Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Canzone per la tomba di Giosue Carducci

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Canzone
per la tomba di Giosue Carducci
[xviii febbraio mcmvii]

Madre turrita, qual trionfo tuona

oggi lungh’esso il portico solenne,

dove la neve è come fermo ardore?

In te la Libertà si rincorona

col ramo tronco dalla tua bipenne,

domato il figlio dell’Imperatore?

E rifarsi romano il tuo valore

senti improvviso come allor che sola

tu glossa ed azza, tu balestra e giure

trattavi con man dure,

latina alla tua guerra e alla tua scola,

dalla bocca magnanima d’Irnerio

redando il verbo dell’antico imperio?

O città roggia, pe’ tuoi muri accesi

i grumi del tuo sangue più rubesto

splendono come in giorno combattuto?

Popolo di Bologna, alza i palvesi

della tua giovinezza intorno a questo

ultimo de’ tuoi Consoli caduto.

E tutte le tue trombe su Lui muto

suona come nel maggio di Fossalta

per il Re catenato alla tua gloria.

E il segno di vittoria,

il gonfalon crociato, in cima all’alta

asta garrisca e ad ora ad or percuota

Lui sul carroccio dalla ferrea ruota.

Lui non tràggano in bara cui sovrasti

l’usata coltre i gravi di gramaglia

cavalli addotti fra la pompa vana;

ma nel carroccio i buoi d’Emilia vasti

che mugghiavano in mezzo alla battaglia,

squillando su l’antenna la campana.

E nella piazza tua republicana,

tra il tuo Palagio ed il tuo Tempio, o gente

concorde, intendi il cuore e ti sofferma;

ché vedrai forse un’erma

Ombra salir silenziosamente

da quel deserto cui gran fato incombe,

dove Ravenna cova le sue tombe.

Vedrai salir nel ciel trascolorito,

sopra la selva delle torri fosca,

la sdegnosa di pace Ombra eternale.

Chinarsi la vedrai dall’infinito

silenzio, come s’ella riconosca

il suo vestigio nella spoglia frale;

poi crescer lume con un batter d’ale

intorno al fronte dell’eroe supino

che da lei seppe come l’uom s’eterna;

e al Sol che sempre verna

assumere con impeto aquilino

la superstite forza di quel canto

che fece il santo Nome a noi più santo.

Necessità del fuoco, hai risplenduto!

Come il vicin suo grande, anch’Egli in piaggia

fatale ha la divina sua foresta:

non sul lito di Chiassi, ove il rifiuto

del flutto è ancor grandezza e la selvaggia

voce del vento immensi orgogli attesta;

ma sul lito di Luni ove non resta

se non la polve dei sepolcri, e il carme

dell’àugure, e il veggente occhio del Sole.

Quivi certo Egli vuole,

alto combattitor spoglio dell’arme,

sul rogo estrutto nel mattin sereno

esser fiamma tra l’Alpe e il Mar Tirreno.

O fùnebre convoglio per l’arcana

dei gioghi solitudine ove udiva

Egli cozzar degli avi umbri le scuri!

Primo grido dell’aquila apuana,

scoppio dei fonti dalla rupe viva,

apparito candor dei marmi puri!

Alla forza dei fiumi nascituri,

all’ignota beltà dei simulacri

profondàti nell’ìnvide matrici,

e a voi, liberatrici

Muse dal vasto petto, si consacri

il fuoco impenetrabile. E tu il coro

muovi, Polìmnia dalla bocca d’oro.

Tutta la morte della terra etrusca

sente il prodigio e freme di memoria:

il bronzo vibra in fondo all’ipogeo?

Maravigliosamente il Mar corusca,

dalla Palmària fino alla Melòria:

per le navi dei Mille o d’Odisseo?

Approda il teschio del treicio Orfeo,

forse, sul giogo della cava lira

navigante dal freddo Ebro lontano?

O forse è quel Titano

entro virginee forme, che sospira

per Antigone e il talamo le appresta

ineffabile a fior della tempesta?

Or Clio, mentre s’incénera la salma

fra il croscio degli aromi, le sue sante

mani protende verso il cuore intatto.

Lo rapisce all’incendio; e nella palma

lo solleva qual porpora fumante

verso il Sole, bellissima nell’atto.

«Ed ecco» dice «questo cuor che ho tratto

dal fuoco impenetrabile (s’aduna

ancóra in lui la rossa ira dell’Ode),

o Sol, questo cuor prode

io lo darò pegno d’amore ad Una

che taciturna sta nelle sue lande,

o Sole, e nulla scorgi di più grande.

Rechi il mésso tra l’Àposa ed il Reno

le ceneri del duro artiere insonne;

e l’arca di granito le comprenda.

Tra il popol rude, a torbido e a sereno,

riposi l’arca su le sue colonne

per l’ombra china della Garisenda.

Ma questo cuor, che fu della tremenda

e dolce Roma, Roma custodisca

nel Fòro ove più Roma è taciturna,

tra il Fonte di Giuturna

e i sepolcreti della gente prisca.

Oda ancóra discender nel sacrario

le custodi del Fuoco solitario

Compagna ardente della mia vigilia

ch’io vigilai tenendomi in disparte

per l’animo agguagliare al gran retaggio,

Canzon, tu vammi ostaggio

ch’io guarderò mia fede a Lui che parte.

La fiaccola che viva Ei mi commette

l’agiterò su le più aspre vette.



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