partire con la vettura non dalla porta dell'albergo ma dalla rimessa. La più piccola contrarietà della sorte poteva compromettere l'esito. «Isabella dorme? Aldo è forse andato fuori. Non è rientrato ancora? Se l'incontrassi per le scale! Mi crederebbe impazzita?» Il rischio eccitava la sua audacia febrile.

Fu pronta, col cappello, col mantello, col velo. Prese la cintura azzurra e la tagliò alle estremità con due colpi di forbici: ne fece un nastro, l'avvolse intorno agli steli delle rose.

 

Paolo Tarsis vegliava senza lacrime la salma del suo compagno, nella notte breve: rotto il più ricco ramo della sua stessa vita, distrutta la più generosa parte di sé, menomata per lui la bellezza della guerra. Egli non doveva più vedere in quegli occhi raddoppiarsi l'ardore del suo sforzo, la sicurezza della sua fede, la celerità della sua risoluzione. Egli non doveva più conoscere le due più candide gioie d'un cuore virile: il chiaro silenzio nell'assalto concorde, il dolce orgoglio nel proteggere il riposo del suo pari. Egli non vegliava più il sonno della stanchezza, sotto la tenda cento volte piantata nel bivio del tradimento e dell'eccidio; ma aspettava la diana per chiudere in quattro assi un misero corpo spezzato e dissanguato, una spoglia più lacera che s'egli l'avesse ritolta ai becchi ingordi degli avvoltoi.

Non aveva pianto, non piangeva. Il grande dolore è come una congelazione repentina di tutto l'essere: comunica allo spirito la durezza e la trasparenza del più alto ghiacciaio, e lo rischiara di quel lume adamantino che solo s'inarca sul picco inespugnabile. Egli era lucido e libero come non mai. Nulla d'estraneo rimaneva in lui; non lo turbava alcun desiderio. Stava nel mondo come una forza funesta. Considerava gli atti da compiere sospesi su la sua volontà come decreti.

A quando a quando si levava per guardare il buio, per indagare il piano verso la colonna, dove era stata infissa un'asta a segnare il punto della caduta. Vedeva talvolta rilucere le sciabole sguainate dei quattro cavalieri che custodivano la Vittoria. Era una notte umida ed elettrica. Lampeggiava senza tuono dietro il Montebaldo. Passavano soffii come aneliti; nuvole passavano come criniere in cui s'impigliassero stelle; gocciole cadevano larghe e tiepide come al principio d'uno scroscio, poi cessavano. Gli assioli cantavano su i pioppi. Un cane uggiolava in un casale. Cigolava un baroccio su la strada maestra. Era come una notte nota che ritornasse nel giro degli anni, di molto molto lontano.

Egli si volgeva; e rivedeva il cadavere composto sul letto da campo, avvolto nella rascia rossa del guidone, con intorno al capo il drappo nero accomodato a celare il taglio della tempia, la frattura dell'occipite. Rivedeva quell'alta sembianza di asceta avventuriere, quell'ottima struttura ligure prodotta da una stirpe di navigatori e di statuali, fine come certi ritratti gentileschi di Antonio van Dyck che splendono nell'ombra dei palazzi genovesi, soffusa d'un oro fumoso che già s'infoscava intorno alle narici e alle palpebre, ancor più nobile e più fiera sotto il drappo lugubre, che dava imagine della berretta di panno quadrilatera dalle gronde pendenti, simile a quella portata dal Doria, insegna degli antichi almiranti.

Quattro ceri, del duomo di Montichiari, ardevano agli angoli del letto. Curava le fiammelle un marinaio addetto al servizio dei segnali, un siciliano di Siracusa, che aveva già servito sotto gli ordini di Giulio Cambiaso in una torpediniera d'alto mare. Questi medesimo, alcune ore innanzi, aveva issato su l'albero il disco bianco della vittoria.

- Chi viene? - si domandò Paolo Tarsis, udendo lo squillo della cornetta e il rombo energico approssimarsi.

