Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'innocente
Lettura del testo

-31-

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

-31-

 

Fu tra le quattro e le cinque del mattino. Le doglie s'erano protratte fino a quell'ora, con qualche intervallo di riposo. Verso le tre il sonno m'aveva colto, all'improvviso, sul divano dove stavo seduto, nella stanza contigua. Cristina mi svegliò; mi disse che Giuliana voleva vedermi.

Nella confusione del risveglio, balzai in piedi ancóra abbacinato dal sonno.

- Ho dormito? Che accade mai? Giuliana...

- Non si spaventi. Non è accaduto nulla. I dolori si sono calmati. Venga a vedere

Entrai. Vidi sùbito Giuliana.

Ella era adagiata su i guanciali, pallida come la sua camicia, quasi esanime. Incontrai sùbito i suoi occhi, perché erano volti alla porta in attesa di me. I suoi occhi mi sembrarono più larghi, più profondi, più cavi, cerchiati d'un maggior cerchio d'ombra.

- Vedi, - ella disse con una voce spirante - sto ancora così.

E non cessò di guardarmi. I suoi occhi, come quelli della principessa Lisa, dicevano: «Aspettavo un aiuto da te, e tu non mi aiuti, neppur tu!».

- Il dottore? - domandai a mia madre, ch'era con un'aria abbattuta.

Ella mi accennò una porta. Io mi diressi verso quella. Entrai. Vidi il dottore presso a un tavolo su cui erano varii medicinali, una busta nera, un termometro, fasce, compresse, fiaschi, alcuni tubi di forma speciale. Il dottore aveva tra le mani un tubo elastico a cui stava adattando un catètere; e dava istruzioni a Cristina, sottovoce.

- Ma dunque? - io gli chiesi bruscamente. - Che c'è?

- Nulla di allarmante, per ora.

- E tutti questi preparativi?

- Precauzioni.

- Ma quanto durerà ancóra quest'agonia?

- Siamo alla fine.

- Parlatemi franco; vi prego. Prevedete una disgrazia? Parlatemi franco.

- Non si annuncia per ora nessun pericolo grave. Temo però una emorragia; e prendo le mie precauzioni. L'arresterò. Abbiate fiducia in me e siate calmo. Ho notato che la vostra presenza agita molto Giuliana. In quest'ultimo breve periodo ella ha bisogno di tutte le forze che le rimangono. È necessario che voi vi allontaniate. Promettetemi d'obedirmi. Entrerete quando vi chiamerò.

Ci giunse un grido.

- Ricominciano i dolori - egli disse. - Ci siamo. Calma, dunque!

E si diresse verso la porta. Io lo seguii. Ambedue ci avvicinammo a Giuliana. Ella m'afferrò il braccio e me lo strinse come in una morsa. Le restava dunque ancóra quella forza?

- Coraggio! Coraggio! Ci siamo. Tutto andrà bene. È vero, dottore? - balbettai.

- Sì, sì. Non c'è tempo da perdere. Lasciate, Giuliana, che vostro marito esca di qui.

Ella guardò il dottore e me, con gli occhi spalancati. Lasciò il mio braccio.

- Coraggio! - ripetei soffocato.

La baciai su la fronte molle di sudore, mi volsi per andarmene.

- Ah, Tullio! - Ella gridò dietro di me con un grido lacerante che segnificava: «Non ti vedrò più».

Io feci l'atto di tornare a lei.

- Via, via - ordinò il dottore, con un gesto imperioso.

Volli obedire. Qualcuno serrò l'uscio dietro di me. Rimasi qualche minuto , in piedi, ad ascoltare; ma le ginocchia mi vacillavano, ma il battito del cuore soverchiava qualunque altro strepito. Andai a gittarmi sul divano; mi misi il fazzoletto tra i denti, affondai la faccia in un cuscino. Soffrivo anch'io uno strazio fisico, simile forse a quello d'un'amputazione mal praticata e lentissima. Gli urli della partoriente mi giungevano a traverso l'uscio. E ad ognuno di quegli urli io pensavo: «Questo è l'ultimo». Negli intervalli udivo un mormorio di voci feminili: forse i conforti di mia madre, della levatrice. Un urlo più acuto e più inumano degli altri. «Questo è l'ultimo.» E balzai in piedi esterrefatto.

