Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Orazione al popolo di Milano in morte di Giosue Carducci

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Orazione al popolo di Milano
in morte di Giosue Carducci
[xxiv marzo mcmvii]

I

Nessun segno fùnebre adombri di tristezza questo atto di vita che oggi si compie nel cuore della Città operosa, mentre per un giorno s’interrompe il fervore delle opere, mentre si placa per un’ora l’ansia della lotta, e l’anima civica – quasi d’improvviso riconoscendo il suo diritto a un antico retaggio di cui sia stata dispogliata – si protende verso il lampo di un’apparizione ideale.

Sembra, o cittadini, che ai grandi nomi degli eroi scomparsi resti legato un destino favorevole, cosicché tutte le azioni che si compiono sotto il loro auspicio s’illuminano d’un lume di bellezza e sono secondate dal concorso degli eventi come da un’armonia necessaria. A un tratto la forza della idealità eroica s’irraggia nella vita reale e l’arricchisce d’un benefizio inaspettato. Sopra il confuso incontro delle contingenze cotidiane, sopra il contrasto dei bisogni e delle miserie comuni, sembra delinearsi quasi visibile agli occhi alzati quel vertice di luce ove s’appuntano le aspirazioni degli uomini dal giorno in cui un Titano sanguinante pose in cuori di Efimeri speranze immortali. Non altrimenti nelle notti buie noi vediamo sopra la Città insonne, in fondo alla pianura, quel vapor luminoso che sovrasta all’adunazione delle case piene di doglia e d’inquietudine, quella specie di nimbo che s’effonde nell’oscurità ed appare al nostro sogno come lo splendore di uno spirito emanato dalla volontà degli uomini che per tutto il giorno hanno travagliato combattuto sofferto entro le mura per ascendere consapevoli o inconsapevoli, tra le pene e gli errori, verso le superiori forme della vita.

Noi non commemoriamo oggi un triste trapasso, ma assistiamo a un’assunzione vittoriosa. Non compiamo un officio mortuario, ma celebriamo un rito geniale. Il culto di un altro eroe s’è aggiunto omai alla religione della patria. E che un tal culto sia più solennemente instituito nella Città «dove più forte batte il polso della nuova potenza d’Italia», questo è un mirabile indizio. E che la celebrazione cada nel giorno di primavera consacrato alla palma trionfale, questo è quasi un simulacro del nostro gesto unanime. E che nel novello giorno si riaccenda pieno il sole del Passato raggiante delle più grandi memorie cittadine, questo non è senza fato.

«Vi sovviendice Alberto di Giussano,

«la domenica triste de gli ulivi?

Ahi passïon di Cristo e di Milano

Udite nella profondità del secolo remoto crosciare le trecento torri diroccate dalla rabbia sveva, cadere a sfascio le mura di Ansperto che avevan veduto il tergo di Corrado Salico; e di tra la nuvola polverosa scorgete i tetti abbattuti, le soglie divelte, i focolari disfatti, ma radicata nel suolo, più addentro che la più salda pietra angolare, la virtù inespugnabile del Comune lombardo pronta a rimettere e a far tronco robusto: tronco di romanità rinnovellata contro la procella barbarica.

«Vi sovviendice Alberto di Giussano,

«Calen di marzo

La stessa potenza, – quella che, già ricostituita dalla magnanimità di Lanzone contro Cesare e Ariberto, dopo un secolo sa soffiar nella distruzione la vita e rialzar le pietre radunate da un decreto di gloria – la stessa dopo sette secoli mostra al sole di marzo un altro prodigio.

«Venne il nostro,

o milanesi, e vincere bisogna.»

La stessa voce, non nata da un sol petto umano, ma ripetuta dall’eterno spirito della stirpe, impone la necessità di superare la sorte. Nel furore dei popolani, che primi asserragliano il ponte di San Damiano con un carro intraversato, non rivive tutto l’animo di quelli che s’addossavano al Carroccio fumido di fresco sangue e piantavano i piedi nella terra saldi come le ruote nell’affossatura e della lor carne viva e del ferro e del legname sacro facevan contro i lurchi un impedimento solo?

Pur ieri cadde l’annuale del meraviglioso mattino che illuminò l’esultanza delle vie liberate; e la memoria remota e la più vicina memoria sono presenti in quest’ora, erte e immobili, quasi a comprendere fra due termini sublimi, fra la morte e la vita, fra la distruzione e il risorgimento, l’immensa onda di fortune e mistura di sangui e vicenda di dominii e furia di riscosse e tenacia di voleri e sapienza d’istituti e varietà di opere ond’è uscita questa forza della Città moltiplicata che, serbando al centro il nucleo della sua vecchia anima come un inesausto generatore d’impulsi, perpetuamente ringiovanisce agli orli e irraggia la sua giovinezza da tutta la pianura padana ed insubre per le arterie secolari dei suoi navigli e delle sue strade verso il contrasto del mondo.

«Su dunque in alto le bandiere delle Nazionigridò un giorno il Poeta d’Italia levatosi con fremito fraterno per salutare il trapasso di un altro grande spirito, alla cui imagine egli aveva consacrato il lauro della Via Appia e il tricolore di Trieste romana.

Dinanzi a colui che non si stancò mai di rammemorare nell’eloquenza e nel canto tutti i tempi e tutti i fasti italici; dinanzi a colui che con pari animo figurò la dea Roma dormente nel religioso orrore col capo sul Palatino e il piccolo municipio mantovano corcato nel verde su le rive del Mincio; dinanzi a colui che sempre parlò e cantò nel nome di ciò che il Passato custodisce grande, nel nome di ciò che l’Avvenire annunzia giusto; noi oggi grideremo: «Su dunque in alto le memorie e le speranze della Città

II

Fu detto che veramente nessun’altra terra ha, come la nostra, una rispondenza tanto perfetta con la struttura morale e mentale dei suoi grandi uomini. Tutta la sua forza e tutta la sua bellezza sembrano tendere di continuo verso una suprema espressione umana. Vi fu un’ora della sua storia, in cui l’armonia fra la sua sostanza e la sua progenie parve meravigliosamente piena, così che in un equilibrio indicibile si composero le sue potenze naturali e le viventi opere dei suoi figli. La durezza dei suoi monti, il corso dei suoi fiumi, la foggia delle sue valli si riconobbero nelle pulsazioni della sua vita civile.