Dalla tettoia attigua, a traverso le cortine, gli giungevano i rumori discreti d'un lavorio cauto e diligente. A un tratto l'ombra d'un artiere s'ingigantiva su la tela, levando un braccio smisurato fino alle travi col gesto di chi schiaccia; poi si rimpiccioliva, scompariva. I sibili della pialla, gli stridori della lima, i colpi del martello s'attenuavano nella reverenza della morte.

- Chi viene a quest'ora? Va' e vedi, Cingria - disse egli, aspro, udendo la vettura fermarsi davanti ai cancelli.

Come il marinaio uscì, gli balenò sul rigore dell'animo il pensiero che potesse a un tratto apparirgli Isabella. E non ebbe se non la volontà rude di vietarle il varco, d'impedire ch'ella ponesse il piede nel luogo funebre. E ripensò il commiato, ch'egli aveva dato al compagno nel riconoscere di lontano il passo ondeggiante della tentatrice; ripensò il rinnovato saluto e l'indugio esitante e le parole non proferite e la misteriosa tristezza.

- Una persona velata domanda di Lei - disse a bassa voce il marinaio rientrando.

«Isabella?» Egli le si fece incontro, all'aperto. Travide nell'oscurità una forma feminea. Il cuore gli si contrasse. Ma, come più si appressò, nell'aria il suo sangue prima di lui sentì che non era quella. Chi era? Forse una creatura ignota che recava all'eroe una testimonianza d'amore e di pietà? una donna gentile che di nascosto veniva a implorare la grazia di rivederlo? Lo toccò il profumo delle rose nell'ombra.

- Sono Paolo Tarsis, eccomi - egli le disse inchinandosi, con quella strana voce da cui ogni calore s'era ritratto. - Che posso fare, signora?

- Perdonarmi, perdonarmi. Sono io, sono Vana.

Soffocatamente aveva parlato ella, sollevando il velo di sopra la faccia come di sopra a una piaga viva; ché la vita batteva in quel poco di nudità come dove il male imperversa.

- Voi, qui sola? e come? Che mai accade?

Con gli occhi abituati all'oscurità nella corsa notturna, ella lo scorgeva sul fondo illuminato delle tende chiuse, lo vedeva bene; lo divorava, si saziava di lui come se fosse giunta ad essergli vicina dopo un'attesa interminabile. Tutto quel che era dietro, nella notte, ora le pareva sogno confuso; s'esalava il fervore del voto; la volontà, tesa così terribilmente fino a quel punto, s'allentava, s'annientava. Ella aveva un desiderio mortale di prendergli le mani e di baciargliele, e poi di lasciar cadere a terra le rose e sé stessa perché egli passasse sopra.

- Vi' dirò... Lasciatemi respirare.

Alenava come se fosse venuta trascinandosi per la via.

Che cosa era per dirgli? Tante parole le erano nate nell'anima, durante la corsa, ed ella le aveva custodite per proferirle. Ma non le ritrovava.

- Come siete venuta qui, sola? Qualcuno è , che v'ha accompagnata?

- No, nessuno: Filippo.

- Ma che accade mai? Parlate dunque.

- Vi dirò, vi dirò.

Ella voleva dirgli: «Sono venuta perché non potevo più vivere un'ora senz'aver guardato quel che il dolore è nella vostra faccia». Ella cercò le altre parole, quelle del sogno dileguato, quelle che bisognava ritrovare e proferire, quelle che i fiori tra le sue mani sapevano e volevano.

Ella ebbe una voce sconosciuta, come quei flutti del fondo che portano al lido le cose obliate della Sirena scomparsa.

- Io sono la fidanzata segreta di colui che è , dietro quelle cortine, senza vita.

Paolo sentì una vena di gelo salire nel suo gelo. Credette che quella fosse la voce della follia; e lo sgomento e la pietà lo strinsero. Egli si chinò a guardare più da presso il povero viso insensato. Tutta la notte gli parve piena di sciagura.

- Queste rose bisogna che io le deponga su i suoi piedi congiunti. Per ciò sono venuta.

Lampeggiava senza tuono dietro il Montebaldo.

