Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Intermezzo
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Preludio 1.

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Preludio 1.

Νῦν ἔγνων τὸν Ἔρωτα· βαρὺς θεός.

Io giacqui su la mia terra feconda

e nel puro silenzio del mio cuore

dormente la sua voce udii profonda.

E desto anche l’udii senza terrore

mentre specchiava il mio sereno sguardo

le meraviglie de le prime aurore.

Poi su’ fiumi e su’ mari fui gagliardo

pilota e governai la Nave bella

come un cigno e veloce come un dardo.

Per me solo splendeva su la snella

prora il Mostro spiegando a le fortune

la grande ala che attinto avea la stella.

E per me solo ne la notte illune,

mentre lugùbri scintillavan l’Orse

e il Mar ruggiva a le deserte dune,

su da la snella prora il Mostro sorse

a volo dileguando verso un regno

invisibile; e il cor mi disse: — Forse! —

Vigile attesi in ogni notte il Segno

trionfale. Non era il Mar, non era

il Cielvasto come il mio disegno.

Gittai l’anima mia dietro la fiera

portentosa; e nel fuoco dei tramonti

sol vidi rosseggiar la sua criniera.

Ma non lungi, di da gli alti monti

sonori di profondi antri marini,

presso le sirti infami nei racconti

dei piloti, splendevano i Giardini

dei narcotici fiori e de le donne

ambigue dai grandi occhi sibillini.

Giungea talvolta un canto al cuore insonne.

E colui che con grande animo accinto

s’era a trascorrer oltre le Colonne

d’Ercole ed oltre ogni confine attinto

già da l’orgoglio d’un conquistatore,

ascoltò la lusinga e ne fu vinto.

Giungea di sopra ai culmini un odore

sconosciuto, malefico e pur tanto

dolce che mi si disfaceva il cuore.

Ed era in quell’odore ed in quel canto

quasi una visione di mature

frutta e di gomme come un ricco pianto

gravi e di miele e di capellature

musicali e di belle bocche ardenti

e di tutte le belle cose impure.

Mi schernirono senza gioia i Vènti

fieri, per la fatal notte serena,

garrendo ne le vele e tra i rudenti

quando urtò su la sirte la carena

sonora. Ma il mio piede coturnato

si profondò ne la fallace arena.

Solo mi volsi verso l’ignorato

dominio de l’Inganno e del Piacere;

e mi tremava il cor nel petto armato.

Udìa, come in un sogno, pel verziere

cupo stillare i lenti eleomèli

in ritmo, i pomi languidi cadere;

vedea splender ne l’ombra gli asfodeli

pallidi come su le vie de l’Ade.

E Cinosura in vano arse ne’ cieli.

Le selve de le spine e de le spade

rase dietro di me l’oblìo. Di sangue

l’arme non s’imperlò ma di rugiade.

Una donna furtiva come un angue

venne e mi slacciò l’arme facilmente.

Tanto vigore in quella mano esangue!

E si compiacque ne l’Adolescente.

Ed io nel suo giaciglio tutte appresi

le frodi de la carne sapiente.

Era una e diversa. Eran palesi

nel suo corpo le origini divine

e bestiali. L’oro dei paesi

scomparsi ove fiorivan le regine

Esperidi velato rilucea

ne la profondità de le feline

pupille; e tutti i filtri di Medea

davano ai baci suoi lenti un funesto

potere. Ella evocava ogni più rea

memoria di libidini, l’incesto

di Mirra, l’onta crètica; o vestita

di jacinto, solenne, con un gesto

parea svelare a l’anima stupita

tutti i misteri chiusi nel Petroma

sacro e sciòrre l’enigma de la Vita.

Górgone antica ne la grande chioma,

ella avea la potenza originale

del Sesso. Era colei che non si noma.

Ella era Circe ed Elena ed Onfale,

Dalila meretrice da le risa

terribili, Erodiade regale,

la Carne di delizie a lungo intrisa

nel lago d’olio all’Isola Junonia

e avvolta ne la porpora d’Elisa,

la Rosa de l’Inferno, la Demonia

primeva, l’Onta innominata in ogni

luogo ed in ogni età, la testimonia

immutabile d’ogni lutto e d’ogni

ruina, la Lussuria Onnipossente

madre a tutti i misteri e a tutti i sogni.

E si compiacque ne l’Adolescente.

Τίνος κεχρῆσθε, γυναῖκες;

In un vespro ella sparve dal Giardino.

La figlia di Perseide e del Sole

si diffuse ne l’oro vespertino?

Forse, il bel fronte cinta di viole

intempestive, andò verso un novello

Ospite mormorando le parole

oscure ch’egli udrà sino a l’avello,

e prese e trasse lui per le man fiere

che pur doveano conquistare il Vello.

O forse la turbaron ne le sere

estuose i cachinni del Priapo

salace; e a lui soggiacque in un verziere

segreto; e la ghirlanda che al suo capo

io cinsi rupper le deformi dita,

su uno strame di citiso e d’isapo.

Ma, com’ella ne l’oro disparita

fu, vennero leggiadre creature

a spargere d’oblìi la mia ferita.

Quando triste e inquieto da le alture

io riguardava il Mare, élleno schermo

faceanmi de le lor capellature.

E mi blandìan come un fanciullo infermo,

e con suoni e con canti per un rivo

mi conduceano sopra un palischermo!

Così, da tempo, vanamente io vivo

ne le blandizie de le vane Armide

sorridendo al piacere fuggitivo.

E colui che da l’alta prora vide

in fondo ai golfi scintillare i fari

cògniti, e li sdegnò, le scorze incide

curioso di belli fregi rari

e pago se il gentil prodigio attinga

la meraviglia ne’ vani occhi ignari.

O ne l’impari canne di Siringa

contèste insieme con la cera e il lino,

reclinato su l’anima solinga,

modula un suo rimpianto repentino,

un sùbito dolor, con passione

impreveduta, verso il Ciel divino,

contemplando per entro a le corone

dei fiori il Ciel profondo e solo come

una divina disperazione.

Egli ripensa il Mostro senza nome

la cui groppa ampia tra le due grandi ale,

già ferma sotto gigantesche some,

piegava sotto il peso del regale

Sogno. E getta le canne, sbigottito.

E un’angoscia terribile l’assale.

E ascolta se non giùngagli il ruggito.


Animal triste


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