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S'approssimava la sera. Scesi alla cappella, vidi i preparativi della Novena; il presepe, i fiori, le candele vergini. Uscii senza sapere perché; guardai la finestra della stanza di Raimondo. Camminai a passi rapidi su e giù per lo spiazzo, sperando di domare il tremore convulso, il freddo acuto che mi penetrava le ossa, le contratture che mi serravano lo stomaco vacuo.
Era un crepuscolo glaciale, polito, quasi direi tagliente. Un lividore verdastro si dilatava su l'orizzonte lontano, in fondo alla valle plumbea ove s'internava l'Assòro tortuoso. Il fiume luccicava, solo.
Uno sgomento repentino m'invase. Pensai: «Ho paura?». Mi pareva che qualcuno, invisibile, mi guardasse l'anima. Provavo lo stesso malessere che dànno talvolta gli sguardi troppo fissi, magnetici. Pensai: «Ho paura? Di che? Di compiere l'atto o di essere scoperto da qualcuno?». Mi sgomentavano le ombre dei grandi alberi, l'immensità del cielo, i luccichii dell'Assòro, tutte quelle voci vaghe della campagna. Sonò l'Angelus. Rientrai, quasi di fuga, come inseguito.
Incontrai mia madre nell'andito non ancóra illuminato.
- Di fuori. Ho passeggiato un poco.
- A che ora comincia la Novella?
- Alle sei.
Erano le cinque e un quarto. Mancavano tre quarti d'ora. Bisogna vigilare.
Dopo qualche passo la richiamai.
- No.
Salii alla stanza di Giuliana. Ella m'aspettava. Cristina preparava la piccola tavola.
- Dove sei stato fino a ora? - mi chiese la povera malata, con un lieve tono di rimprovero.
- Sono stato là, con Maria, con Natalia... Sono stato a vedere la cappella.
- Già, stasera comincia la Novena - ella mormorò tristamente, accorata.
- Di qui potrai sentire forse i suoni.
Ella restò pensosa per qualche istante. Mi sembrò molto triste, d'una di quelle tristezze un po' molli che rivelano un cuore gonfio di pianto, un bisogno di lacrime.
- Mi ricordo del mio primo Natale alla Badiola. Te ne ricordi tu?
Ella era tenera e commossa; e richiamava la mia tenerezza, si abbandonava a me per essere blandita, per essere cullata, perché io le premessi il cuore e le bevessi le lacrime. Conoscevo quei suoi languori dolenti, quei suoi affanni indefiniti. Ma pensavo, ansioso: «Bisogna che io non la secondi. Bisogna che io non mi lasci legare. Il tempo fugge. Se ella mi prende, mi sarà difficile distaccarmi da lei. Se ella piange, io non potrò allontanarmi. Bisogna che io mi contenga. Il tempo precipita. Chi rimarrà a guardia di Raimondo? Non mia madre, certo. Probabilmente la nutrice. Tutti gli altri si raccoglieranno nella cappella. Qui metterò Cristina. Io sarò sicuro. Il caso non potrebbe essermi più favorevole. Bisogna che fra venti minuti io sia libero».
Evitai di eccitare la malata, finsi di non comprenderla, non corrisposi alle sue effusioni, cercai di distrarla con oggetti materiali, feci in modo che Cristina non ci lasciasse soli come nelle altre sere d'intimità, mi occupai della cena con esagerata premura.
- Perché stasera non mangi con me? - ella mi chiese.
- Non posso prender nulla, ora; non sto bene. Mangia tu qualche cosa; ti prego!
Per quanti sforzi io facessi non riuscivo a dissimulare interamente l'ansietà che mi divorava. Più volte ella mi guardò con l'intenzione manifesta di penetrarmi. Poi d'un tratto s'accigliò, diventò taciturna. Toccò appena appena qualche cibo, bagnò appena appena le labbra nel bicchiere. Io raccolsi tutto il mio coraggio allora, per andarmene. Finsi di aver udito il rumore d'una vettura. Mi misi in ascolto, dissi:
- Forse è tornato Federico. Ho bisogno di vederlo sùbito... Permetti che vada giù un momento. Rimane qui Cristina.
La vidi alterata nel volto come chi sia per rompere in un pianto. Non aspettai il suo consenso. Uscii in fretta; ma non trascurai di ripetere a Cristina che rimanesse fino a che io non fossi risalito.
Appena fuori, fui costretto a fermarmi per resistere alla soffocazione dell'ambascia. Pensai: «Se non riesco a dominare i miei nervi, tutto è perduto». Tesi l'orecchio, ma non udii se non il rombo delle mie arterie. M'avanzai per l'andito fino alle scale. Non incontrai nessuno. La casa era silenziosa. Pensai: «Tutti già sono nella cappella, anche i domestici. Non c'era nulla da temere». Aspettai due o tre minuti ancóra, per ricompormi. In quei due o tre minuti l'intensione del mio spirito cadde. Ebbi uno smarrimento strano. Mi passarono pel cervello pensieri vaghi, insignificanti, estranei all'atto che stavo per compiere. Contai macchinalmente i balaustri della ringhiera.
«Certo Anna è rimasta. La stanza di Raimondo non è lontana dalla cappella. I suoni annunzieranno il principio della Novena.» Mi diressi verso la porta. Prima di giungervi, udii il preludio delle cornamuse. Entrai senza esitare. Non m'ero ingannato.
Anna stava in piedi, presso la sua sedia, atteggiata in modo così vivo ch'io sùbito indovinai ch'ella era allora allora balzata in piedi udendo le cornamuse della sua montagna, il preludio della pastorale antica.
Ella m'accennò di sì col capo.