Non potevo dare un passo. Alcuni minuti trascorsero; trascorse un tempo incalcolabile. Come lampi velocissimi, m'attraversarono il cervello pensieri, imagini. «È nato? E se ella fosse morta? E se ambedue fossero morti? la madre e il figlio? No, no. Ella certamente è morta; ed egli è vivo. Ma perché nessun vagito? L'emorragia, il sangue...» Vidi il lago rosso, e, in mezzo, Giuliana boccheggiante. Vinsi il terrore che m'irrigidiva e mi slanciai contro l'uscio. L'apersi, entrai.

Udii sùbito la voce del chirurgo che mi gridava aspra:

- Non v'accostate! Non la scuotete! Volete ucciderla?

Giuliana pareva morta, più pallida del suo guanciale, immobile. Mia madre stava china sopra di lei reggendo una compressa. Grandi macchie di sangue rosseggiavano sul letto, macchie di sangue tingevano il pavimento. Il chirurgo preparava un «irrigatore» con una sollecitudine calma ed esatta: - le sue mani non tremavano, sebbene la sua fronte fosse corrugata. Un bacino d'acqua bollente fumigava in un angolo. Cristina aggiungeva acqua con una brocca in un altro bacino, tenendovi immerso il termometro. Un'altra donna portava nella stanza contigua un fascio d'ovatta. C'era nell'aria l'odore dell'ammoniaca e dell'aceto.

Le minime particolarità della scena, abbracciata con un solo sguardo, mi rimasero impresse indelebilmente.

- A cinquanta gradi - disse il dottore, volgendosi verso Cristina. - Attenta!

Io cercavo intorno, non udendo il vagito. Qualcuno mancava dentro.

- E il bambino? - chiesi tremando.

- È di , nell'altra stanza. Andate a vederlo - mi rispose il dottore. - Rimanete .

Gli indicai Giuliana con un gesto disperato.

- Non temete. Qua l'acqua, Cristina.

Entrai nell'altra stanza. Mi giunse all'orecchio un vagito fievolissimo, appena udibile. Vidi su uno strato d'ovatta un corpicciuolo rossastro, qua e violaceo, sotto le mani scarne della levatrice, che lo stropicciavano nel dorso e nelle piante dei piedi.

- Venga, venga, signore; venga a vedere - disse la levatrice continuando a stropicciare. - Venga a vedere che bel maschio. Non respirava; ma ora non c'è più pericolo. Guardi che maschio!

Ella rivoltò il bambino, lo coricò sul dorso, mi mostrò il sesso.

- Guardi!

Afferrò il bambino e lo agitò nell'aria. I vagiti divennero un po' più forti.

Ma io avevo negli occhi uno scintillio strano che m'impediva di veder bene; avevo in tutto l'essere una ottusità strana che m'impediva la percezione esatta di tutte quelle cose reali e violente.

- Guardi! - mi ripeté ancóra la levatrice coricando di nuovo su l'ovatta il bambino che vagiva.

Ora vagiva forte. Respirava, viveva! Mi chinai su quel corpicciuolo palpitante che odorava di licopodio; mi chinai a guardarlo, a esaminarlo, per riconoscere la somiglianza aborrita. Ma la piccola faccia turgida, ancóra un po' livida, con i globi oculati sporgenti, con la bocca gonfia, col mento obliquo, difforme, quasi non aveva aspetto umano; e non m'ispirò se non ribrezzo.

- Appena nato - balbettai - appena nato, non respirava...

- No, signore. Un po' d'apoplessia...

- Come mai?

- Aveva il cordone attorcigliato intorno al collo. E poi, forse il contatto del sangue nero...

Ella parlava attendendo alla cura del bambino; e io guardavo quelle mani scarne che lo avevano salvato e che ora avviluppavano delicatamente il cordone ombelicale in una pezzetta spalmata di burro.

- Giulia, dammi la fascia.

E, fasciando il ventre del bambino, soggiunse:

- Questo oramai è assicurato. Dio lo benedica!

E le sue mani esperte presero la testina molliccia come per plasmarla. Il bambino vagiva sempre più forte; vagiva con una specie di rabbia, agitandosi tutto, conservando quell'apparenza apoplettica, quel rossore paonazzo, quell'aspetto di cosa ributtante. Vagiva sempre più forte come per darmi una prova della sua vitalità, come per provocarmi, per esasperarmi.

Viveva, viveva. E la madre?

Rientrai nell'altra stanza, all'improvviso, demente.

- Tullio!

Era la voce di Giuliana, debole come quella d'un'agonizzante.

 

 


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL