Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'innocente
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Chi non ha udito qualche volta proferire da uomini sventurati una frase di questo genere? «In un'ora ho vissuto dieci anni.» Una tal cosa è inconcepibile. Bene, io la comprendo. Nei pochi minuti di quel dialogo quasi pacato tra me e mia madre, io non vissi più di dieci anni? L'accelerazione della vita umana interiore è il più meraviglioso e il più spaventoso fenomeno dell'universo.

Ora, che doveva io fare? Impeti folli mi venivano, di fuggire lontano nella notte, o di correre alle mie stanze per chiudermi, per rimaner solo a considerare la mia ruina, a conoscerla tutta quanta. Ma seppi resistere. La superiorità della mia natura si mostrò in quella notte. Seppi svincolare dall'atroce torsione qualcuna delle mie facoltà più virili. E pensai: «È necessario che nessuno dei miei atti apparisca singolare, inesplicabile, a mia madre, a mio fratello, a qualunque persona di questa casa».

Innanzi all'uscio della stanza di Giuliana m'arrestai, impotente a frenare il tremore fisico che mi scoteva. Udendo giungere pel corridoio suono di passi, entrai risoluto.

Miss Edith usciva dall'alcova su la punta dei piedi. Mi accennò di non far rumore. Mi disse sottovoce:

- Sta per addormentarsi.

Se ne andò, socchiudendo l'uscio dietro di sé, pianamente. La lampada ardeva sospesa nel mezzo della volta, con un chiarore placido eguale. Su una sedia era posato il mantello amaranto; su un'altra sedia, il busto di raso nero, il busto che Giuliana s'era tolto a Villalilla nella mia breve assenza; su un'altra sedia, l'abito grigio, quel medesimo ch'ella aveva portato con tanta finezza tra i fiori di lilla eleganti. La vista di quelle cose mi diede un tale spasimo che di nuovo ebbi l'impeto di fuggire. Mi volsi all'alcova, discostai le cortine; vidi il letto, vidi sul guanciale la macchia cupa dei capelli, non la faccia: vidi il rilievo del corpo rattratto sotto le coperte. Mi si presentò allo spirito la verità brutale in tutta la sua più ignobile brutalità. «Ella è stata posseduta da un altro, ha ricevuta l'escrezione di un altro, porta nel ventre il seme di un altro.» E una serie d'imagini fisiche odiose mi si svolse davanti agli occhi dell'anima, che io non potevo serrare. E non furono soltanto le imagini di ciò che era accaduto, ma anche quelle di ciò che doveva necessariamente accadere. Bisognò anche ch'io vedessi, con una precisione inesorabile, Giuliana nel futuro (il mio Sogno, la mia Idealità!) difformata da un ventre enorme, gravida d'un feto adulterino...

Chi avrebbe potuto imaginare un castigo più feroce? E tutto era vero, tutto era certo!

Quando il dolore eccede le forze, istintivamente l'uomo cerca nel dubbio un'attenuazione momentanea della sofferenza insofferibile; pensa: «Forse io m'inganno; forse la mia sciagura non è quale mi appare; forse tutto questo dolore è irragionevole». E, per protrarre la tregua, intende lo spirito perplesso ad acquistare una nozione più esatta della realtà. Ma a me il dubbio non si presentò neppure per un attimo; io non ebbi neppure un attimo d'incertezza. M'è impossibile esplicare il fenomeno che si svolse nella mia conscienza divenuta straordinariamente lucida. Pareva che per un segreto spontaneo processo, compiutosi in una sfera interiore oscura, tutti gli inavvertiti indizii relativi alla cosa tremenda si fossero coordinati tra loro formando una nozione logica, completa, coerente, definitiva, irrefragabile; la quale ora mi si manifestasse d'un tratto assorgendo nella mia conscienza con la rapidità di un oggetto che, non più trattenuto al fondo da legami ignoti, venga su la linea dell'acqua a galleggiare e vi rimanga insommergibile. Tutti gli indizii, tutte le prove erano , in ordine. Io non dovevo compiere alcuno sforzo per ricercarli, per sceglierli, per riunirli. Fatti insignificanti, lontani, s'illuminavano nella nuova luce; lembi di vita recente si ricolorivano. E l'avversione insolita di Giuliana per i fiori, per gli odori, i suoi turbamenti singolari, le sue nausee mal dissimulate, i suoi pallori subitanei, quella specie di nube continua tra ciglio e ciglio, quella stanchezza immensa di certe sue attitudini; e le pagine segnate con l'unghia nel libro russo, il rimprovero del vecchio al conte Besoukhow, la domanda estrema della piccola principessa Lisa, e quel gesto con cui ella mi aveva tolto di mano il libro; e poi le scene di Villalilla, le lacrime, i singhiozzi, le frasi ambigue, i sorrisi sibillini, i quasi lugubri ardori, le volubilità quasi folli, le evocazioni della morte, tutti gli indizii si aggruppavano intorno alle parole di mia madre incise nel centro della mia anima.