Mai figura di luoghi si stampò sul destino dell’eroe che vi nacque, come l’aspetto del paese etruscosublime purità fatta di rupi, di torrenti e di oliveti – ove a Francesco Petrarca parve dovesse la vergine Pallade trasvolata dall’Attica piantare la sua asta per non più dipartirsi. Come dinanzi alla casa tebana di Pìndaro, scrosciano tra i macigni le acque alpestri dinanzi all’abituro natale. Gàbberi sopra sta col suo cipiglio a minaccia. Sul colle del Ronco una convulsione di massi immani è simile all’avanzo impietrato d’una gigantomachia immemorabile. La basilica veneranda di San Giovanni, custodita dal Cristoforo che regge il Redentore come Erme reggeva Dioniso pargolo, splende di silenziosi marmi tra ulivi ampi con le più ampie querci; che inazzurrano d’ombre contorte l’umiltà dell’erba ove il mentastro odora. Per ovunque si profondano i cunicoli scavati a cercare il ferro; e sopra Verzalla, e nell’Alpe di Stazzema, non forse nereggia la presenza del metallo onde quell’abbattitore sembra aver foggiato le sue scuri per le sue vendette e quell’aratore i suoi vomeri pei suoi solchi e quell’artiere le sue incudini e i suoi magli «per l’opra rude»? Nel vespero la regione si cerchia d’un orizzonte spirtale; ed ecco, di contro al bianco squarcio dell’Altissimo, l’ombra di Michelangelo col suo furore taciturno; ed ecco laggiù, verso il mare, in Val di Magra, da Luni portuosa l’ombra di Ennio discendente di re e quella di Persio che Dante vide nel Limbo

con quel greco

che le Muse lattâr più ch’altro mai.

Ed ecco, più lontano, l’Esule fosco e grifagno, ecco dalla torre di Mulazzo, ecco dal càssero del ventoso Fosdinovo l’ospite dei Malaspina ancor fiso nelle affocate vette che gli diedero imagine della Città di Dite. Ed or , sotto il Matanna, l’Ariosto trasfigura nel suo divin sogno lo scoglio del Procinto,

lo scoglio ove il Sospetto fa soggiorno.

E sotto l’Armelo, in Sarzana dominio di conti mitratidove dorme il figlio di Castruccio, aquilotto senza volo –, il discendente di consoli Guido Cavalcanti stempra nell’ultimo sospiro melodioso l’animo che aveva osato scagliar cavallo e dardo contro il barone. E risorgono i fantasmi sanguigni, dalla fiumana dell’Aulella cui arrossa l’estrema strage degli Apuani, dal porto lunato onde salpano le navi di Tito Manlio al castigo dei Sardi; e si spezza la spada ghibellina di Uguccione; e il nudo capo del Castracani offre al turbinìo delle fortune la capellatura lionata; e dietro lo Sforza e dietro il Piccinino passa la devastazione dei venturieri; e Giovanni de’ Medici, sol per non istare in ozio, fa oste ogni giorno co’ suoi fanti contro le castella dei Malaspina e di vertice in vertice accende alle sue nere vittorie i roghi crudeli. O adunazione di ardue bellezze e di violenti destini intorno alla cuna di colui che doveva sotto ogni pietra sotto ogni gleba scoprire i vestigi della trascorsa vita e sentir sorgere dalle profondità della storia i più fieri spiriti della sua poesia!

In un’ora non dimenticabile, quando il disdegnoso vecchio era già percosso e incurvato dal male, un de’ suoi discepolireduce dal pellegrinaggio nel luogo santo – gli raffigurava con la parola i lineamenti della terra e li esaltava nel suo fervore. Era questi in piedi, e seduto il vecchio: seduto e raccolto, col capo chino, con le palme riposate su le ginocchia disgiunte. Gli anni e gli affanni avevano estenuato la maschia faccia, affaticato quel torace invitto che nei giorni della guerra il coraggio e la costanza ampliavano smisuratamente perché contenesse il più gran palpito e il più gran respiro. Unico segno di terribilità rimaneva, sotto la criniera canuta, l’aspra ruga verticale, la cicatrice che lascia nelle fronti gloriose il morso del pensiero. Ascoltava egli, senza guardare; perché i suoi occhi, già tanto avidi di luce e ricchi di baleni, avevan rivolta la lor visione verso l’interno crepuscolo. Ma, quando il discepolo si tacque, egli levò dalle ginocchia quelle sue pallide mani che pur nel colmo della virilità e della salute eran sì tenui a contrasto con la rudezza dell’aspetto e del modo; levò quelle sue mani quasi feminee che un tempo ai prossimi davano imagine dell’una che, libera dalla manopola, esce delicata e lunga dal ferro del bracciale e si poggia al fianco su la falda della corazza, negli antichi ritratti dei capitani d’alto legnaggio. Levò le mani e, con un gesto che fece tremare di angoscia e di reverenza il cuore degli astanti, brancolò nell’aria come se su la traccia dell’udita parola egli cercasse una figura tangibile, una effigie immediata della lontana bellezza terrestre, quasi un simulacro da avvolgere nel suo supremo atto d’amore. E gli occhi senza sguardo gli si velarono: un vivido velo brillò sopra un velo inerte. E tutti videro, con sacro sgomento, le lacrime dell’anima grande solcare la triste carne peritura.

