Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'innocente
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Nella violenza delle mie agitazioni diverse e contrarie, nel primo tumulto del dolore, sotto la minaccia dei pericoli imminenti, io non m'era ancóra fermato a considerare l'Altro. Ma anche, fin dal principio, non avevo avuto neppur l'ombra di un dubbio su la giustezza del mio antico sospetto. Sùbito, nel mio spirito, l'Altro aveva preso l'imagine di Filippo Arborio; e, al primo impeto di gelosia carnale che m'aveva assalito dentro l'alcova, l'imagine abominevole s'era accoppiata con quella di Giuliana in una serie di visioni orrende.

Ora, mentre io e Federico andavamo cavalcando verso la foresta, lungo quel fiume tortuoso che io avevo contemplato nel torbido pomeriggio del Sabato Santo, l'Altro veniva con noi. Tra me e mio fratello s'intrapponeva la figura di Filippo Arborio, vivificata dal mio odio, resa dal mio odio così intensamente viva che io provavo, guardandola, in sensazione reale, un orgasmo fisico, qualche cosa di simile al fremito selvaggio da cui ero stato preso talvolta trovandomi sul terreno, di fronte all'avversario spogliato di camicia, al segnale dell'attacco.

La vicinanza di mio fratello aumentava straordinariamente il mio male. Al paragone di Federico, la figura di quell'uomo, così fine, così nervosa, così feminea, si rimpiccioliva, s'immiseriva, diveniva spregevole per me ed ignobile. Sotto l'influsso del nuovo ideale di forza e di semplicità virile, ispiratomi dall'esempio fraterno, io non soltanto odiavo ma disprezzavo quell'essere complicato ed ambiguo che pure apparteneva alla mia stessa razza e aveva comuni con me alcune particolarità di constituzione cerebrale, come appariva dalla sua opera d'arte. Io me lo imaginavo, a simiglianza d'uno dei suoi personaggi letterarii, affetto dalle più tristi malattie dello spirito, obliquo, doppio, crudelmente curioso, isterilito dall'abitudine dell'analisi e dell'ironia riflessa, di continuo occupato a convertire i più caldi e spontanei moti dell'animo in nozioni chiare e glaciali, avvezzo a considerare qualunque creatura umana come un soggetto di pura speculazione psicologica, incapace d'amore, incapace d'un atto generoso, d'una rinuncia, d'un sacrificio, indurito nella menzogna, ottuso dal disgusto, lascivo, cinico, vile.

Da un tale uomo Giuliana era stata sedotta, era stata posseduta: certo, non amata. La maniera non appariva anche in quella dedica scritta sul frontespizio del Segreto, in quella dedica enfatica che era l'unico documento a me noto risguardante la relazione passata tra il romanziere e mia moglie? Certo, ella era stata nelle mani di colui una cosa di voluttà, non altro. Espugnare la Torre d'avorio, corrompere una donna publicamente vantata incorruttibile, esperimentare un metodo di seduzione sopra un soggetto tanto raro: - impresa ardua ma piena di attrattive, degna in tutto di un artista raffinato, del difficile psicologo che aveva scritto La Cattolicissima e Angelica Doni.

Come più riflettevo, i fatti mi apparivano nella loro crudità bruta. Certo, Filippo Arborio aveva incontrata Giuliana in uno di quei periodi in cui la donna così detta «spirituale», che ha sofferta una lunga astinenza, è commossa da aspirazioni poetiche, da desiderii indefiniti, da languori vaghi; i quali non sono se non le larve di cui si mascherano i bassi stimoli dell'appetito sessuale. Filippo Arborio, esperto, avendo indovinato la special condizione fisica della donna ch'egli voleva possedere, s'era servito del metodo più conveniente e più sicuro, che è questo: - parlare d'idealità, di zone superiori, di alleanze mistiche, ed occupare nel tempo medesimo le mani alla scoperta d'altri misteri; unire insomma un brano di pura eloquenza a una delicata manomessione. - E Giuliana, la Turris eburnea, la grande taciturna, la creatura composta d'oro duttile e d'acciaio, l'Unica, s'era prestata a quel vecchio giuoco, s'era lasciata prendere a quel vecchio inganno, aveva anch'ella obedito alla vecchia legge della fragilità muliebre. E il duetto sentimentale era finito con una copula disgraziatamente feconda...

Un orribile sarcasmo mi torceva l'anima. Mi pareva d'avere non nella bocca ma dentro di me la convulsione provocata da quell'erba che ci fa morire a modo di chi ride.

Spronai il cavallo; e lo misi al galoppo, lungo l'argine del fiume.