Mia madre aveva detto: «È impossibile ingannarsi. Fino a due o tre giorni fa, Giuliana negava o almeno diceva di non esserne certa... Sapendoti così apprensivo, m'ha pregata di non parlartene...». La verità non poteva essere più chiara. Tutto, dunque, ormai era certo!

Entrai nell'alcova; m'appressai al letto. Dietro di me le cortine ricaddero; la luce divenne più fievole. L'ansietà mi tolse il respiro, tutto il sangue mi si fermò nelle arterie, quando io giunsi al capezzale e mi chinai per guardare più da vicino la testa di Giuliana, quasi celata dal lenzuolo. Io non so che sarebbe avvenuto s'ella avesse alzato la faccia ed avesse parlato, in quel momento.

Dormiva ella? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.

Rimasi qualche minuto, in piedi, aspettando. Ma dormiva ella? Non si moveva, giacendo sul fianco. La bocca nascosta dal lenzuolo non dava segno di respirazione al mio udito. Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.

Come mi sarei contenuto s'ella si fosse accorta della mia presenza? Non era quella l'ora delle interrogazioni, l'ora del colloquio. S'ella avesse sospettato che tutto m'era noto, a quali estremità si sarebbe spinta in quella notte? Avrei io dunque dovuto simulare un'ingenua tenerezza, avrei dovuto mostrarmi perfettamente ignaro, persistere nella espressione del sentimento che m'aveva dettato le dolci parole, quattro ore innanzi, a Villalilla. «Stasera, stasera, nel tuo letto... Vedrai come saprò tenerti. Ti addormenterò. Mi dormirai tutta la notte sul cuore...»

Girando lo sguardo intorno smarrito, scorsi sul tappeto gli scarpini lucidi e sottili, su la spalliera d'una sedia le lunghe calze di seta cinerina, le giarrettiere d'amoerro, un altro oggetto di segreta eleganza, tutte cose di cui i miei occhi d'amante s'erano già dilettati nelle intimità recenti. E la gelosia dei sensi mi morse con tanta furia che fu un prodigio se io mi trattenni dal gittarmi su Giuliana per risvegliarla e per gridarle le parole folli e crude che mi suggeriva la collera subitanea.

Mi ritrassi vacillando, uscii dall'alcova. Pensai con un cieco sgomento: «Come finiremo?».

Mi disponevo ad andarmene. «Scenderò. Dirò a mia madre che Giuliana dorme, che ha un sonno molto calmo; le dirò che anch'io ho bisogno di riposo. Mi ritirerò nella mia stanza. Domattina poi...» Ma rimanevo perplesso, incapace di varcare la soglia, assalito da mille paure. Mi volsi ancóra verso l'alcova, con un moto repentino, come se avessi sentito uno sguardo sopra di me. Mi parve che le cortine ondeggiassero; ma fu un abbaglio. Eppure qualche cosa come un'onda magnetica a traverso le cortine veniva a penetrarmi; qualche cosa a cui non resistevo. Entrai nell'alcova una seconda volta, rabbrividendo.