Non altrimenti il Buonarroto nella sua selvaggia vecchiaia, misero corpo scarnito e convulso dalla passione titanica, curva ossatura calcinata da tanto incendio interiore, omai sordo, omai cieco ma pur sul limite della tomba travagliato dall’ansia del Sublime, non altrimenti tendeva le mani inferme a palpare quel Torso di Ercole che par quasi il tragico tronco del destino michelangiolesco, assiso com’è nel macigno coperto dalla pelle del leone.

Perché, o cittadini, al Poeta del Saluto italico l’Italia fu «una persona» presente sempre, ch’egli abbracciava in totalità di vita, ch’egli sentiva infinitamente vivere; una persona reale e ideale, col suo corpo, col suo fiato, col suo istinto, con la sua volontà, con la sua mèta. Pareva che la virtù dell’eloquenza in ore solenni gli fosse moltiplicata dall’intensa visione di quell’aspetto. Quando ad esempio egli parlava di Dante in Roma o del Petrarca in Arquà o del Boccaccio in Certaldo, era manifesto com’egli vedesse nella confusa massa umana e terrestre disegnarsi una figura che pareva avere egli medesimo foggiato con le sue mani caduche, simile a quello statuario che scolpì nella smisurata roccia la figura eroica di Alessandro cui dalla destra sorgeva una città e dalla sinistra scaturiva un fiume. La luce della sua fronte testimoniava quell’apparizione silenziosa.

L’ira sua stessa di ammonitore e di castigatore pareva esercitarsi non sopra un fantasma vano ma sopra una materia cruda, in quella guisa che Dante trattava «la ghiaccia e il fuoco, la pece e il piombo, gli sterpi e i serpi, il fango e il sangue». Il grido del Petrarca:

Le man l’avess’io avvolto entrocapegli

si trasformò per lui in azione formidabile. Credemmo, nei giorni di vergogna, che veramente egli avesse in pugno la chioma della neghittosa e la squassasse per lei trarre dal fango. Invocava gli strumenti della ferocia dantesca a far le vendette nuove.

Altri laghi di pegola, addensata

di serpenti di mostri e dimon duri,

altra e duplice bolgia avrei scavata;

e v’avrei co’ suoi monti e co’ suoi muri,

come uno straccio lurido, gettata

questa terra di Fucci e di Bonturi.

Sembrava, in verità, che ricorressero per l’Italia i tempi oscuri in cui vennero da contrade remotissime i Barbari, a travagliare un suolo che pure era cresciuto con la polvere degli estranei, e nella corsa ruinosa abbatterono tutti i simulacri della bellezza e cancellarono tutti i vestigi del pensiero. Ma quella barbarie era peggiore o, certo, più vile; perché non aveva neppure, come l’antica, la grandiosità delle violenze cieche ed irresistibili. Conseguiva i medesimi effetti poiché abbatteva e cancellava, ma non come un tonante e lampeggiante uragano, sì bene come un tardo fiume fangoso in cui si scaricassero mille canali putridi. E per colmo di onta quel fiume aveva in Roma la sua sorgente massima: in quella terza Roma che doveva rappresentare in faccia al mondo «l’Amore indomato del sangue latino alla terra latina» e raggiare dalle sue sommità la luce di un Ideale novissimo.

Impronta Italia domandava Roma,

Bisanzio essi le han dato.

Non aveva egli, il Poeta, sognato che dai ruderi inondati di tanto martirio dovesse levarsi robusta di radici e di rami la nuova epopea? Certo egli aveva sognato che l’antico ed eterno spirito di nostra gente, «quale dalla fusione confluito delle varie italiche stirpi fu accolto e dato in custodia della Vesta romana dal cuore di Gracco e dal genio di Cesare», si levasse di su le glebe fumide a coronare d’idee e di potenza la patria risorta.

Ma quelli che in una sera di settembre furono risvegliati nei loro letti infantili dalle grida frenetiche e dalle fanfare di gioia celebranti la sublime conquista e ricevettero nella piccola anima sbigottita il nome di Roma tra il rossor delle fiaccole, quelli che appresero dai loro pedagoghi a venerare le cruente imagini dei combattitori e le confusero con le virtù paragonate nelle pagine di Plutarco, quelli si affacciarono alla vita pieni di fede, credendo di assistere al mistero di un’assunzione sacra. E invece udirono, a traverso il feroce giambo dell’irrisore, starnazzare e gracidare oscenamente le oche del Campidoglio.

Quante floride giovinezze si sterilirono! Quanti occhi puri si ammalarono e non poterono più sostenere la vista del sole! Quante volontà virili caddero ai piedi d’uomini divenuti inerti e vi rimasero per sempre come le tronche mani che Erodoto vide ai piedi dei colossi di Sai! Tutti, forse, erano superiori alle loro sorti; e avrebbero potuto forse aggiungere un insigne ornamento all’edifizio ideale inalzato nei secoli dal pensiero latino. Ma troppo li scoraggiava o li sdegnava la delusione impreveduta. Apparsi sul limitare della giovinezza con le mani colme di tutti i semi della speranza, confidando nella virtù di un suolo irrigato dal più ricco sangue di lor gente, essi non videro di dalla loro tristezza subitanea se non una melma spessa e grigia dove una moltitudine ignobile si agitava e trafficava come nel suo elemento natale. La rampogna del Poeta passava di tratto in tratto sul loro capo come un rombo di tempesta. Ed eglino si risollevavano allora e ripetevano con l’accento di quella gran voce: «Oh, noi non vogliamo né spegnerciimputridire

Generazione destinata all’oscuro sacrifizio, come la seguente, come forse la più recente: a quel sacrifizio ininterrotto per cui si accresce e si perpetua la vita della nazione; ché ciascuna inscrive, volontaria o involontaria, una lettera di quel patto che lega tutti i morti tutti i viventi e tutti i venturi nella medesima coscienza.