- Oggi le avevo alla mia cintura. Sono entrata , mentre mia sorella era con voi; sono entrata all'improvviso, non so perché, nel vento dell'elica.

Passavano soffii come aneliti.

- Parlavamo di voi, ed egli mi ha detto quel che l'indovino di Madura aveva presagito: a entrambi la stessa morte.

Nuvole passavano come criniere in cui s'impigliassero stelle.

- E poi s'è ricordato di me, s'e ricordato della giovine Indiana ch'era presso il banco del mercante e che si volse verso voi due mentre comperava la ghirlanda di rose gialle.

Gocciole cadevano larghe e tiepide come al principio d'uno scroscio.

- Ha detto che quella mi somigliava. È vero? Ha chiuso gli occhi per rivederla viva; li ha riaperti per rivederla più viva. Io ero dinanzi ai suoi occhi. E m'ha detto che, quando quella si mosse, una rosa le cadde giù pel suo panno azzurro. È vero?

Le gocciole cessavano.

- E m'ha detto ch'egli si chinò lesto per raccoglierla ma non riuscì. «Eccola» io gli ho gridato allora, spiccando una rosa dalla mia cintola azzurra.

Gli assioli cantavano su i pioppi.

- Ed egli l'ha presa e m'ha detto: «Veramente viene di Madura? Ha fatto tanto cammino? È la prima volta che porto un fiore nel cielo. Crede che sia leggero? Forse pesa quanto un doppio destino. Lo porterò in alto in alto».

Un cane uggiolava in un casale.

- E poi l'orrore, e poi la morte orrenda! Quando voi l'avete preso nelle vostre braccia, portava ancora sul petto insanguinato la rosa di Madura, la mia rosa? Ditemi, ditemi!

Ella ora sentiva d'avere attirata a sé l'anima di quell'uomo con quell'incantamento, ella ora lo vedeva ansioso e attonito. Ed ecco, il fervore che s'era esalato si riaccendeva in lei; il sogno che s'era dileguato la rioccupava tutta; ché quel fervore e quel sogno la avvicinavano al cuore solitario più che una parola d'amore, la vestivano di fatalità, la rendevano misteriosa e potente.

- Ditemi, Paolo!

- Non so, non ho veduto; non era possibile.

Un tremito nuovo entrava nella rigidezza del suo dolore, e ignote figure nascevano dalla sua superstizione e scomparivano pei cammini, dove egli aveva camminato col suo fratello e per quelli ov'egli doveva camminar solo. E straordinarii disegni si componevano dentro di lui, senza ch'egli vi consentisse; e poi si dissolvevano. E un presentimento ondeggiava nel fondo e non prendeva forma; e pareva a lui che, se avesse potuto fermarlo e interpretarlo, avrebbe avuto la chiave della sua sorte. Qualcuno in lui ascoltava tutti i rumori e li seguiva fino all'estremo fondo della vita. Gli assioli cantavano su i pioppi. Un cane uggiolava in un casale. Cigolava un baroccio su la strada maestra. Era come una notte nota che ritornasse nel giro degli anni, di molto molto lontano.

- Almeno lo stelo è ancora , forse - disse la vergine oscura sommessamente. - Chi sa chi primo ha messo le mani sopra lui!

E fece un passo verso la cortina soffusa d'un chiarore vacillante.

- Volete entrare? - le chiese il trasognato.

Ella sollevò nelle sue mani il fascio delle rose.

Camminarono l'una a fianco dell'altro. Come furono sul limite e Paolo fece l'atto di scostare i lembi, ella si strinse contro di lui con un sussulto di terrore. Egli la sorresse e la sospinse. Entrarono.

Allora ella vide davanti a sé vacillare le quattro fiammelle funeree in un'ombra vacua. La tettoia, ch'ella ricordava occupata dall'apertura delle ali bianche, le sembrò d'una vastità spaventosa e sotterranea come quella d'una catacomba. - Dov'era il grande angelo abbagliante che si dibatteva sotto le travi? - Chiuse gli occhi, vacillò come le fiammelle, abbandonata dalla forza, incapace di dominare il suo sgomento. E sentiva le mani di Paolo che la reggevano; e desiderava di non più rinvenire ma di perdersi in lui.