Giuliana giaceva nella medesima attitudine. Dormiva? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta. Mi sedetti, presso al capezzale; ed aspettai. Guardavo quella fronte pallida come il lenzuolo, tenue e pura come una particola, sororale, che tante volte le mie labbra avevano baciata religiosamente, che tante volte avevano baciata le labbra di mia madre.

Non v'appariva segno di contaminazione; alla vista era sempre la stessa, nulla al mondo poteva ormai cancellare la macchia che vedevano su quel pallore gli occhi della mia anima!

Alcune parole, proferite da me nell'ultima ebrezza, mi tornarono alla memoria. «Io ti veglierò, ti leggerò sul viso i sogni che sogneraiRipensai: «Ella ripeteva ad ogni tratto: - Sì, sì». Domandai a me medesimo: «Di che vita ella vive, entro di sé? Quali sono i suoi propositi? Che ha ella risoluto?». E guardavo la sua fronte, non più considerai il mio dolore; ma mi piegai tutto a raffigurare il suo dolore, a comprendere il suo dolore.

Certo, doveva essere una disperazione inumana, la sua; senza tregua, senza limite. Il mio castigo era anche il suo castigo, ed era per lei forse un castigo anche più terribile. Laggiù, a Villalilla, pel viale, sul sedile, nella casa, ella aveva certo sentita la verità nelle mie parole, aveva certo letta la verità nella mia faccia. Ella aveva creduto al mio amore immenso.

«... Tu eri nella mia casa mentre io ti cercavo lontano. Ah, dimmi tu: questa rivelazione non vale tutte le tue lacrime? Non vorresti averne versate anche più, anche più, per una tale prova?

- Sì, anche più!...»

Così aveva ella risposto, così tutta la sua anima aveva risposto, con un soffio che veramente m'era parso divino. «Sì, anche più!...»

Ella avrebbe voluto aver versato altre lacrime, avrebbe voluto aver sofferto un altro martirio per quella rivelazione! E, vedendo ai suoi piedi appassionato come non mai l'uomo da anni perduto e pianto, vedendo aprirsi d'innanzi a sé un gran paradiso ignoto, ella s'era sentita impura, aveva avuta la sensazione materiale della sua impurità, aveva dovuto sopportare la mia testa sul grembo fecondato dal seme di un altro uomo.. Ah, come mai, veramente le sue lacrime non mi avevano piagata la faccia? Come mai avevo potuto io beverle senza avvelenarmi?

Rivissi in un attimo tutta la nostra giornata d'amore. Rividi tutte le espressioni, anche le più fuggevoli, apparse sul volto di Giuliana dal momento del nostro ingresso a Villalilla; e tutte le compresi. Una gran luce s'era fatta in me. «Ah quando io le parlavo del domani, le parlavo dell'avvenire!... Che spaventosa parola doveva essere per lei quel Domani su le mie labbra!...» E mi tornò alla memoria il breve dialogo avvenuto sul limitare del balcone al conspetto del cipresso. Ella aveva ripetuto sommessamente, con un sorriso tenue: «Morire!». Aveva parlato di fine prossima. Aveva domandato: «Che faresti tu se io ti morissi, all'improvviso? Se, per esempio, domani io fossi morta?». Più tardi, nella nostra stanza, ella aveva gridato stringendosi a me: «No, no, Tullio; non si parla dell'avvenire... Pensa a oggi, all'ora che passa!». Non tradivano tali atti, tali parole un proposito di morte, una risoluzione tragica? Era manifesto ch'ella aveva risoluto di uccidersi, ch'ella si sarebbe uccisa, forse in quella notte medesima, prima del domani indifferibile, non essendoci per lei altro scampo.