I suoni continuavano, velati dalla distanza, dolci come in un sogno, un po' rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia ingenua e indimenticabile su l'accompagnamento delle cornamuse.
- Va anche tu alla Novena - io le dissi. - Resto io qui. Da quanto tempo s'è addormentato?
- Ora.
Gli occhi le brillarono.
- Vado?
- Sì. Resto io qui.
Le aprii la porta io stesso; la chiusi dietro di lei. Corsi verso la culla, su la punta dei piedi; guardai da presso. L'Innocente dormiva nelle sue fasce, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A traverso il tessuto delle palpebre apparivano per me le sue iridi grige. Ma non sentii sollevarmi dal profondo nessun impeto cieco di odio né d'ira. La mia avversione contro di lui fu meno acre che nel passato. Mi mancò quell'impulso istintivo che più d'una volta avevo sentito correre fino alle estremità delle mie dita pronte a qualunque violenza criminale. Io non obedii se non all'impulso d'una volontà fredda e lucida, in una perfetta consapevolezza.
Tornai alla porta, la riaprii; m'assicurai che l'andito era deserto. Corsi allora alla finestra. Mi vennero alla memoria alcune parole di mia madre; mi balenò il dubbio che Giovanni di Scòrdio potesse trovarsi là sotto nello spiazzo. Con infinite precauzioni aprii. Una colonna d'aria gelata m'investì. Mi sporsi sul davanzale, ad esplorare. Non vidi nessuna forma sospetta, non udii se non i suoni della Novena diffusi. Mi ritrassi, mi avvicinai alla culla, vinsi con uno sforzo l'estrema ripugnanza; presi adagio adagio il bambino, comprimendo l'ansia; tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai alla finestra; l'esposi all'aria che doveva farlo morire.
Non mi smarrii; nessuno dei miei sensi s'oscurò. Vidi le stelle del cielo che oscillavano come se un vento superno le agitasse; vidi i moti illusorii ma terrifici che la luce mobile della lampada metteva nella portiera; udii distintamente la ripresa della pastorale, i latrati d'un cane lontano. Un guizzo del bambino mi fece trasalire. Egli si svegliava.
Pensai: «Ora piange. Quanto tempo è passato? Un minuto, forse; neppure un minuto. Basterà quest'impressione breve perché egli muoia? È stato egli colpito?». Il bambino agitò le braccia d'innanzi a sé, storse la bocca, l'aprì; tardò un poco a emettere il vagito che mi parve mutato, più esile, più tremulo, ma forse soltanto perché sonava in un'aria diversa mentre io l'avevo udito sempre in luoghi chiusi. Quel vagito esile, tremulo, m'empì di sgomento, mi diede a un tratto una paura folle. Corsi alla culla, posai il bambino. Tornai alla finestra per chiuderla; ma prima di chiuderla, mi sporsi sul davanzale, gittai nell'ombra uno sguardo, non vidi null'altro che le stelle. Chiusi. Benché incalzato dal pànico, evitai il rumore. E dietro di me il bambino piangeva, piangeva più forte. «Sono salvo?» Corsi alla porta, guardai nell'andito, origliai. L'andito era deserto; passava l'onda lenta dei suoni.
«Sono salvo dunque. Chi può avermi veduto?» Pensai ancóra a Giovanni di Scòrdio, guardando la finestra; ebbi ancóra un'inquietudine. «Ma no, giù non c'era nessuno. Ho guardato due volte.» Mi ravvicinai alla culla, raddrizzai il corpo del bambino, lo copersi con cura, m'assicurai che nulla era fuor di posto. Ora però avevo una ripugnanza invincibile ai contatti. Egli piangeva, piangeva. Che potevo fare per quietarlo? Aspettai.
Ma quel vagito continuo in quella grande stanza solitaria, quel lagno inarticolato della vittima ignara mi straziava così atrocemente che non potendo più resistere m'alzai per sottrarmi in qualche modo alla tortura. Uscii nell'andito, socchiusi la porta dietro di me; rimasi là vigilando. La voce del bambino giungeva appena appena, si confondeva nell'onda lenta dei suoni. I suoni continuavano, velati dalla lontananza, dolci come in un sogno, un po' rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia semplice su l'accompagnamento delle cornamuse. La pastorale si spandeva per la grande casa pacifica, giungeva forse alle stanze più remote. - L'udiva Giuliana? Che pensava, che sentiva Giuliana? Piangeva?
Non so perché, m'entrò nel cuore questa certezza: «Ella piange». E dalla certezza nacque una visione intensa che mi diede una sensazione reale e profonda. I pensieri e le imagini che mi attraversavano il cervello erano incoerenti, frammentarii, assurdi, composti di elementi che l'uno all'altro non rispondevano, inafferrabili, d'una natura dubbia. M'assalì la paura della follia. Mi domandai: «Quanto tempo è passato?». E m'accorsi che avevo completamente smarrita la nozione del tempo.
I suoni cessarono. Pensai: «La divozione è finita. Anna sta per risalire. Verrà forse mia madre. Raimondo non piange più!». Rientrai nella stanza, gittai uno sguardo intorno per assicurarmi ancóra una volta che non rimaneva alcuna traccia dell'attentato. M'appressai alla culla, non senza un vago timore di trovare il bambino esanime. Egli dormiva, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. «Dorme! È incredibile. Pare che nulla sia accaduto.» Quel che avevo fatto parve assumere l'inesistenza d'un sogno. Ebbi come un mancamento repentino di pensieri, un intervallo vacuo, aspettando.
Appena riconobbi nell'andito il passo greve della nutrice, le andai incontro. Mia madre non la seguiva. Senza guardarla in faccia, le dissi:
E m'allontanai rapidamente: salvo!