L'argine era periglioso, strettissimo nelle lunate, minacciato di frana in taluni punti, in altri ingombrato dai rami di qualche grosso albero torto, in altri attraversato da radici a fior di terra enormi. Io avevo perfetta conscienza del pericolo a cui mi esponevo; e, invece di trattenere, spingevo sempre più il cavallo, non con l'intenzione d'incontrare la morte ma volendo trovare in quell'ansietà una tregua allo spasimo intollerabile. Conoscevo già l'efficacia di una tale follia. Dieci anni fa, quando ero assai giovine, addetto all'ambasciata in Costantinopoli, per sfuggire a certi accessi di tristezza prodotti da ricordi recenti di passione, nelle notti di luna entravo a cavallo in uno di quei cimiteri musulmani densi di tombe, su le pietre lisce in pendio, correndo mille volte il rischio di uccidermi in una caduta. Stando con me in groppa, la morte cacciava ogni altra cura.

- Tullio! Tullio! Férmati! - mi gridava Federico a distanza. - Férmati!

Io non gli davo ascolto. Più d'una volta, per prodigio, evitai di battere la fronte contro qualche ramo orizzontale. Più d'una volta per prodigio impedii al cavallo di urtare contro un tronco. Più d'una volta, nei passi angusti, vidi certa la caduta nel fiume che mi luccicava sotto. Ma quando udii dietro di me un altro galoppo e m'accorsi che Federico m'inseguiva alla gran carriera, temendo per lui, con una strappata violenta arrestai il povero animale che s'impennò, rimase un istante inalberato come per precipitarsi nell'acqua, poi ricadde. Io ero incolume.

- Ma sei impazzito? - mi gridò Federico, sopraggiungendo, pallidissimo.

- T'ho fatto paura? Perdonami. Credevo che non ci fosse pericolo. Volevo provare il cavallo... Poi non lo potevo più fermare... È un po' duro, di bocca...

- Duro di bocca Orlando!

- Non ti pare?

Egli mi guardò fiso, con un'espressione inquieta. Io tentai di sorridere. Il suo pallore insolito mi faceva pena e tenerezza.

- Non so come tu non ti sia spezzato il capo contro uno di questi alberi; non so come tu non sia precipitato...

- E tu?

Per inseguirmi egli aveva corso lo stesso pericolo, forse anche maggiore perché il suo cavallo era più pesante ed egli aveva dovuto metterlo a tutta carriera volendo raggiungermi in tempo. Ambedue considerammo la via dietro di noi.

- È un miracolo - egli disse. - Già, salvarsi dall'Assòro è quasi impossibile. Non vedi?

Ambedue considerammo sotto di noi il fiume mortifero. Cupo, luccicante, rapido, pieno di mulinelli e di gorghi, l'Assòro correva tra gli argini cretacei con un silenzio che lo rendeva più torvo. Il paesaggio rispondeva a quell'aspetto di perfidia e di minaccia. Il cielo pomeridiano s'era impregnato di vapori e biancheggiava stancamente con un riverbero diffuso, sopra una distesa di macchioni rossastri che la primavera non aveva ancor vinti. Le foglie morte si mescevano quivi con le viventi nuove, gli stecchi aridi con i virgulti, i cadaveri coi neonati vegetali, in un denso intrico allegorico. Su la turbolenza del fiume, sul contrasto della boscaglia biancheggiava il cielo stancamente, dissolvendosi.

«Un tonfo improvviso; e non avrei più pensato, non avrei più sofferto, non avrei più portato il peso della mia carne miserabile. Ma forse avrei trascinato con me nel precipizio mio fratello: una forma nobile di vita, un Uomo. Io sono salvo per miracolo com'egli è salvo per miracolo. La mia follia lo ha esposto al rischio estremo. Un mondo di cose belle e di cose buone sarebbe scomparso con lui. Quale fatalità vuole che io sia così nocivo alle persone che mi amano

Guardai Federico. Egli era divenuto pensoso e grave. Non osai interrogarlo; ma provai un acuto rammarico d'averlo contristato. - Che pensava egli? Qual pensiero alimentava il suo turbamento? Aveva forse indovinato che io dissimulavo una sofferenza inconfessabile e che soltanto l'aculeo d'una idea fissa m'aveva spinto alla corsa mortale?

Seguitammo lungo l'argine, l'uno dietro l'altro, al passo. Poi volgemmo per un sentiero che s'inoltrava nella macchia; e, come il sentiero era a bastanza largo, di nuovo cavalcammo l'uno a fianco dell'altro mentre i cavalli sbuffavano avvicinando le froge come per parlarsi in segreto e mescolavano la schiuma dei loro freni.