Quando cessò il raccapriccio che mi venne dal pensiero del pericolo imminente, io considerai in me stesso: «Sarebbero più gravi le conseguenze della morte di Giuliana o quelle della sua incolumità? Poiché la ruina è senza riparo e l'abisso è senza fondo, una catastrofe immediata è forse preferibile alla prolungazione indefinita del dramma spaventevole». E la mia imaginazione mi faceva assistere alle fasi della nuova maternità di Giuliana, mi faceva vedere il nuovo essere procreato, l'intruso che avrebbe portato il mio nome, che sarebbe stato il mio erede, che avrebbe usurpato le carezze di mia madre, delle mie figliuole, di mio fratello. «Certo, soltanto la morte può interrompere il corso fatale di questi eventi. Ma il suicidio resterebbe segreto? Con qual mezzo Giuliana si ucciderebbe? Accertata la morte volontaria, che penserebbero mia madre, mio fratello? Qual colpo ne riceverebbe mia madre? E Maria? E Natalia? E che farei allora io della mia vita

Non riuscivo, veramente, a concepire la mia vita senza Giuliana. Io amavo quella povera creatura anche nella sua impurità. Tranne quell'impeto subitaneo di collera suscitatomi dalla gelosia carnale, io non avevo ancor provato contro di lei un senso d'odio o di rancore o di disdegno. Non m'era balenato alcun pensiero di vendetta. Invece, io avevo di lei una misericordia profonda. Io accettavo, fin da principio, tutta la responsabilità della sua caduta. Un sentimento fiero e generoso mi sollevò, mi esaltò. «Ella ha saputo chinare il capo sotto i miei colpi, ha saputo soffrire, ha saputo tacere; mi ha dato l'esempio del coraggio virile, dell'abnegazione eroica. Ora è venuta la mia volta. Io le debbo il contraccambio. Debbo salvarla ad ogni costo.» E questa sollevazione dell'anima, questa cosa buona, mi veniva da lei.

La guardai da presso. Rimaneva ancóra immobile, nella medesima attitudine, con la fronte scoperta. Pensai: «Ma dorme? Se invece fingesse di dormire per allontanare ogni sospetto, per farsi credere calma, per esser lasciata sola? Certo, se il suo proposito è di non arrivare a domani, ella cerca di favorirne l'esecuzione con ogni mezzo. Ella simula il sonno. Se il sonno fosse reale, non sarebbe così tranquillo, così fermo, in lei che ha i nervi sovreccitati. Ora la scuoto...». Ma esitai: «Se realmente dormisse? Talvolta, dopo una grande dispersione di forza nervosa, anche in mezzo alle più fiere inquietudini morali il sonno piomba grave come una sincope. Oh le durasse questo sonno fino a domani e potesse ella domani levarsi rinfrancata, a bastanza forte per sostenere il colloquio tra noi inevitabile!». Guardavo fissamente quella fronte pallida come il lenzuolo; e, chinandomi un poco più, m'accorsi che diveniva madida. Una stilla di sudore spuntava sul sopracciglio. E quella stilla mi suscitò l'idea del sudor freddo che annuncia l'azione dei veleni narcotici. Sùbito mi balenò un sospetto. «La morfina!» E per istinto il mio sguardo corse al tavolo da notte, di dal capezzale, come a cercarvi la fiala di vetro contrassegnata dal piccolo teschio nero, dal noto simbolo mortuario.

