Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'innocente
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Un giorno andavo in cerca di Giuliana, per la Badiola. Erano le prime ore del pomeriggio. Non avendola trovata nelle sue stanze, non avendola trovata altrove, entrai nell'appartamento di mia madre. Le porte erano aperte; non si udivano vocirumori; le tende leggere delle finestre palpitavano; s'intravedeva pei vani il verde degli olmi; una lene aura di rezzo spirava fra le pareti chiare.

Mi avanzai verso il santuario, con cautela. Prevedendo il caso che mia madre dormisse, camminavo piano per non disturbarla. Discostai le portiere, mi affacciai dalla soglia. Udii infatti un respiro di dormiente. Vidi mia madre addormentata su una poltrona accanto alla finestra; vidi, fuor della spalliera d'un'altra poltrona, i capelli di Giuliana. Entrai.

Stavano l'una di contro all'altra, e in mezzo a loro stava un tavolo basso con sopra una canestra piena di cuffie minuscole. Mia madre teneva ancóra fra le dita una di quelle cuffie, in cui riluceva un ago. Il sonno era venuto a inchinarle il capo, nell'atto del lavoro. Col mento sul petto, ella dormiva; sognava forse. La gugliata bianca era rimasta a mezzo, ma ella filava forse nel sogno un filo più prezioso.

Giuliana anche dormiva, ma con la testa abbandonata alla spalliera, con le mani posate lungo i bracciuoli. I suoi lineamenti s'erano come distesi nella dolcezza del sonno; ma la sua bocca conservava una piega triste, un'ombra d'afflizione: socchiusa, mostrava un poco della gengiva esangue; ma alla radice del naso, tra i sopraccigli, rimaneva il piccolo solco scavato dal grande dolore. E la fronte era madida: una stilla rigava lenta una tempia. E le mani, più bianche della mussolina da cui escivano, parevano confessare con la loro posa esse sole una immensa stanchezza. Su nessuna di queste spirituali apparenze io mi fermai come sul grembo che conteneva omai l'essere già completo. E ancóra una volta, astraendo da quelle apparenze, astraendo da Giuliana, sentii vivere quella creatura isolata come se null'altro in quel momento vivesse accanto a me, intorno a me, null'altro. E ancóra una volta non fu una sensazione illusoria ma reale e profonda; fu un raccapriccio che mi agitò tutte le fibre.

Girai gli occhi; e rividi tra le dita di mia madre la cuffia in cui riluceva l'ago; rividi nella canestra tutti quei merletti leggeri e quei nastri rosei e cilestri che tremolavano al soffio del vento. Mi si strinse il cuore così forte che credetti mancare. Quanta tenerezza rivelavano le dita di mia madre sognante su quella gentile cosa bianca che doveva coprire il capo del figliuolo non mio!

Restai qualche minuto. Quel luogo era veramente il santuario della casa, il penetrale. Su una parete pendeva il ritratto di mio padre, che somigliava molto a Federico; su l'altra, il ritratto di Costanza, che somigliava un poco a Maria. Le due figure, esistenti dell'esistenza superiore che dànno le memorie dei cari ai cari scomparsi, avevano gli occhi magnetici e seguaci, una specie d'onniveggenza. Altre reliquie dei due scomparsi santificavano quel luogo. In un angolo, su un plinto, stava chiusa in cristalli, coperta d'un velo nero, la maschera formata sul cadavere dell'uomo che mia madre amava d'un amore più forte della morte. Eppure nulla era lugubre dentro. Una sovrana pace vi regnava e pareva diffondersi per tutta la casa come da un cuore si diffonde la vita, armonicamente.

 

 


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