Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'innocente
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E così ricominciò la mia fatica alla Badiola e continuò trista, senza episodii notevoli, mentre l'ora s'indugiava nel quadrante solare aggravata dalla monotonia delle cicale che frinivano su gli olmi. Hora est benefaciendi!

E nel mio spirito si avvicendarono i soliti fermenti, le solite inerzie, i soliti sarcasmi, le solite vane aspirazioni, le solite crisi contraddittorie: l'abondanza e l'aridità. E più d'una volta, considerando quella cosa grigia neutra mediocre fluida e onnipossente che è la vita, pensai: «Chi sa! L'uomo è, sopra tutto, un animale accomodativo. Non c'è turpitudine o dolore a cui non s'adatti. Può anche essere che io finisca con un accomodamento. Chi sa!».

Mi sterilivo a furia d'ironie. «Chi sa che il figlio di Filippo Arborio non sia, come si dice, tutto il mio ritratto. L'accomodamento allora sarà anche più facile.» E ripensavo alla triste voglia di ridere che m'era venuta una volta sentendo dire d'un bimbo (che io sapevo sicuramente adulterino) alla presenza dei legittimi coniugi: - Tutto suo padre! - E la somiglianza era straordinaria, per quella misteriosa legge che i fisiologi chiamano eredità d'influenza.

Per quella legge il figlio talvolta non somiglia né al padre né alla madre, ma somiglia all'uomo che ha avuto con la madre un contatto anteriore alla fecondazione. Una donna maritata in seconde nozze, tre anni dopo la morte del primo marito, genera figli che hanno tutti i lineamenti del marito defunto e non somigliano in nulla a colui che li ha procreati.

«Può essere dunque che Raimondo porti la mia impronta e sembri un Hermil autentico» pensavo. «Può essere che io riceva speciali congratulazioni per avere impresso con tanto vigore all'Erede il suggello gentilizio

«E se l'aspettazione di mia madre, di mio fratello fosse delusa? Se Giuliana desse alla luce una terza femmina?» Questa probabilità mi quietava. Mi pareva che avrei avuta una repulsione minore verso la neonata e che avrei potuto forse anche sopportarla. Ella col tempo si sarebbe allontanata dalla mia casa, avrebbe preso un altro nome, avrebbe vissuto in mezzo a un'altra famiglia.

Intanto, come più s'avvicinava il termine, l'impazienza diveniva più fiera. Ero stanco di aver sempre avanti agli occhi quel ventre enorme che cresceva senza misura. Ero stanco di dibattermi sempre nella medesima sterile agitazione, tra i medesimi timori e le medesime perplessità. Avrei voluto che gli eventi precipitassero, che infine una qualunque catastrofe si producesse. Qualunque catastrofe era preferibile a quell'orribile agonia.

Un giorno, mio fratello domandò a Giuliana:

- Ebbene? Quanto tempo ancóra?

Ella rispose:

- Ancóra un mese!

Io pensai: «Se la storia del minuto di debolezza è vera, ella deve conoscere il giorno preciso del concepimento».

Eravamo in settembre. L'estate era per morire. Era prossimo l'equinozio d'autunno, il più dolce tempo dell'anno, quel tempo che sembra portare in sé una specie di ebrietà aerea diffusa dalle uve mature. L'incanto mi penetrava a poco a poco, mi ammolliva l'anima; qualche volta mi dava un bisogno smanioso di tenerezze, di espansioni delicate. Maria e Natalia passavano lunghe ore con me, sole con me, nelle mie stanze o fuori per la campagna. Io non le avevo mai amate d'un amore così profondo e così gentile. Da quegli occhi impregnati di pensiero appena consciente mi scendeva qualche volta nell'intimo spirito un raggio di pace.

 

 


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