Erano su quel tavolo una boccia d'acqua, un bicchiere, un candeliere, un fazzoletto, alcune forcine che rilucevano; non v'era altro. Feci un esame rapido di tutta l'alcova. Un'ansietà angosciosa mi stringeva. «Giuliana ha la morfina. Ne ha sempre avuta una certa quantità, liquida, per le iniezioni. Son sicuro che ha pensato di avvelenarsi con quella. Dove tiene nascosta la bottiglietta?» Io avevo fissa dentro le pupille l'imagine della piccola fiala di vetro veduta una volta tra le mani di Giuliana, distinta da quel segno sinistro che usano i farmacisti per distinguere un tossico. La fantasia eccitata mi suggerì: «E se ella avesse già bevuto?... Quel sudore...». Tremavo, su la sedia; e un dibattito rapido si agitava dentro di me. «Ma quando? Ma come? Ella non è rimasta mai sola. - Basta un attimo per vuotare una fiala. - Ma in lei non sarebbe forse mancato il vomito... E quell'accesso di vomito convulso, dianzi, appena ella è giunta qui? Avendo premeditato il suicidio, forse ella portava seco la morfina. Non può essere ch'ella l'abbia bevuta prima di giungere alla Badiola, in carrozza, nell'ombra? Infatti, ella ha impedito che Federico andasse a chiamare il medico..» Io non conoscevo bene i sintomi dell'avvelenamento per morfina. Nel dubbio, la fronte bianca e madida, la immobilità perfetta di Giuliana mi atterrivano. Stavo per scuoterla. «Ma se m'inganno? Ella si sveglia ed io che cosa le dico?» Mi pareva che la prima parola di lei, il primo sguardo scambiato tra lei e me, la prima comunicazione diretta tra lei e me, dovessero cagionarmi un effetto straordinario, d'una violenza imprevedibile, inimaginabile. Mi pareva che non avrei potuto dominarmi, dissimulare, e che ella sùbito, guardandomi, avrebbe indovinata la mia consapevolezza. E allora?

Tesi l'orecchio, sperando e temendo che sopraggiungesse mia madre. Poi (non avrei tremato così nel sollevare il lembo d'un lenzuolo funebre per rivedere la sembianza di una persona estinta) scopersi a poco a poco il volto di Giuliana.

Ella aprì gli occhi.

- Ah, Tullio, sei tu?

Ella aveva la sua voce naturale. Cosa inaspettata: io potevo parlare.

- Dormivi? - le dissi, evitando di guardarla nelle pupille.

- Sì, m'ero assopita.

- Io dunque t'ho svegliata... Perdonami... Volevo scoprirti la bocca. Temevo che tu non respirassi bene... che le coperte ti affogassero...

- Sì, è vero. Ora ho caldo, troppo caldo... Levami qualcuna di queste coperte; ti prego.

E io mi alzai per alleggerirla di qualche coperta. M'è ora impossibile definire il mio stato di conscienza relativo a quegli atti che io facevo, a quelle parole che io dicevo e udivo, a quelle cose che accadevano naturalmente come se nulla fosse mutato, come se io e Giuliana fossimo ignari e immuni, come se dentro non fossero l'adulterio, il disinganno, il rimorso, la gelosia, la paura, la morte, tutte le atrocità umane, in quell'alcova tranquilla.

Ella mi domandò:

- È molto tardi?

- No, non è ancóra mezzanotte.

- La mamma è andata a letto?

- Non ancóra.

Dopo una pausa:

- E tu... non vai? Devi essere stanco...

Non seppi rispondere. Dovevo rispondere che rimanevo? pregarla di lasciarmi rimanere? ripeterle le parole tenere proferite su la poltrona, nella nostra stanza, a Villalilla? Ma, rimanendo, in che modo avrei passata la notte? , su la sedia, a vegliare, o nel letto accanto a lei? In che modo mi sarei condotto? Avrei potuto simulare sino in fondo?

Ella soggiunse:

- È meglio che tu vada, Tullio... per questa sera... Io non ho bisogno più di nulla; non ho bisogno d'altro che di riposo. Se tu rimanessi... sarebbe male... È meglio che tu vada, per questa sera, Tullio.

- Ma tu potresti aver bisogno...

- No. E poi, in ogni caso, c'è Cristina che dorme qui accanto.

- Io mi stendo , sul canapè, con una coperta...

- Perché vuoi soffrire? Tu sei molto stanco: si vede dalla faccia... E poi, se io ti sapessi , non dormirei. Sii buono, Tullio! Domattina, presto, tu verrai a vedermi. Ora abbiamo bisogno di riposo, tutt'e due: d'un riposo completo...