Pensavo, gittando di tratto in tratto un'occhiata a Federico e vedendolo ancóra severo: «Certo, se io gli rivelassi la verità, egli non mi crederebbe. Egli non potrebbe credere al fallo di Giuliana, alla contaminazione della sorella. Io non so decidere veramente, tra l'affetto di lui e l'affetto di mia madre per Giuliana, quale sia più profondo. Non ha egli sempre tenuto sul suo tavolo il ritratto della nostra povera Costanza e il ritratto di Giuliana riuniti come in un dittico per la stessa adorazione? Anche stamani, come s'addolciva la sua voce nominandola!». Subitamente, per contrasto, la bruttura mi si ripresentò anche più turpe. Era il corpo intraveduto nello spogliatoio della sala d'armi quello che si atteggiava nelle mie visioni. E il mio odio purtroppo operava su quell'imagine come l'acido nitrico su i tratti segnati nella lastra di rame. L'incisione diveniva sempre più netta.

Allora, mentre mi durava nel sangue l'eccitamento della corsa, per quell'esuberanza di coraggio fisico, per quell'istinto di combattività ereditario che tanto spesso si risvegliava in me al rude contatto degli altri uomini, io sentii che non avrei potuto rinunziare ad affrontare Filippo Arborio. «Andrò a Roma, cercherò di lui, lo provocherò in qualche modo, lo costringerò a battersi, farò di tutto per ucciderlo o per renderlo invalido.» Io me lo imaginavo pusillanime. Mi tornò alla memoria una mossa un po' ridicola che gli era sfuggita, nella sala d'armi, al ricevere in pieno petto una botta dal maestro. Mi tornò alla memoria la sua curiosità nel chiedermi notizia del mio duello: quella curiosità puerile che fa spalancare gli occhi a chi non s'è trovato mai nel cimento. Mi ricordai che, durante il mio assalto, egli aveva tenuto lo sguardo sempre fisso su me. La conscienza della mia superiorità, la certezza di poterlo sopraffare mi sollevarono. Nella mia visione, un rivo rosso rigò quella sua pallida carne ributtante. Alcuni frammenti di sensazioni reali, provate in altri tempi a fronte di altri uomini, concorsero a particolarizzare quello spettacolo imaginario nel quale m'indugiavo. E vidi colui sanguinoso e inerte su un pagliericcio, in un casale lontano, mentre i due medici accigliati gli si curvavano sopra.

Quante volte io, ideologo e analista e sofista in epoca di decadenza, m'ero compiaciuto d'essere il discendente di quel Raimondo Hermil De Penedo che alla Goletta operò prodigi di valore e di ferocia sotto gli occhi di Carlo Quinto! Lo sviluppo eccessivo della mia intelligenza e la mia multanimità non avevano potuto modificare il fondo della mia sostanza, il substrato nascosto in cui erano inscritti tutti i caratteri ereditarii della mia razza. In mio fratello, organismo equilibrato, il pensiero s'accompagnava sempre all'opera; in me il pensiero predominava ma senza distruggere le mie facoltà di azione che anzi non di rado si esplicavano con una straordinaria potenza. Io ero insomma un violento e un appassionato consciente, nel quale l'ipertrofia di alcuni centri cerebrali rendeva impossibile la coordinazione necessaria alla vita normale dello spirito. Lucidissimo sorvegliatore di me stesso, avevo tutti gli impeti delle nature primitive indisciplinabili. Più d'una volta io ero stato tentato da improvvise suggestioni delittuose. Più d'una volta ero rimasto sorpreso dall'inurrezione spontanea d'un istinto crudele.

- Ecco le carbonare - disse mio fratello, mettendo il cavallo al trotto.

Si udivano i colpi delle scuri nella foresta e si vedevano le spire del fumo salire tra gli alberi. La colonia dei carbonai ci salutò. Federico interrogava i lavoratori intorno all'andamento delle opere, li consigliava, li ammoniva, osservando con occhio esperto i fornelli. Tutti stavano davanti a lui in attitudini di reverenza e lo ascoltavano attenti. Il lavoro d'intorno pareva esser divenuto più fervido, più facile, più giocondo, come il crepitio del fuoco efficace. Gli uomini correvano qua e a gittar terra dove il fumo usciva con troppa copia, a chiudere con zolle i varchi aperti dalle esplosioni; correvano e vociavano. Gridi gutturali d'abbattitori si mescevano a quelle voci rudi. Rimbombava nell'interno lo schianto di qualche albero caduto. Fischiavano, in qualche pausa, i merli. E la grande foresta immobile contemplava i roghi alimentati dalle sue vite.