- Vana! Vana!

Egli la scoteva lievemente, la chiamava a bassa voce. Ed ella nell'udire il suo nome, proferito così da quel dolore, fu compresa d'una dolcezza tanto divina, che cominciò a piangere senza singhiozzi. Ed egli ebbe care quelle lacrime silenziose che bagnavano la sua aridità, come se il pianto fosse pianto dentro di lui. E da una lontananza infinita gli tornarono nel cuore antiche parole, ben note, d'un compagno allo spettro d'un altro compagno: «Ma più da presso mi vieni, ché un poco, abbracciandoci insieme l'uno con l'altro, possiamo godere del pianto di morte

Allora anch'ella amò d'un amore sublime l'esanime perché egli lo amava; e lo guardò a traverso le lacrime, e lo vide composto in una bellezza ch'ella non aveva veduto sul volto vivente, e lo ricevette nella profondità della memoria per custodirlo; e fu vedova dell'Ombra.

La forza era venuta in lei; che non era quella di lei fuggita, non era la sua ma delle mani che la sorreggevano, del cuore che le stava da presso. Fece qualche passo, tese il fascio dei fiori, lo depose su i piedi congiunti e avvolti nella fiamma rossa. Ella sentiva che ogni sua lacrima, ogni suo gesto erano dolci al dolore virile, e che la sua verginità la faceva degna d'accostarsi alla morte.

Disse, estinguendo lo spirito della voce:

- Sento che lo stelo della prima rosa è ancora , sul suo petto.

L'uomo cessò di sorreggerla; s'avanzò verso il fianco della salma; esitò. Ella rimase in piedi, rigida, udendo i colpi del suo cuore sotto le sue calcagna; e vedeva tra le labbra livide dell'esanime i denti piccoli e puri di fanciullo. Come la mano del compagno si levò tremante, ella lo guardò; e le parve che i due volti in quel punto avessero il medesimo pallore. E la paura del presagio la prese così forte, ch'ella appena contenne l'impeto cieco di gettarsi sopra il superstite, per trattenerlo con le sue braccia all'orlo dell'abisso. Udì sibilare la pialla, stridere la lima, battere il martello, con un'attenuazione di sogno, dietro la cortina stessa ch'ella aveva varcato nel vento dell'elica.

La mano tremante scostò con infinita cautela il lembo del drappo che copriva il petto immobile; trovò lo stelo e il calice sfogliato.

Allora tutto divenne misterioso come un rito. Vana cadde in ginocchio, con la fronte contro il ferro del letto mortuario. La sua preghiera era per il suo dio; ma la sua imaginazione poneva dietro le sue spalle, laggiù, nell'angolo buio, dove biancheggiavano i rottami funesti, i due idoli enormi di pietra sepolti sotto le offerte e l'indovino dalla testa rasa che masticava le foglie di betel. Sinistri le giungevano i rumori dell'opera invisibile, a traverso la cortina rischiarata su cui passava a quando a quando l'ombra gigantesca d'un gesto ripetuto. Ella pensò che i costruttori d'ali costruissero coi medesimi arnesi la cassa del cadavere. A un colpo più forte, sobbalzò, si levò.

- Che fanno? - chiese sbigottita, ravvicinandosi a Paolo ch'era assorto nelle cose inesplicabili.

- Riparano un'ala.

- Quale?

- La mia.

Poiché il marinaio s'era ritratto, le fiammelle dei torchi non vigilate fumigavano e le gocciole della cera gocciolavano su le padelle dei candelabri con un gemito sordo. L'aria si faceva più scura e più grave, tra sbattimenti rossastri.

- Perché la vostra?

- L'ho rotta urtando col lato sinistro il terreno nella discesa troppo rapida.

Egli trasse Vana verso la cortina, per il bisogno subitaneo d'un sorso di luce. Ella bisbigliava, trepida.