Ella aveva la voce fioca e carezzevole, senza alcun accento insolito. Tranne l'insistenza nel persuadermi ad andarmene, null'altro accusava in lei il proposito funesto. Ella pareva prostrata di forze ma calma. Di tratto in tratto chiudeva gli occhi, come se il sonno le aggravasse le palpebre. - Che fare? Lasciarla? Ma la sua calma appunto mi spaventava. Una tale calma non poteva venirle che dalla fermezza del proposito. Che fare? Tutto considerato, anche la mia presenza durante la notte sarebbe stata vana. Ella avrebbe potuto benissimo mandare ad effetto il suo pensiero, essendosi preparata, avendo pronto il mezzo. Questo mezzo era veramente la morfina? E dove teneva ella nascosta la fiala? Sotto il guanciale? Nel cassetto del tavolo da notte? In che modo farne ricerca? Bisognava palesare tutto, dire all'improvviso: «Io so che tu ti vuoi uccidere». Ma quale scena sarebbe seguita? Non sarebbe stato possibile nascondere il resto. E che notte, allora, sarebbe stata quella? - Tante perplessità esaurivano ogni mia energia, mi dissolvevano. I miei nervi si rilasciavano. La stanchezza fisica diveniva sempre più grave. Tutto il mio organismo entrava in quello stato di sfinimento estremo in cui ogni funzione volontaria sta per essere sospesa, in cui azioni e reazioni non si corrispondono più o non si compiono. Io mi sentivo incapace di resistere più oltre, di lottare, di operare in una qualunque maniera utile. Il sentimento della mia debolezza, il sentimento della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere mi paralizzavano. Il mio essere pareva colpito come da una paralisia repentina. Io provavo Un bisogno cieco di sfuggire anche a quell'ultima oscura conscienza dell'essere. E finalmente tutte le mie ansietà si risolsero in un pensiero disperato. «Avvenga che può, c'è anche per me la morte

- Sì, Giuliana, - dissi - ti lascio in pace. Dormi. Ci vedremo domani.

- Non ti reggi!

- Già, è vero; non mi reggo... Addio. Buona notte!

- Non mi dai un bacio, Tullio?

Un brivido di ripugnanza istintiva mi attraversò. Esitai. In quel punto entrava mia madre.

- Come, sei sveglia? - esclamò mia madre.

- Sì, ma ora mi riaddormento.

- Sono stata a vedere le bambine. Natalia era desta. M'ha domandato sùbito: «È tornata la mamma?». Voleva venire...

- Perché non dici a Edith che me la porti? S'è messa a letto Edith?

- No.

- Addio, Giuliana - interruppi.

E m'appressai, e mi chinai a baciarle la guancia ch'ella mi porgeva sollevandosi un poco su i gomiti.

- Addio, mamma. Vado a coricarmi perché ho un sonno che m'acceca.

- E non prendi nulla? Federico è rimasto giù ad aspettarti...

- No, mamma; non ho voglia. Buona notte!

E baciai su la guancia anche lei. Ed uscii senza indugio, senza volgere uno sguardo a Giuliana; raccolsi le poche forze che mi restavano e, appena fuori della soglia, mi misi a correre verso le mie stanze, per tema di cadere prima di aver raggiunta la mia porta.

Mi gettai bocconi sul letto. M'agitava quell'orgasmo che precede i grandi scoppi di pianto, quando il nodo dell'angoscia sta per disciogliersi, quando la tensione sta per allentarsi. Ma l'orgasmo durava, e il pianto non veniva. La sofferenza era orribile. Un peso enorme mi gravava in tutto il corpo, un peso che io sentivo non sopra ma dentro di me come se le mie ossa e i miei muscoli fossero divenuti di piombo compatto. E il mio cervello pensava ancóra! E la mia conscienza era ancóra vigile!