Ma l’intera parola di quel patto era custodita nell’animo di un solo, come nel rotolo di un profeta.

Gli uomini chiamati liberatori escivano dalla fiamma della rivoluzione accecati. Essi non poterono contemplare il volto della patria ricomposto e riconoscere il pensiero che illuminava la divina fronte turrita, detersa dalla polvere, dal sangue e dal sudore. Spenta nei loro polsi ogni febbre generosa, essi ci apparvero nella miseria della decadenza senile. Ma le loro mani, se bene deboli e vacillanti, pur conservarono una forza bastevole per manomettere le cose sacre che dovevano essere inalzate su gli altari e onorate di un culto solenne. Chi mai mostrò di comprendere l’idea verso di cui la nostra stirpe è condotta dal suo genio a traverso le vicende secolari? Niuno di costoro fu mai rappresentativo del genio nazionale; niuno mai considerò con occhio lucido la somma della vita vissuta dalla stirpe fino all’ora presente per estrarne una verità antica da porre a norma degli statuti nuovi.

Che mai fecero dell’arte, della dottrina, di ogni più ricco tesoro, d’ogni più nobile ornamento dello spirito italico gli uomini preposti alla cosa publica in quattro decennii? Per quali modi essi difesero, per quali modi cercarono di accrescere il patrimonio della grande coltura latina che innumerevoli generazioni di artisti e di sapienti ci tramandarono come la testimonianza del privilegio onde la natura fece insigne il nostro sangue? Con quali imprese favorirono quelle superiori apparizioni dell’energia morale che mille volte illuminarono il cielo tumultuoso della nostra storia?

Ma l’Italia bella, la divina patria ideale dove peregrinò Dante, respirava nel petto del suo Poeta solo. Solo egli diceva: «Quell’unità, quella libertà che i nostri padri e fratelli conquistarono con tanto sangue generoso sparso su la terra della penisola sacra, dobbiamo conservare, difendere, propugnare nella regione dello spiritoDiceva: «La grandezza duratura e la forza feconda delle nazioni sono, e in Italia dovrebbero ricordarlo così i cittadini come i legislatori e i reggitori, nello svolgimento indipendente delle alte idee umane e nella coltura superioreDiceva: «Noi abbiamo bisogno anzitutto di affermarci fortemente e gloriosamente come nazione. La civiltà italiana non ha lacune e non vuole tagli o strappi barbarici. Instauriamo e restauriamo la vita antica e nuova, gittando il tedio e purgando la lebbra dei tempi oscuri e dei contatti servili. Aria e luce alla giovane Italia!» I giovani ammoniva: «Triste favola suona, e bocche non cuori anche tra noi la ripetono, che narra lo scadimento e la oscurazione delle stirpi latine. Oh, noi non vogliamo né spegnerciimputridire. Raccoglietevi, o giovani, in cuore la costanza e la gloria degli avi magnanimi che fecero la rivoluzione dei Comuni e il Rinascimento, che discoprirono nuovi continenti alla operosità umana, nuovi campi all’arte, nuovi metodi alla scienza. E l’arte e la scienza amatele d’amore: amatele per sé, più ancóra che per i frutti che esse possono acquistarvi: amatele come l’esercizio e la manifestazione in cui la nobiltà dell’uomo più appare, in cui il valore delle nazioni si eterna

E solo, in Roma, egli riaccendeva su l’altare deserto della patria il fuoco della memoria e della speranza, del passato e dell’avvenire. E non, come nelle ferie laziali, vi conduceva intorno i candidi cori dei giovani e delle vergini cantanti le origini, ma solo cantava egli le origini. E non, come il feciale, chiamava a gran voce i nomi delle città sorelle e giurate, ma solo invocava egli i divini testimonii nel silenzio dei tempi, quasi che presenti gli fossero la grande aurora traversata dal nero volo dei dodici avvoltoi e il solco aperto dal vomere di bronzo per segno alle mura dell’Urbe imposta dai Fatigiogo di ferro e d’oro – sopra la forza del Mondo.

Non dunque anche a lui nella regione dello spirito, come al duce di uomini su la spiaggia di Marsala, si addice il nome di Liberatore? E, compiuta l’impresa, non fu egli degno della lode medesima onde coronò l’imagine del tenace e audace Ligure?

Posa nel giusto, ed all’alto

mira, e s’irradia nell’ideale.

Arte di guerra e di vittoria fu la sua; e veramente la sua bandiera fu garibaldina. Come l’assalitore di Calatafimi, egli conquistò la vetta espugnando cerchio per cerchio l’aspra montagna. Taluna delle sue odi, taluno dei suoi discorsi ci offrono quasi l’azione visibile del combattente, così da presso la lor movenza segue il respiro del petto virile, si accelera al ritmo stesso del suo coraggio. Taluno dei suoi versi è un atto che si perpetua con impeto moltiplicato senza termine. Proferito dinanzi alla moltitudine, vale a suscitare dall’oscurità dell’anima assembrata un baleno d’epica bellezza, simile a quello che suscita col segno della spada l’eroe indicatore d’un’altura da assalire. Così, nel canto e nell’eloquenza, a ogni tratto egli si solleva epico. E il frammento monumentale della Canzone di Legnano, o Milanesi, non vi sembra omai appartenere al corpo della Città, come le superstiti colonne romane di San Lorenzo, a testimonio del vostro gran sangue? V’è in quelle tredici decurie di endecasillabi tanta solennità di rappresentazione, e una energia di stile così composta, e un così forte ardore di eloquenza eroica, e un senso così schietto e profondo della epopea medioevale, che in verità ben pochi canti noi conosciamo in tutta la poesia epica i quali possano sostenere il paragone. Alcuni di quegli endecasillabi sembran foggiati col metallo delle trombe che squillavano intorno all’antenna del Carroccio. Altri sono legati insieme robustamente come le travi che reggevano la struttura della rossa macchina guerresca instituita dal vostro settimo arcivescovo. E non vi è forse imagine che superi in bellezza virile quella del gigantesco arringatore in mezzo al parlamento; la cui attitudine sembra fissata per l’eternità su un piedestallo incrollabile.