- Di qui mi sono intromessa, quando l'elica agitava la tela e la polvere.

Si sporsero, in un barbaglio bianco. Una vita ardente ed esatta animava la tettoia costellata dalle lampade elettriche. La grande Àrdea ferita occupava tutto lo spazio. Gli artieri attendevano a riparare l'armatura sostituendo le cèntine di frassino e i ferzi cuciti a, sopraggitto. Inserivano le verghe, tesavano i fili, imbullettavano i vivagni. Come la remigante del rondone scorciata o rotta si raccorcia e si raddrizza da sé pel vigore elastico della sua stessa vita, così rapidamente l'ala dell'uomo si ricostruiva per un prodigio di fervore, operoso nella notte breve.

- E perché tanta febbre? Fanno la nottata, perché? - chiese Vana guardando il vincitore doloroso con i suoi occhi inquieti e già supplichevoli.

- Per esser certi di riuscire in tempo, per esser pronti nella mattina.

S'erano rivolti insieme verso l'ombra squallida, verso le fiammelle funeree, verso la vuota vastità ove biancheggiava a terra lo sfasciume miserabile.

- Perché? - chiese ella con uno spavento che le stravolgeva tutta quella povera faccia estenuata dalla passione e dalla stanchezza:

Gli occhi erano fisi in lui e nella risposta, con una intensità così atroce, che gli fendevano l'anima alle radici come già gli occhi aperti del compagno ucciso; e, come per quelli, veniva alle sue mani l'atto istintivo di chiuderli, di ricoprire con le palpebre e con le ciglia uno sguardo che poteva essere eterno. Fece un gesto vago, ma non rispose parola.

- Perché? - chiese ella ancora, non creatura di carne ma spirito d'angoscia disumanato, come distrutta dalla violenza del suo sentimento, simile a quelle volute di sabbia sospese un istante su le spiagge ventose.

Parlava con bassissima voce, dove il silenzio era suggellato.

- Non debbo io salire dov'egli è salito? rifare la sua via?

Così piano aveva parlato egli in altre notti di sosta, per non risvegliarlo.

- Ah no, non farete questo! Vi supplico, vi supplico, per quel capo spezzato, per quel viso senza sangue, per quelle labbra che non vi hanno detto addio. Ah, giuratemi che non lo farete! Ascoltatemi. Io non son nulla, non sono nulla per voi; ma la sorte ha voluto che io raccogliessi l'ultimo suo sorriso, l'ultima sua dolcezza. Che questo mi valga, che questo solo mi valga, non per esservi cara ma perché non vi sdegniate se oso supplicarvi. Ascoltatemi! Ho l'orrore dentro di me.

L'orrore del presagio la riempiva di visioni e di grida; ma le grida gridavano dentro di lei, e la sua voce non era se non un'ambascia appena udibile. Tutta la riceveva egli nel profondo petto, la nascondeva quivi.

Le prese le mani, la trasse con lieve bontà verso l'aria aperta, verso la notte già forse impallidita. Le parlava con l'accento persuasivo che consola le pene puerili.

- No, Vana, non bisogna sbigottirsi così. Nulla accade, nulla accadrà... Forse l'ala non sarà pronta, certo non sarà pronta... Pace, pace, piccola buona. Siete senza riposo. È l'ora di partire. Fra poco albeggia. Come siete venuta? Qualcuno lo sa? vi aspetta?

Ella scoteva il capo, senza guardarlo; ché di sotto l'ambascia una felicità sorgeva più difficile a portarsi che qualunque pena. Egli la teneva per mano, la consolava, la chiamava «piccola buona»! Perché non poteva ella nascere da quella parola, morire di quella parola? Perché doveva tornare laggiù, rientrare di nascosto nell'orribile stanza, trovare forse su la soglia quella ch'ella aveva elusa, ancora lottare, ancora ingannare, ancora vivere di fuoco e di veleno? «Ah, mio amore, mio amorediceva la sua felicità disperata «lasciatemi ancora qui, tenetemi con voi ancora un poco, ancora un poco! Ch'io resti qui nell'ombra, nell'afa della cera e della morte, ch'io non vegga l'alba su le colline, ch'io non mi separi da voi sotto l'ultime stelle, ch'io non sappia che un altro giorno incomincia senza di voi, mio amore! Non ho più forza, muoio di stanchezza. Lasciatemi qui, in un angolo, vicino a quei rottami. Nessuno mi vedrà. Sarò come quegli stracci di tela, quieta, senza respiro. Solo vi domando che mi ripetiate quella parola. E metterò il braccio sotto il capo, e il braccio e il capo e tutta me appoggerò su quella parola; e così chiuderò gli occhi chiari, che sono chiari come i vostri; e mi addormenterò. E non mi sveglierò più, se voi non mi svegliate, mio mio amore

Prima di porre il piede fuor del luogo santo, prima ch'egli la precedesse, ella si volse indietro a riguardare il rude letto da campo, la pace scolpita nel viso altiero, il corpo rigido nella rascia sanguigna, le rose posate su i piedi congiunti. E si chinò, e si fece il segno della croce.

Ma, quando la tenda ricadde ed ella vide a un tratto la notte con tutte le sue stelle tremolare sotto la prima onda argentina, la vena del pianto si riaperse. Ella si soffermò nell'affanno. Le ginocchia le si scioglievano, tutti i nodi in lei si disnodavano. Poiché il suo amore le stava da presso, ella gli si piegò sul petto, senza singhiozzi piangendo, quasi che l'intera sua vita si compisse in quell'atto, quasi che quella vena dal fondo della sua culla scendesse a quella china. Ed era come il rivo che fluisce sotto il macigno, senza farsi udire.

 

Paolo Tarsis aveva conosciuto le catene dei più ardui monti, i corsi delle più vaste acque, e i deserti di sabbie i deserti di pietre i deserti di sterpi; e l'ombra dei paesi ardenti che sembra nera e, quando l'occhio vi penetra, è chiara come un'altra luce; e le più diverse generazioni d'uomini su le più diverse vie con le loro some con le loro armi; e le razze intorpidite che vivono sonnecchiando addosso ai vecchi muri, col mento su i ginocchi; e le dominatrici che vivono sempre in piedi agitando il mondo con la frenesia della loro forza; e gli alti fuochi vulcanii che creano i fiumi di ferro colante nelle città novelle, e gli scarsi fuochi solitarii alimentati col fimo secco del bestiame; e la polvere stupenda sollevata dai grandi movimenti umani, e le azioni che dormono nei popoli come il feto rannicchiato nel conio materno. Aveva veduto per ovunque nascere quelle strane figure di cui parla il Mistico, quelle figure che si generano dagli eventi e dagli esseri sotto la deità del Caso, misteriose come gli screzii nei marmi, i poliedri nei cristalli, le stalattiti negli antri, i gruppi della limatura intorno al magnete, i rapporti tra il numero degli stami e il numero dei petali nei fiori.

Volontà militante, usa a maneggiare la materia e a possederla, egli s'era anche avventurato in quei confini ov'essa par finire; e sapeva quel che le labbra non possono esprimere, quel che gli occhi non possono accennare. L'enigma delle Pause inscritte nell'oro e nell'azzurro dello scrigno estense, egli l'aveva letto su pareti di granito. Per ciò, dispregiatore di tutte le abitudini, egli serbava quella del silenzio e quella dell'attenzione.

Un giorno, nell'isola di Sulu, egli e il suo compagno erano a cavallo con una torma di cavalieri americani. Ed ecco, di lontano videro avanzarsi verso di loro un uomo vestito di bianco, che brandiva un lungo coltello scintillante. Era uno di quei fanatici maomettani che gli Spagnuoli chiamano juramentados, missionarii selvaggi che vengono a traverso l'Asia, partendosi dall'Arabia, dal Bokhara, dal Turkestan, valicando tutta l'India a piedi e quindi il Malacca e quindi in piroghe il mare fino all'isola di Borneo, invasati di passione feroce, ebri di scongiurazione, non d'altro bramosi che di versare il sangue cristiano. E colui s'avanzava per la gran piazza orrida di sole, incontro ai cavalieri, col suo coltello in pugno, con in cuore la sua volontà di uccidere. Una scarica di piombo lo investì. Non cadde, ma continuò ad avanzare verso la vittima. E Paolo Tarsis vide che quelle pupille inflessibili lo fisavano. Una palla colpì il demente nel cranio raso. Prima di cadere egli scagliò il coltello contro il designato. Con atto fulmineo due sproni entrarono nella pancia d'un cavallo che s'intraversò s'impennò ricevette nel petto la lama acuta. Giulio Cambiaso arcato in sella teneva la sua gota contro la criniera.

Ora, non nella memoria della mente ma in una memoria ben più profonda, il superstite confondeva la testa rasa del pellegrino con quella dell'indovino e, in un sentimento d'infinita lontananza, la fatalità del coltello con quella della rosa. E tutto era comunione e legame, in un luogo della sua vita inesplorato. E mistica nel supremo cerchio dell'anima era l'eco di quella dimanda: «Ha fatto tanto cammino

L'atto ch'egli era per compiere al conspetto della folla era un atto di silenzio, un atto religioso, comandato da una necessità interiore ch'egli non indagava, ma che nessuna forza di persuasione avrebbe potuto abolire. Andava egli incontro al presagio? sfidava la morte? sperava nella morte? Non v'era in lui né l'ansia del presentimento né l'eccitazione della prodezza; sì v'era una pacata potenza di dolore e di attesa, come s'egli andasse a un alto colloquio desiderato dalla cara Ombra fraterna. Egli sentiva in sé quello stupendo gelo che accompagna la volontà di dal limite noto, quando sembra che l'anima si muti in un monte di rigido diamante e non lasci vivere sul suo culmine aguzzo se non un solo pensiero aquilino.

Ma l'apparenza era semplice e netta, come un dovere soldatesco. Inscritto nella gara, egli non si ritraeva. Resi gli onori funebri al suo compagno, egli tornava sul campo. Compiuto il gioco, avrebbe nella notte scortato la salma fino al cimitero di Staglieno.

Quando l'Àrdea con l'ala ricostrutta esci dalla tettoia, la folla ammutolì come il giorno innanzi: uno straordinario brivido la corse in un attimo tutta quanta, come un sol corpo vertebrato d'una sola spina.

Era un pomeriggio nemboso. La giovine Estate combatteva nel cielo come un'Amazone maschia lanciando i suoi stalloni bianchi e leardi, scagliando le sue saette d'argento e d'oro. Le nuvole si scomponevano e si ricomponevano, si diradavano e s'incalzavano, come nella zuffa le torme della cavalleria peltata. All'improvviso una pioggia chiara e sonora dardeggiava brevemente, tra sprazzi diritti di raggi. Il tuono rimbombava cupo dietro una collina carica d'acqua plumbea. Uno squarcio d'azzurro s'apriva come una tregua.

Bagnata dagli scrosci, la Nike di bronzo su la svelta colonna era verde come la fronda del lauro, glauca come la foglia dell'oleastro. Molte corone pendevano intorno all'asta infissa nel terreno consacrato dal corpo infranto dell'eroe icario; più altre, coprendo in giro l'erba che aveva bevuto il buon sangue, formavano un'aiuola gloriosa.

L'elica rombò nel silenzio, come già quella funesta. Il volatore intese l'orecchio all'unisono delle sette voci. Il tono era eguale e possente. Rapita dalla veemenza, l'Àrdea si levò nel nembo, piena di fato come l'airone di cui portava il nome, sorto dal lutto della rocca in ruina.

Subito conquistò la solitudine, fu aerea nell'aria, lucida nella luce. «Riconosco la sua viachiedeva a sé stesso il superstite, credendo sentire sparsa nello spazio la santità che gli s'adunava nel cuore. «Riconosco il solco del suo fuoco

Non quando nelle sue mani intormentite dalla lunga fatica egli aveva sollevato il capo del compagno già grave di grumi, non quando aveva preso nelle sue braccia il corpo inerte sentendo le ossa cedere orribilmente, non quando lo aveva avvolto nella ruvida porpora e composto sul letto di guerra, né quando per tutta la notte aveva contemplato in lui la bellezza abbattuta della sua propria vita, né quando aveva ascoltato in sé stesso piangere il pianto della vergine oscura, non mai, non mai l'Ombra gli era stata presente come in quell'ora. Egli la sentiva tra l'una e l'altra ala, simile a uno spirito del vento, simile a un pilota invisibile che gli segnasse la rotta e gli mostrasse l'altura.

Ma, quanto più egli saliva, quanto più egli lottava, tanto più gli si rivelava quella presenza animosa. «Dove giungesti? dove fermasti il volo? dove ti raggiunse il soffio mortale? ancora più in alto? Tutto è scomparso. La terra è una nuvola più opaca. È nostro il cieloVivido e torbido come una gioventù impaziente era il cielo. Un riso indocile vi correva, or sì or no, a scrosci, a sprazzi. Le righe della pioggia v'eran tiepide come i raggi; gli sprazzi del sole v'eran freschi come la pioggia, a volta a volta; i vapori vi si laceravano come gli orli delle tuniche sotto i piedi che danzano. Il nembo danzava con proterva allegrezza fra i tuoni. La nuvola immobile della terra era piena di delirio, era piena d'un clamore che non s'udiva nel cielo. La potenza eroica crosciava su la moltitudine remota, come un nembo mille volte più forte. Non la Nike soltanto ma tutta la gloria della stirpe era alzata su la colonna di Roma. Ché le miriadi delle pupille avevano veduto anche una volta su l'albero il segno del limite superato!

«Ancora più in altochiedeva l'eroe al suo Pilota invisibile. Di dagli schermi di metallo guardò l'indice incerto. E il cuore gli tremò d'un tremito nuovo, d'un tremito che per la prima volta moveva l'essere umano.

Non rotava egli entro l'ultimo cerchio toccato dal compagno nel volo? Gli tremò il cuore profondo. Abbandonò il timone d'altura. Le ali si librarono senza più salire. L'Ombra gli stette a viso a viso, gli respirò nel respiro, fu più viva di tutte le cose che vivevano nel combattuto silenzio, fu più viva del suo proprio dolore. «Non è questo il tuo punto? Ancora tu volevi ascendere, ancor più in alto volevi portare il fiore della tua ebrezza, quando il colpo tacito ti spezzò l'impeto e t'oscurò l'ardire. Non mi chiamasti? Non mi cercasti con gli occhi pel vuoto? Ecco, ora sono con te dove tu fosti solo.»

E il cuore gli tremò perché v'era nato il pensiero d'andare più oltre.

«Tu vuoi? Tu vuoi?» Il desiderio eroico aveva assunto l'aspetto dell'Ombra, ed egli l'interrogava. E con una sovrana ansietà attendeva la risposta del suo desiderio larvato. E certo non avrebbe egli voluto andare più oltre, se gli fosse riapparsa l'imagine del corpo disteso sul letto, del corpo rinchiuso tra le assi inchiodate; non avrebbe egli voluto strappar la vittoria al supino. Ma egli sentiva sopra sé la presenza raggiante; una immortalità incitatrice. «Tu vuoi?»

E il cuore gli tremò perché dentro vi cresceva il pensiero d'andare più oltre.

E, mentre egli rotava nel limite librandosi su le ali adeguate, scorse un fantasma celeste, una tenue larva lucente, una labile apparenza spettrale che si colorava di sangue, d'oro, di viola. «È il tuo segno

E lo spettro s'incurvò, s'ingigantì, abbracciò lo spazio tra nube e nube, incoronò il nembo, arco di trionfo brillò di sette zone.

Era l'iride.

E il superstite, portando su la cima del suo coraggio l'immortalità del dolore, salì di dalla vittoria.


 


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