«No, non dovevo lasciarla, non dovevo consentire ad andarmene così. Certo, quando mia madre si sarà ritirata, ella si ucciderà. Il suono della sua voce quando ha espresso il desiderio di rivedere Natalia!..» Un'allucinazione s'impadronì di me, subitamente. - Mia madre usciva dalla stanza. Giuliana si levava a sedere sul letto, si metteva in ascolto. Poi, sicura d'essere alfine sola, prendeva dal cassetto del tavolo da notte la bottiglia della morfina; non esitava un attimo; con un gesto risoluto, la vuotava d'un fiato; si ritraeva sotto le coperte; si metteva supina, ad aspettare... - La visione imaginaria del cadavere giunse a una tale intensità che io, come un ossesso, m'alzai; girai tre o quattro volte intorno alla stanza urtando contro i mobili, inciampando nei tappeti, gesticolando paurosamente. Aprii una finestra.

La notte era tranquilla, piena d'un gracidare di rane monotono e continuo. Le stelle palpitavano.

L'Orsa brillava incontro, distinta. Il tempo fluiva.

Rimasi alcuni minuti al davanzale, in attesa, fissando la grande costellazione che pareva alla mia vista perturbata avvicinarsi. Non sapevo, veramente, che attendessi. Mi smarrivo. Avevo un sentimento particolare della vacuità di quel cielo immenso. All'improvviso, in quella specie di pausa dubitosa, come se un qualche influsso oscuro avesse operato sul mio essere nella profondità dell'inconscienza, risorse spontanea la domanda non ancóra bene compresa: «Che avete fatto di me?». E la visione del cadavere, per poco interrotta, si riaffacciò.

L'orrore fu tale che io, pur non sapendo quale azione volessi compiere, mi volsi, uscii senza esitare, mi diressi verso la stanza di Giuliana. Incontrai Miss Edith nell'andito.

- Di dove venite, Edith? - le chiesi.

M'accorsi ch'ella si stupì del mio aspetto.

- Ho portato Natalia dalla signora che la voleva vedere; ma ho dovuto lasciarla . Non è stato possibile persuaderla a tornarsene nel suo letto. Ha pianto tanto che la signora ha consentito a tenerla con sé. Speriamo che Maria non si svegli ora...

- Ah, dunque...

Il cuore mi batteva con tal veemenza, che non potevo parlare di seguito.

- Ah, dunque, Natalia è rimasta nel letto della madre...

- Sì, signore.

- E Maria... Andiamo a vedere Maria.

La commozione mi soffocava. Giuliana per quella notte era salva! Non era possibile ch'ella pensasse a morire in quella notte, avendo la bambina al suo fianco. Per miracolo, il tenero capriccio di Natalia aveva salvato la madre. «Benedetta! Benedetta!» Prima di guardare Maria addormentata, io guardai il piccolo letto vuoto dov'era rimasto un piccolo solco. Strane voglie mi venivano, di baciare il guanciale, di sentire se il solco fosse ancóra tiepido. La presenza di Edith mi teneva in disagio. Mi volsi a Maria, mi chinai trattenendo il respiro, la contemplai a lungo, ricercai a una a una le note somiglianze ch'ella aveva con me, quasi numerai le vene tenui che le trasparivano nella tempia, nella guancia, nella gola. Dormiva sul fianco, tenendo la testa abbandonata indietro così che tutta la gola rimaneva scoperta sotto il mento alzato. I denti, minuti come grani di riso mondi, lucevano nella bocca socchiusa. I cigli, lunghi come quelli della madre, spandevano dal cavo degli occhi un'ombra che toccava il sommo delle gote. Una gracilità di fiore prezioso, una finezza estrema distinguevano quella forma infantile in cui io sentivo fluire il mio sangue assottigliato.

Quando mai, da che le due creature vivevano, quando mai avevo provato per loro un sentimento così profondo, così dolce e così triste?

Mi tolsi di a fatica. Avrei voluto sedermi tra i due piccoli letti e riposare il capo su la sponda di quello vuoto, aspettando il domani.

- Buona notte, Edith - dissi uscendo; e la mia voce tremava d'un tremito diverso.

Come giunsi alla mia stanza, di nuovo mi gittai bocconi sul letto. E ruppi alfine in singhiozzi, perdutamente.

 

 


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