È la sua voce come tuon di maggio.

La supera, sì, in bellezza l’imagine di un altro cui fu diletto il popolo delle Cinque Giornate, «capace» com’egli diceva «di venticinque». Nessun altro popolo può meglio intendere la significazione del mito novello che il Poeta ebro di lutto e folgorante d’epica luce, simile a quelli aedi che cantavano l’Iliade in veste vermiglia, foggiò con mani ardenti nell’anima stessa della patria come in una materia imperitura.

Milano serbi la gloria di aver dato per prima, in terra italiana, a Giuseppe Garibaldi il comando dei Volontarii, quando egli aveva già esperimentato delusioni e ripulse. Qui, dove la più generosa gioventù conveniva anelante di armarsi e di combattere, si formò dalla mescolanza di tutte le razze e di tutte le classi il tipo primitivo della Legione garibaldina. E dalla vostra vecchia piazza di Sant’Ambrogio si partirono alla volta di Bergamo i Tremila. L’esercito piemontese era disfatto, perdute erano le linee del Mincio e dell’Oglio, quella dell’Adda insostenibile, tutta la Lombardia invasa dall’Austriaco, Milano minacciata. Il bando dell’Eroe agli Italiani ha nelle sue prime parole un accento antico: «Eletto in Milano dal Popolo a duce di uomini…» Non parlava altrimenti Alberto di Giussano, rammemorando Calen di marzo, quando l’Imperatore Federico teneva Como.

Il mito, che cominciava a formarsi dal prodigio, parve quasi compiersi quando egli qui riapparve per l’ultima volta, non uomo vivente, ma reliquia di eroe, immobile, bianco, cereo, portato per la città come la salma d’un Santo in una processione di fedeli, assomigliato dal popolo all’antico suo patrono, al sacerdote impavido che seppe difendere la novella fede romana contro il sopruso gotico.

«Vecchio pontefice armato della libertà latina» lo raffigurò infatti il Poeta. Ed eccolo, anch’egli sul piedestallo come il compagno della Morte; eccolo nell’attitudine della dipartita, fermato per sempre.

Al collo leonino avvoltosi

il puncio, la spada di Roma

alta su l’omero bilanciando,

stiè Garibaldi.

Ed ecco anche la sua statua equestre, che commemora la più triste ora.

Il dittatore, solo, a la lugubre

schiera d’avanti, ravvolto e tacito

cavalca: la terra ed il cielo

squallidi, plumbei, freddi intorno.

La sera di maggio, la sera di novembre: Quarto, Mentana; la più lucida ebrezza, la più cupa angoscia; l’eroe della speranza, l’eroe del dolore. Il formidabile statuario della parola ha sollevato nella luce e nell’ombra i due simulacri e sopra di loro diffuso il mistero del mito. Egli ha fondato nella terra d’Italia i monumenti primordiali dell’epopea garibaldina; i quali stanno come la misura solenne per la forza dei poeti a venire. La semplicità, la vastità e la severità delle loro linee sono e saranno esemplari per chiunque vorrà intraprendere l’opera disegnata da lui. Un tal precursore impone la grandezza come una legge necessaria, in quella guisa che Odisseo poneva innanzi ai pretendenti il suo arco smisurato. Anche una volta egli è il maestro magnanimo dell’alta volontà; anche una volta egli è veramente l’Eroe, ciò è colui che agli uomini insegna trascendere i limiti del lor potere.

Tale deve oggi apparirefuor d’ogni altra sua virtù e d’ogni altro suo officio – al conspetto della Città che prima fra tutte le sue sorelle italiche mostra d’aver compreso come oggi per i popoli né le avverse né le prospere fortune sieno da aspettare dalle forme dei governi ma solo dalla potenza di dominare le forze della Natura.

Il poeta che cantò

i petti aneli verso il dominio,

le menti accese del vago incognito

anch’egli un giorno prese la sua penna acuminata e si pose in meditazione e in sé disse: – È scritto: «Nel principio era il Verbo.» Ecco che già son fermo. Chi m’aiuterà ad avanzare? Non posso io conferire al Verbo un sì alto pregio. Mi conviene altrimenti interpretare, se lo spirito m’illumini. È scritto: «Nel principio era l’IntelligenzaMeditiamo ancora. Nacque forse dall’Intelligenza la Forza? Esito; e sento che non anche debbo posarmi. Lo spirito mi soccorre! Ed ecco, subitamente ispirato, io scrivo con sicuro pugno: «Nel principio era l’Azione.» –

Giosue Carducci – il quale credeva e affermava essere la civiltà italica elemento necessario, come fu già primo, alla vita della civiltà mondialelega agli Italiani d’oggi l’orgoglio di stirpe e la volontà di operare.

III

Udiva egli, mentre il suo capo esperto di tante procelle si chinava sempre più verso i silenzii del Buio e verso le ombre dei Padri, udiva egli di tratto in tratto il fragore del mondo che si trasforma rotto, smosso, agitato dalle forze tremende della nuova vita? Colui che cantò «il bello e orribile mostro», «l’infrenabile carro del foco» e «Satana il grande», udiva il grido vittorioso dell’Uomo dominatore di energie cosmiche constrette in strumenti e in organi al cui moto è poca la vastità dell’orbe?

