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Preludio 1.
Νῦν ἔγνων τὸν Ἔρωτα· βαρὺς θεός.
Io giacqui su la mia terra feconda
e nel puro silenzio del mio cuore
dormente la sua voce udii profonda.
E desto anche l’udii senza terrore
mentre specchiava il mio sereno sguardo
le meraviglie de le prime aurore.
Poi su’ fiumi e su’ mari fui gagliardo
pilota e governai la Nave bella
come un cigno e veloce come un dardo.
Per me solo splendeva su la snella
prora il Mostro spiegando a le fortune
la grande ala che attinto avea la stella.
E per me solo ne la notte illune,
mentre lugùbri scintillavan l’Orse
e il Mar ruggiva a le deserte dune,
su da la snella prora il Mostro sorse
a volo dileguando verso un regno
invisibile; e il cor mi disse: — Forse! —
Vigile attesi in ogni notte il Segno
trionfale. Non era il Mar, non era
il Ciel sì vasto come il mio disegno.
Gittai l’anima mia dietro la fiera
portentosa; e nel fuoco dei tramonti
sol vidi rosseggiar la sua criniera.
Ma non lungi, di là da gli alti monti
sonori di profondi antri marini,
presso le sirti infami nei racconti
dei piloti, splendevano i Giardini
dei narcotici fiori e de le donne
ambigue dai grandi occhi sibillini.
Giungea talvolta un canto al cuore insonne.
E colui che con grande animo accinto
s’era a trascorrer oltre le Colonne
d’Ercole ed oltre ogni confine attinto
già da l’orgoglio d’un conquistatore,
ascoltò la lusinga e ne fu vinto.
Giungea di sopra ai culmini un odore
sconosciuto, malefico e pur tanto
dolce che mi si disfaceva il cuore.
Ed era in quell’odore ed in quel canto
frutta e di gomme come un ricco pianto
gravi e di miele e di capellature
musicali e di belle bocche ardenti
e di tutte le belle cose impure.
Mi schernirono senza gioia i Vènti
fieri, per la fatal notte serena,
garrendo ne le vele e tra i rudenti
quando urtò su la sirte la carena
sonora. Ma il mio piede coturnato
si profondò ne la fallace arena.
Solo mi volsi verso l’ignorato
dominio de l’Inganno e del Piacere;
e mi tremava il cor nel petto armato.
Udìa, come in un sogno, pe ’l verziere
cupo stillare i lenti eleomèli
in ritmo, i pomi languidi cadere;
vedea splender ne l’ombra gli asfodeli
pallidi come su le vie de l’Ade.
E Cinosura in vano arse ne’ cieli.
Le selve de le spine e de le spade
rase dietro di me l’oblìo. Di sangue
l’arme non s’imperlò ma di rugiade.
Una donna furtiva come un angue
venne e mi slacciò l’arme facilmente.
Tanto vigore in quella mano esangue!
E si compiacque ne l’Adolescente.
Ed io nel suo giaciglio tutte appresi
le frodi de la carne sapiente.
Era una e diversa. Eran palesi
nel suo corpo le origini divine
scomparsi ove fiorivan le regine
ne la profondità de le feline
pupille; e tutti i filtri di Medea
davano ai baci suoi lenti un funesto
potere. Ella evocava ogni più rea
memoria di libidini, l’incesto
di Mirra, l’onta crètica; o vestita
di jacinto, solenne, con un gesto
parea svelare a l’anima stupita
tutti i misteri chiusi nel Petroma
sacro e sciòrre l’enigma de la Vita.
Górgone antica ne la grande chioma,
ella avea la potenza originale
del Sesso. Era colei che non si noma.
Ella era Circe ed Elena ed Onfale,
la Carne di delizie a lungo intrisa
nel lago d’olio all’Isola Junonia
e avvolta ne la porpora d’Elisa,
la Rosa de l’Inferno, la Demonia
primeva, l’Onta innominata in ogni
luogo ed in ogni età, la testimonia
immutabile d’ogni lutto e d’ogni
ruina, la Lussuria Onnipossente
madre a tutti i misteri e a tutti i sogni.
E si compiacque ne l’Adolescente.
In un vespro ella sparve dal Giardino.
La figlia di Perseide e del Sole
si diffuse ne l’oro vespertino?
Forse, il bel fronte cinta di viole
intempestive, andò verso un novello
oscure ch’egli udrà sino a l’avello,
e prese e trasse lui per le man fiere
che pur doveano conquistare il Vello.
O forse la turbaron ne le sere
salace; e a lui soggiacque in un verziere
segreto; e la ghirlanda che al suo capo
io cinsi rupper le deformi dita,
su uno strame di citiso e d’isapo.
Ma, com’ella ne l’oro disparita
fu, vennero leggiadre creature
a spargere d’oblìi la mia ferita.
Quando triste e inquieto da le alture
io riguardava il Mare, élleno schermo
faceanmi de le lor capellature.
E mi blandìan come un fanciullo infermo,
e con suoni e con canti per un rivo
mi conduceano sopra un palischermo!
Così, da tempo, vanamente io vivo
ne le blandizie de le vane Armide
sorridendo al piacere fuggitivo.
E colui che da l’alta prora vide
in fondo ai golfi scintillare i fari
cògniti, e li sdegnò, le scorze incide
e pago se il gentil prodigio attinga
la meraviglia ne’ vani occhi ignari.
O ne l’impari canne di Siringa
contèste insieme con la cera e il lino,
modula un suo rimpianto repentino,
impreveduta, verso il Ciel divino,
contemplando per entro a le corone
dei fiori il Ciel profondo e solo come
una divina disperazione.
Egli ripensa il Mostro senza nome
la cui groppa ampia tra le due grandi ale,
già ferma sotto gigantesche some,
piegava sotto il peso del regale
Sogno. E getta le canne, sbigottito.
E un’angoscia terribile l’assale.
E ascolta se non giùngagli il ruggito.