Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'innocente
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Quando la sera cadde, Raimondo non viveva più. Tutti i segni d'una intossicazione acuta di acido carbonico erano in quel corpicciuolo incadaverito. La piccola faccia era livida, quasi plumbea; il naso era affilato; le labbra avevano una cupa tinta cerulea; un po' di bianco opaco s'intravedeva di sotto alle palpebre ancóra semichiuse; su una coscia, presso l'inguine, appariva una chiazza rossastra. Pareva che fosse già incominciato il disfacimento, tanto era miserabile l'aspetto di quella carne infantile che poche ore innanzi tutta rosea e tenera le dita di mia madre avevano accarezzata.

Mi rombavano negli orecchi i gridi, i singhiozzi, le parole insensate che mia madre proferiva mentre Federico e le donne la trasportavano fuori.

- Nessuno lo tocchi, nessuno lo tocchi! Io voglio lavarlo, io voglio fasciarlo... io...

Nulla più. I gridi erano cessati. Giungeva a quando a quando uno sbattere di uscì. Ero , solo. Anche il medico era nella stanza; ma io ero solo. Qualche cosa di straordinario avveniva in me; ma io non ci vedevo ancóra.

- Andate, - mi disse il medico, dolcemente, toccandomi una spalla - andate via di qui. Andate.

Io fui docile; obedii. M'allontanavo per l'andito con lentezza, quando mi sentii di nuovo toccare. Ed era Federico; e mi abbracciò. Ma io non piansi, non provai una commozione forte, non compresi le parole ch'egli proferiva. Udii però nominare Giuliana.

- Conducimi da Giuliana - gli dissi.

Misi il braccio sotto il suo, mi lasciai condurre come un cieco.

Quando fummo d'innanzi alla porta gli dissi:

- Lasciami.

Egli mi strinse forte il braccio; poi mi lasciò. Entrai solo.

 

 


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