«Preparate le vie al Signore che viene: al genio d’Italia, grande, libero, giusto, umano: al genio di cui sento approssimarsi il battito delle ali» aveva detto augurando. Ma sentiva egli approssimarsi l’uragano della volontà frenetica che s’abbatte su la terra in portentosa vicenda di distruzioni e di creazioni? Prevedeva egli tutta una stirpe che lotta di nuovo per esistere, per conservarsi, per aumentarsi, che sveglia e scuote alfine i suoi istinti più profondi, che strappa dall’intimo della sua sostanza le virtù occulte e ingenue, le foggia in libertà al soffio degli eventi, le anima di tutto il suo impeto concorde, le arma di tutta la sua necessità vitale, le infiamma del suo genio, le esaspera, le esalta, le magnifica, le agguaglia alle potenze del Fato e della Natura?

«Noi dobbiamo riprendere la tradizione dei nostri maestri, Virgilio, Dante, Petrarca, i quali trovarono l’arte moderna e il mondo nuovo» egli aveva detto, ancóra augurando.

Ecco il mondo nuovo, ecco la comedia divina delle nuove trasfigurazioni. La materia è ancóra troppo ardente perché l’arte l’afferri, la condensi, la purifichi e le dia ineffabili vólti. Ma una straordinaria quantità di energia spirituale sta per sprigionarsi dal tumulto e per atteggiarsi in attitudini di bellezza sconosciute. Nelle innumerevoli officine che sorgono dal suolo, nelle miniere che vi si sprofondano, e nelle navi che in sempre maggior numero fendono i fiumi e i mari, e in tutti gli strumenti del lavoro, del lucro, del giuoco e della guerra si preparano le nuove imagini e i nuovi ritmi. Una forza nuova uscirà dalla forza: vis ex vi. Nell’arte, nel commercio, nella politica, la materia e il caso tuttavia sono tiranni. Il regno dello spirito umano non è cominciato ancóra. «Quando la materia operante su la materia potrà tener vece delle braccia dell’uomo, allora lo spirito comincerà a intravedere l’aurora della sua libertà» disse, or è gran tempo, un altro Italiano che ebbe il genio delle divinazioni. Le macchine onnipossenti, che anch’esse obbediscono al ritmo esatto come la poesia, ci annunziano la liberazione augusta. L’idea pura verso cui tendiamo fatalmente – l’armonia dell’anima libera con l’Universo interamente rivelato dominato e compreso – non potrà manifestarsi se non nella profusione della vita.

E la vita non fu mai tanto ricca, lo spettacolo della terra non fu mai tanto fiero, il dramma delle stirpi non mai tanto veemente. Quale fatto storico è comparabile in grandezza alla resurrezione asiatica, al subitaneo ringiovanimento che rinnova la sacra Asia, la regione dell’ampia e sublime unità? Un impero chiuso, l’impero dei Celesti, si sveglia al contatto delle civiltà occidentali e sta per gettare sul campo del lavoro umano la massa spaventosa del suo popolo giallo. Un altro impero immobile, quello del Sol Levante, esempio inaudito d’una trasformazione che sembra piuttosto una creazione dal profondo.

E qui la virtù e l’orgoglio di stirpe trionfano e divorano insaziabilmente. Coloro i quali vinsero il Figlio del Cielo e il Cesare slavo, oggi aspirano a tutte le conquiste. Sembra che per essi il poeta abbia cantato:

Una fatale sublime insania

per i deserti, verso gli oceani,

trae gli uomini l’un contro l’altro

conumi, col mistico avvenire…

Organati e serrati in unità impenetrabile, essi tendono non soltanto alla signoria dell’Asia ma dell’intero Pacifico. La loro cupidigia guarda alle Filippine, all’Indocina, alle Indie Olandesi, ad Hawai. È nota la parola superba di Okuma: «L’Europa è decrepita; noi raccogliamo la sua eredità

Ma l’Europa non è decrepita; ché anzi la sua febbre laboriosa non è se non una febbre di giovinezza, non è se non un anelito verso l’apparizione di una vita più alta. Guardate la Germania, «la fulva e cerula Germania». Giunta alla conquista della sua massima unità circa un anno dopo la costituzione della potestà regia in Roma, ella ci diede l’esempio mirabile d’una nuova coscienza nazionale formatasi a un tratto nel fondo di una terra per così lungo tempo rimasta divisa e inerte. In men di trent’anni la sua vita collettiva s’è afforzata e moltiplicata per prodigio. Nelle sue pianure solcate dai grandi fiumi navigabili passa un costante soffio eccitatore, che al suo sforzo commerciale una continuità e un’efficacia non sostenute da alcun altro paese d’Europa. Ella è intenta a foggiarsi ogni giorno strumenti di conquista più validi e più rapidi, ad aprirsi vie nuove di scambio, a preparare con una successione di piccole vittorie la suprema vittoria dell’avvenire. Tutte le sue città son divenute ardenti fucine, centri di magnifiche industrie; gli uomini delle sue glebe sono stati attratti dalle macchine precise e lucide; i camini delle fabbriche fumano a miriadi nel suo cielo superando le guglie, e la pietra delle sue cattedrali s’infosca di fuliggine. Il movimento dei suoi porti s’è accresciuto con tanta celerità, che fra poco eguaglierà quello dei maggiori porti d’Inghilterra. Tutti gli armatori senza tregua mettono in mare nuove carene. L’arte della costruzione navale è divenuta illustre. In tutte le acque del globo i colori dell’Impero oggi sventolano agli alberi delle navi ben costrutte. Con una sagacia e con una prontezza ininterrotte gli uomini di governo cercano sempre nuovi e più larghi sbocchi all’immensa produzione: nell’Africa, nelle due Americhe, nel continente asiatico, nei giovani Stati australiani. Su la vecchia tradizione militare prussiana s’è innestata miracolosamente la novità della lotta industriale; e nella concordia e nella fortuna del lavoro il popolo germanico ha sentito rafforzarsi il suo istinto di predominio, adattandosi alle armi di un’altra guerra. La Francia è vinta un’altra volta; e l’Inghilterra minacciata cerca ansiosamente i mezzi di difendersi.

Anche qui assistiamo a una esaltazione quasi frenetica della coscienza nazionale, a uno straordinario émpito della virtù di stirpe. Sconfitta e incalzata dall’Unione americana e dalla Germania nelle stesse regioni ove la sua supremazia mercantile pareva omai affermata da una fortuna secolare, l’Inghilterra sembra far le sue vendette con l’accrescere a dismisura il suo territorio coloniale, con l’allargare indefinitamente la figura del suo Impero, quasi abbia di continuo innanzi agli occhi quella Oceana che in un libro fatidico emerge dalla profondità dei mari e getta la sua smisurata ombra su le nazioni depresse. Tutte le forze vive di tanto popolo, inebriate da un poeta, tendono verso l’imagine di una «Più Grande Brettagna». La razza dei cinque pasti, come la chiama Rudyard Kipling, apre le fauci per divorar l’Universo. Un giorno forse i dominii separati e lontani saranno congiunti; gli intervalli saranno aboliti; tutte le contrade, ove suona la lingua materna, si stringeranno in un cerchio; dall’India al Canadà, dall’Australia all’Egitto, dagli Stati Uniti al Capo, una sola volontà e una sola aspirazione animeranno le moltitudini federate. Forse la «Più Grande Brettagna» sarà costituita per sempre, e, come già la pace romana illuminò il Mediterraneo, così la Pax britannica illuminerà gli Oceani.

Ma altrove, nella stessa Europa, continuano tuttavia irresolute le lotte etniche, fornendo elementi sempre diversi di associazione e di disgregazione. Nell’Austria-Ungheria l’urto perpetuo delle forze germaniche, magiare e slave, sarà seguìto fra breve dal dissolvimento. Su le due rive del Danubio, a Vienna, a Praga, a Buda-Pest, ad Agram, nella nostra dolce Trieste (e rivóli a lei oggi il Saluto italico e trascorra la spiaggia latina

fin dove Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare)

il principio di nazionalità è come un lievito implacabile.

E dovunque la lotta mercantile, la lotta per la ricchezza, porta il pericolo delle conflagrazioni marziali; il fumo delle officine richiama il vapore della liddite, lo scintillìo delle macchine nitide richiama il guizzo dell’armi bianche. Non mai più crudamente i diritti delle razze men forti furon violati dalla prepotenza e dall’avidità. Sopra l’assiduo strepito dei lavoratori s’odono latrare le fauci della guerra. Tutto il mondo si tende come un arco; e mai come oggi fu significativa la parola di Eraclito l’Oscuro: «L’arco ha per nome Bios e per opera la morte

IV

Qual parte, qual sorte avrà l’Italia – con le sue sorelle latine – in questo formidabile contrasto? Sarà ella quale il suo poeta la celebrò un giorno di maggio in cospetto del Mediterraneo, volgendosi al sole, «a questo nume antichissimo di nostra gente che guidò la migrazione dei nostri maggiori su la fatale penisola ove la civiltà del mondo fu costituita»? «L’Italia incoronata con segno di vittoria su le Alpi; l’Italia sospingente i suoi pacifici e tonanti navigli sul Mediterraneo; l’Italia col suo popolo di agricoltori quali diè il Lazio, il Sannio, la Sabina e l’Etruria; l’Italia col suo popolo d’industriali quali li dierono i Comuni del medio evo; l’Italia col suo popolo di artisti, quali li diè il Rinascimento

La più luminosa parola del parlare materno questa, per gli Italiani, e la più orgogliosa, tale che non l’eguaglia lo splendore della primavera terrestre; affermazione superba della Vita, di tutta la Vita, inscritta sopra un culmine sublime della storia umana: il Rinascimento. Ma non può dare il suo suono vero e intero se non nella bocca ferrea della Volontà.

Fra quel che di antico è da conservare e quel che di nuovo è da acquistare, si appresta l’Operaia infaticabile a sollevarsi di sul suo travaglio e a ripetere il bando sonoro che si ripercuota in tutta la conca mediterranea? Il cuore ci esulta, se consideriamo la somma di sforzi fornita nell’ultimo ventennio dall’Italia per sola virtù propria dei suoi istinti ereditarii ad onta della inettitudine e della cecità di coloro che guidano le sorti d’un paese in cui fiorì e si maturò con tanto vigore la scienza di stato, l’arte di governare, non fondata su falsi metodi scolastici e su puerili illusioni, ma su la realtà viva, su i fatti, su l’esperienza, su quell’acuto studio degli uomini e degli istituti e delle loro analogie e dei loro rapporti, onde parvero insuperabili i nostri uomini statuali, tanto nelle republiche quanto allora che su la caduta delle libertà comunali si costituirono i nuovi principati e di contro al servaggio straniero s’infiammò la visione magnifica del Machiavelli.

In quel giorno di maggio – su quel mare fatale ove la Grecia rivelò la bellezza, Roma la giustizia, la Giudea la santità – il poeta volgendosi al sole ripeteva per la ricomposta patria il più solenne augurio che ne’ tempi abbia irraggiato i cieli latini: «O sole, tu non possa veder mai nulla più grande e più bello d’Italia

Accanto all’effigie dell’auspice e interprete postremo, raffiguriamoci l’aspetto della feconda Madre.

Eccola. Ella giace quasi centro di tutte le contrade ove fiorirono e fioriscono le civiltà più illustri. Quasi anello, congiunge l’Occidente all’Oriente per quel Mediterraneo mare nostro che portò su le sue acque «la più bella cosa del mondo, il genio greco, e la più grande, la pace romana». La massa formidabile delle sue Alpi sembra che s’addentri nel cuore di Europa, mentre i soffii dell’Asia e dell’Africa scaldano le sue marine ultime. Stirpi diverse, delicate e rudi, agili e vigorose, vi si congiungono e vi si fecondano. Potentissimi instituti universali in lei si formarono, e di lei vissero e vivono. Il dominio morale sembra il suo destino. I più tristi errori potranno opprimere ma non distruggere il suo genio.

Tale, o cittadini, è la sua imagine. Contemplatela accanto a quella del figlio assunto, ch’ella generò dall’impronta dantesca. La capace fronte del Poeta porta un mondo compiuto. Il grembo dell’inesausta genitrice porta un infinitamente più vasto mondo che si compone e si disegna. Ella è l’artefice chiara delle stirpi confuse. Soltanto in lei la materia diversa e incandescente della nuova vita troverà i grandi conii perfetti. Soltanto in lei s’imprimeranno vive ancóra una volta le forme ideali; ed agli uomini – che si sviluppano freneticamente lottando e avanzando in tutte le direzioni e provando tutte le forze in tutti i rischi e foggiando strumenti sempre più complessi per convergere tutti gli spiriti della Natura nell’umano spirito – ella ancóra una volta le offrirà come esemplari ai quali dovranno confrontarsi, come segni ai quali dovranno mirare di continuo nella violenza della guerra e nel giubilo della vittoria.

L’antica arte aveva dato agli dei gli attributi dell’uomo, la libertà e la coscienza; all’uomo l’attributo degli dei, l’immortalità. Ippocrate aveva deposto nel tempio di Delfo, tra le statue divine, uno scheletro di bronzo esattamente costruito. Egli non sapeva forse d’aver sollevato sul piedestallo il modello del mondo, la completa bellezza fatta di logica necessità.

La futura arte latina rinnoverà, consapevole, la consecrazione osata dal saggio di Coo che i greci imaginarono discendente di Eracle; poiché l’ossatura umana, macchina meravigliosa fra tutte, ordinata e congegnata in ogni sua parte alla sua destinazione terribile, ci significa in silenzio la parola della più certa gioia: «Apprendi a considerar bello ciò che è necessario

Erede di tutte le virtù e di tutte le esperienze accumulate dalle generazioni anteriori; armato delle mai vedute armi ch’egli strappa alla natura per ritorcerle contro lei sottomessa; costretto a moltiplicare gli sforzi della sua volontà per essere pari all’energia cosmica da lui medesimo concentrata, che è pronta tuttavia a soverchiarlo e a ucciderlo; inalzato sopra il piacere, sopra il dolore e sopra la morte dal puro desiderio di cercar nuovi ostacoli, nuovi pericoli, nuove mète al suo ardimento; l’uomo non è più la creatura che attende la sua redenzione per essere eletta ma è la creatura eletta già dalla nascita alla più vasta vita e alla più potente opera.

Quando l’antica poesia ebbe rinvenuto gli elementi del divino nella natura umana, ella fu tentata di andar più oltre; ciò è di sottoporre gli dei alla morte. Allora fu che l’ultimo nato delle stirpi divine venne ad appagare l’aspettazione di un nuovo dio paziente e salvatore. Ma oggi l’uomo dona a sé medesimo una nuova specie d’immortalità, volendo vivere in modo da poter desiderare di rivivere la stessa vita innumerabilmente. Il poeta, che oggi il popolo d’Italia deifica, mirò tramontare sul Mediterraneo le grandi leggende del Caucaso e del Calvario; e sentì che l’uomo è a sé il suo Prometeo e il suo Cristo.

«Preparate le vie al Signore che viene!» ci ripete egli in quest’ora, con un senso più mistico.

Nella Città dove il massimo esemplare umano prodotto dal Rinascimento insegnò, operò e di sé stampò le mura e il suolo, dando all’arte il più nascosto volto della vita, dando alla scienza il più profondo ritmo dell’arte; nella Città che in giorni memorabili, interrotta la ressa delle cure consuete, sospesa l’ansia della cotidiana gara, in una tregua di contemplazione e di meraviglia, stette intenta con animo religioso alla stupenda lotta che il trovatore di cento melodie combatteva con la morte, e fu tocca e segnata dalla bellezza «di ciò che mai non muore»; nella Città dove improvviso, quando al declinare del giorno s’accelera l’improba febbre e l’incanto dell’ultima luce esalta nei cuori avidi il sogno della potenza, ecco che un miracolo arde nel vespero, ecco che la selva viscontèa di pietra si trasfigura come se veramente per grazia vi s’incarnasse dalle radici alle cime la purità della persona celeste alla cui gloria sorse; e la gente ansiosa leva al miracolo gli occhi e si sofferma e sente in sé riondeggiare la preghiera degli avi ma fremere la speranza oscura che costruirà al nuovo dio il nuovo tempio; nella Città vostra, o Milanesi, l’annunzio e il comandamento dell’evocatore e del divinatore magnanimo trova gli spiriti più pronti, le volontà più robuste.

Come il sacerdote di Marte agli antichi giovani di Lanuvio, egli dice a quanti muovono per impresa ed acquisto verso quell’ideal patria che dall’Alpi Giulie egli chiamò «la più gran nazione latina»: – Voi avete inteso quel che è in piacere del nume: partite, apparecchiatevi, ubbidite. Voi siete la semente di un nuovo mondo: questa è la primavera sacra ch’ei vuole.

Ma una più antica, una più arcana parola soggiunge e confida alla nostra aspettazione l’Eroe che levò l’inno mattutino verso la «giovinetta eterna» e l’adorò quale già l’adoravan sul monte i nobili Aria padri. La raccolgano oggi tutti i prodi che vegliano e che s’armano. – Vi sono molte aurore, che ancóra non nacquero.



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