Mentre mio fratello compiva l'esame delle opere, io mi allontanai lasciando al cavallo la scelta dei sentieri che si diramavano pel folto. I rumori si affiochivano dietro di me, gli echi morivano. Un silenzio grave scendeva dalle cime. Io pensavo: «Come farò per risollevarmi? Quale sarà la mia vita da domani in poi? Potrò seguitare a vivere nella casa di mia madre col mio segreto? Potrò accomunare la mia esistenza con quella di Federico? Chi mai, che cosa mai al mondo potrà risuscitare nella mia anima una scintilla di fede?». Lo strepito delle opere si spegneva dietro di me; la solitudine diventava perfetta. «Lavorare, praticare il bene, vivere per gli altri... Potrei ora ritrovare in queste cose il vero senso della vita? E veramente il senso della vita non si ritrova pieno nella felicità personale ma in queste cose soltanto? L'altro giorno, mentre mio fratello parlava, io credevo di comprendere la sua parola; credevo che la dottrina della verità mi si rivelasse per la sua bocca. La dottrina della verità, secondo mio fratello, non sta nelle leggi, non sta nei precetti, ma semplicemente e unicamente nel senso che l'uomo alla vita. Mi pareva d'aver compreso. Ora, d'un tratto, sono ritornato nel buio; sono ridiventato cieco. Non comprendo più nulla. Chi mai, che cosa mai al mondo mi potrà consolare del bene che ho perduto?» E l'avvenire mi apparve spaventoso, senza speranza. L'imagine indeterminata del nascituro crebbe, si dilatò, come quelle orribili cose informi che noi vediamo talvolta negli incubi, ed occupò tutto il campo. Non si trattava d'un rimpianto, d'un rimorso, d'un ricordo indistruttibile, d'una qualunque più amara cosa interiore, ma di un essere vivente. Il mio avvenire era legato a un essere vivente d'una vita tenace e malefica; era legato a un estraneo, a un intruso, a una creatura abominevole contro di cui non soltanto la mia anima ma la mia carne, tutto il mio sangue e tutte le mie fibre votavano un'avversione bruta, feroce, implacabile fino alla morte, oltre la morte. Pensavo: «Chi avrebbe potuto imaginare un supplizio peggiore per torturarmi insieme l'anima e la carne? Il più ingegnosamente efferato dei tiranni non saprebbe concepire certe crudeltà ironiche, le quali sono soltanto del Destino. Era presumibile che la malattia avesse resa sterile Giuliana. Orbene, ella si a un uomo, commette il suo primo fallo, e rimane incinta, ignobilmente, con la facilità di quelle femmine calde che i villani sforzano dietro le siepi, su l'erba in tempo di foia. E, appunto mentre ella è piena delle sue nausee, io mi pasco di sogni, m'abbevero d'ideale, ritrovo le ingenuità della mia adolescenza, non m'occupo di altro che di cogliere fiori... (Oh quei fiori, quegli stomachevoli fiori, offerti con tanta timidezza!) E, dopo una grande ubriacatura tra sentimentale e sensuale, ricevo la dolce notizia - da chi? - da mia madre! E, dopo la notizia, ho un'esaltazione generosa, faccio in buona fede una parte nobile, mi sacrifico in silenzio, come un eroe di Octave Feuillet! Che eroe! Che eroe!». Il sarcasmo mi torceva l'anima, mi contraeva tutte le fibre. E di nuovo, allora, mi prese la follia della fuga.

Guardai davanti a me. In vicinanza, tra i fusti, irreale come un inganno di occhi allucinati, brillava l'Assòro. «Stranopensai, provando un brivido particolare. Non m'ero accorto, prima di quel momento, che il cavallo senza guida s'era inoltrato per un sentiere che conduceva al fiume. Pareva quasi che l'Assòro mi avesse attirato.

Stetti in forse, per un istante, tra il proseguire sino alla riva e il ritornare indietro. Scossi da me il fascino dell'acqua e il cattivo pensiero. Voltai il cavallo.

Un grave accasciamento succedeva alla convulsione interna. Mi sembrò che a un tratto la mia anima fosse divenuta una povera cosa gualcita, avvizzita, rimpicciolita, una cosa miserabile. Mi ammollii; ebbi pietà di me, ebbi pietà di Giuliana, ebbi pietà di tutte le creature su cui il dolore imprime le sue stimate, di tutte le creature che tremano abbrancate dalla vita come trema un vinto sotto il pugno del vincitore inesecrabile. «Che siamo noi? Che sappiamo noi? Che vogliamo? Nessuno mai ha ottenuto quel che avrebbe amato; nessuno otterrà quel che amerebbe. Cerchiamo la bontà, la virtù, l'entusiasmo, la passione che riempirà la nostra anima, la fede che calmerà le nostre inquietudini, l'idea che difenderemo con tutto il nostro coraggio, l'opera a cui ci voteremo, la causa per cui moriremo con gioia. E la fine di tutti gli sforzi è una stanchezza vacua, il sentimento della forza che si disperde e del tempo che si dilegua...» E la vita m'apparve in quell'ora come una visione lontana, confusa e vagamente mostruosa. La demenza, l'imbecillità, la povertà, la cecità, tutti i morbi, tutte le disgrazie; l'agitazione oscura continua di forze inconscienti, ataviche e bestiali nell'intimo della nostra sostanza; le più alte manifestazioni dello spirito instabili, fugaci, sempre subordinate a uno stato fisico, legate alla funzione d'un organo; le transfigurazioni istantanee prodotte da una causa impercettibile, da un nulla; la parte immancabile di egoismo nei più nobili atti; la inutilità di tante energie morali dirette verso uno scopo incerto, la futilità degli amori creduti eterni, la fragilità delle virtù credute incrollabili, la debolezza delle più sane volontà, tutte le vergogne, tutte le miserie m'apparvero in quell'ora. «Come si può vivere? Come si può amare

Risonavano le scuri nella foresta: un grido breve e selvaggio accompagnava ogni colpo. Qua e negli spiazzi i grandi mucchi, in forma di coni tronchi o di piramidi quadrangolari, fumigavano. Le colonne del fumo si levavano dense e diritte come i fusti arborei, nell'aria senza vento. Per me tutto era simbolo, in quell'ora.

Diressi il cavallo verso una carbonara vicina, avendo riconosciuto Federico.

Egli era smontato; e parlava con un vecchio di alta statura, dalla faccia rasa.

- Oh, finalmente! - mi gridò, vedendomi. - Temevo che tu ti fossi smarrito.

- No, non sono andato molto lontano...

- Vedi qui Giovanni di Scòrdio, un Uomo - disse, mettendo una mano su la spalla del vecchio.

Guardai il nominato. Un sorriso singolarmente dolce apparve su la bocca appassita di colui. Non avevo mai veduto sotto una fronte umana occhi tanto tristi.

- Addio, Giovanni. Coraggio! - soggiunse mio fratello con quella voce che pareva avere talvolta, come certi liquori, la potenza d'elevare il tono vitale. - Noi, Tullio, possiamo riprendere la via della Badiola. È già tardi. Ci aspettano.

Rimontò a cavallo. Salutò di nuovo il vecchio. Passando presso ai fornelli, dava qualche avvertimento ai lavoratori per le operazioni della notte prossima in cui doveva apparire il gran fuoco. Ci allontanammo, cavalcando l'uno a fianco dell'altro.

Il cielo si apriva sul nostro capo, lentamente. I veli dei vapori fluttuavano, si disperdevano, si ricomponevano, così che l'azzurro pareva di continuo impallidire come se nella sua liquidità un latte di continuo si diffondesse e si dileguasse. Era vicina quell'ora medesima in cui, il giorno innanzi, a Villalilla, io e Giuliana avevamo guardato il giardino ondeggiante in una luce ideale. La boscaglia intorno cominciava a dorarsi. Gli uccelli cantavano, invisibili.

- Hai osservato bene Giovanni di Scòrdio, quel vecchio? - mi chiese Federico.

- Sì - risposi. - Credo che non dimenticherò il suo sorriso e i suoi occhi.

- Quel vecchio è un santo - soggiunse Federico. - Nessun uomo ha lavorato e sofferto quanto quel vecchio. Ha quattordici figliuoli e tutti a uno a uno si sono distaccati da lui come i frutti maturi si distaccano dall'albero. La moglie, una specie di carnefice, è morta. Egli è rimasto solo. I figli l'hanno spogliato e rinnegato. Tutta l'ingratitudine umana s'è accanita contro di lui. Egli non ha esperimentata la perversità degli estranei ma quella delle sue creature. Intendi? Il suo stesso sangue s'è inviperito in altri esseri ch'egli ha sempre amato ed aiutato, che ama ancóra, che non sa maledire, che certamente benedirà nell'ora della morte, anche se lo lasceranno morir solo. Non è straordinaria, quasi incredibile, questa pertinacia d'un uomo nella bontà? Dopo tutto quel che ha sofferto, egli ha potuto conservare il sorriso che tu gli hai veduto! Farai bene, Tullio, a non dimenticare quel sorriso...

 

 


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